I tempi di cambiamento sono sempre tempi confusi. Il mio
amico Pierluigi Fagan direbbe che sono tempi complessi[1],
ma io penso nella sostanza che tutti i tempi lo siano e questi sono piuttosto
diversi perché gli schemi di interpretazione sono scossi. Si possono leggere
gli eventi come storia, inserendoli entro una narrazione teleologica
normalmente intessuta di principi morali; si possono leggere come incidenti,
perturbazioni nel normale sviluppo; oppure come manifestazione di una sorta di
ritorno ciclico. Nel primo e secondo caso, a ben vedere anche nel terzo, si
tratterebbe quindi solo di identificare la tendenza e le deviazioni. Per cui se
quel che sottende il cammino della storia è l’affermazione universale di un
umano liberato dai vincoli ascritti dalle tradizioni, e impostato sulla
secolarizzazione e l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della
democrazia, che sarebbe la forma perfetta della loro espressione), o, in altri
termini, della “occidentalizzazione” del mondo, allora questi tempi sono
confusi perché si rischia di perdere la bussola e la rotta. Questi tempi sono
un incomprensibile incidente, un’aberrazione.
In una diversa prospettiva sono il ritorno di un ciclo
espansione-contrazione, letto in chiave economica e quindi politica, che
potremmo leggere a grandi linee nei cicli di espansione 1890-2014, 1980-2008, e
nei cicli di contrazione 1930-1970, con interregni almeno decennali al termine
del quale saremmo. Autorevoli letture[2]
hanno interpretato questi cicli di espansione-contrazione come cicli di
egemonia ed espansione del sistema-mondo secondo uno schema implicitamente
teleologico e quindi strettamente occidentale[3]. Tuttavia
uno schema potente ed in qualche modo utile[4].
Lavorando, con sorvegliata attenzione, sui bordi di questo schema
mentale diventa possibile intravedere[5] i
movimenti del presente entro il tramonto dell’egemonia tecnica, economica e
politico militare dell’Occidente[6].
Ma un tramonto non solo del ciclo breve americano[7], o
del ciclo anglosassone[8],
ma del mezzo millennio che vede le armate spagnole, portoghesi, olandesi,
francesi ed inglesi conquistare e colonizzare il mondo, avviando quella immane
estrazione di uomini e merci che ha fatto ricco il nostro mondo. È quindi un
macrociclo quello che sembra giungere al termine e che l’erculeo sforzo
unilaterale dell’amministrazione americana sta cercando di riavviare.
In altre parole, quel che sembra giunto al termine è la pretesa,
nutrita da cinque secoli, di incarnare e guidare la modernizzazione e le sue
costanti transizioni. Modernizzazione che è al contempo sinonimo di sviluppo
scientifico e tecnologico, di liberazione dalle tradizioni e dall’influenza di
spiriti e religioni, di creazione del “sociale” come espressione collettiva del
“civile” e quindi del concetto di “cittadino” e di “individuo”. Un insieme di concetti
che fanno rete nella nostra mente e gli consentono anche di assumere quella
tipica postura “critica” che è il lascito dell’età delle rivoluzioni (da Haiti
al Messico, passando per la Francia, la Russia e la Cina, per restare alle
principali), mentre la Gloriosa Rivoluzione seicentesca inglese è ancora a
metà, innervata come è di spirito religioso. Concetti il cui catalogo è soggetto,
individuo, cittadinanza, diritti umani, società civile,sfera pubblica, sovranità
popolare, stato, democrazia, giustizia sociale. Una rete di concetti alla
quale, sia inteso, non intendiamo rinunciare ma che dobbiamo vedere nella loro
provenienza etnografica e storica, ma anche nella loro funzione di schermo e
giustificazione. Spesso nella loro disponibilità a farsi tradire, proprio nel
momento in cui sono pretesi universali senza alcun bisogno di traduzione.
Il punto è che se questi concetti sono pensati in sé universali e
perfetti, allora diventano la macchina di una violenta sopraffazione[9].
Allora si può pensare che in sostanza “Occidente” e “modernità” siano sinonimi,
che la tecnica sia una conseguenza della rivoluzione scientifica e questa sia
solo effetto del lavoro di alcuni geniali campioni (Galileo, Cartesio, Newton),
tutti europei. Che quindi il potere e la ricchezza che l’Occidente ha conquistato sia
un merito ed un diritto, che, anzi (supremo capolavoro) sia un
regalo al mondo. Può derivarne che ci sia un quid (la tradizione
greca? Quella latina? Il protestantesimo?) che è solo e proprio dell’Occidente
che lo fa capace di dirigere il treno dell’umanità, una sorta di codice
genetico (se pure culturale). Che, quindi, nessuno mai potrà eguagliarlo.
Ora cosa sta succedendo in questi tempi confusi? Una potente, ma
non inaspettata, azione unilaterale del governo americano ha imposto un’ondata
senza precedenti e di gran lunga di barriere tariffarie alle merci importate da
praticamente tutti paesi del mondo. L’operazione si è svolta in tre tempi:
inizialmente minacciata verso i vicini Canada e Messico e la lontana Cina,
passando per l’Europa, si è poi manifestata con una enorme e differenziata
sequenza di dazi, incrementati verso chi ha reagito e poi, da ultimo, sospesi
per novanta giorni ai più. Restano dazi del 145% verso la Cina. Ai quali il
governo cinese ha replicato con una serie di ritorsioni e manovre finanziarie
aggressive che si stanno ancora dispiegando.
Al momento un altissimo muro separa quindi le economie commerciali
americana e cinese, e resta pendente sopra tutti gli altri, che sono chiamati a
scegliere.
Cosa indica questa mossa? Probabilmente solo lo sviluppo, con
l’abituale brutalità dell’attuale Presidente americano di quello che, in un
altro testo[10],
ho chiamato la “ritirata imperiale”. Ovvero, della finale assunzione da
parte della parte di establishment che sostiene l’amministrazione che il
triplice deficit (bilancio dello stato, bilancia commerciale e saldo
finanziario complessivo, tutti e tre passivi da anni) è insostenibile ormai nel
medio periodo[11], e la “sconfitta dell’Occidente” di cui
parla Todd nel suo libro[12], rende non più sostenibile la
sovraestensione imperiale pretesa dagli ultimi governi USA (da Clinton in poi,
almeno, democratici e repubblicani). Ovvero rende il sogno post Guerra Fredda
del Mondo Unipolare (la cui immagine economica ed ideologica è la cosiddetta
“globalizzazione”) ormai irraggiungibile di fronte alla triplice sfida
persa: quella economica, ed ora anche tecnologica[13], con la Cina (e l’estremo oriente in
generale); quella militare con la Russia (che, ormai, da sola
produce più armi di tutto l’Occidente, e non ne vuole sapere di crollare
economicamente, o, tantomeno, di isolarsi diplomaticamente); quella
politico-diplomatica con i Brics. Ora, si tratta essenzialmente di
compiere una doppia mossa e sincronica: ridurre il “perimetro di protezione”[14] e
intensificare nella propria area il “prelievo imperiale”[15].
La questione centrale resta dunque di definire una “propria area”.
E qui, in un mondo multipolare conterà anche lo stile di egemonia, ovvero la
capacità di esprimere quel che Nye chiama “soft power”. Una risorsa che la
mossa della Presidenza americana, nella sua franca brutalità, ha messo a
rischio nel medio termine.
Per approfondire l’analisi bisogna considerare che ci sono alcuni
passaggi necessari, che sembrano sempre più evidenti e che bisogna attraversare:
- rompere le connessioni economico-finanziarie, che sono fatte di
flussi di merci ma anche di capitali, di aree di ricircolo dei surplus e di
riserve;
- costringere gli attori intermedi a scegliere il campo nel quale
stare, e che sarà separato da alti muri di tassi e barriere non commerciali;
- indebolire la finanza e creare le condizioni per una
reindustrializzazione fondata necessariamente sulla nuova “piattaforma
tecnologica”[16]
che si sta affacciando sulla scena.
Una “piattaforma” imperniata non più sulla vecchia, che era
costituita da Ict standardizzante e centralizzante[17],
l’industria a rete lunga, decentrata e caratterizzata da forme specifiche di
dominazione del lavoro, da funzioni di concentrazione e liberazione dei flussi
di capitali, deregolazione e indebolimento delle capacità di comando dello
stato, fuga fiscale. Quindi, imperniata su scambio deflattivo[18] e
economia del debito[19].
Ma su una nuova determinata dall’insieme dei nuovi abilitatori
tecnologici, che possiamo sintetizzare nel potente insieme di nuova IA
generativa (“debole”, per ora), robotizzazione antropomorfa, e automazione
della logistica. Questa nuova “piattaforma tecnologica” emergente, insieme ed intrecciata
al “fallimento dell’Occidente” che ne fa da sfondo geopolitico, è fatta da: una
radicalizzazione delle tendenze di connessione ubiqua e potenziamento cognitivo
(il cui più evidente esito sarà la distruzione delle rendite cognitive di ampi
strati del ceto ‘medio’ dei servizi); dal cambio di convenienza tra l’industria
(ed i servizi) con lavoro neo-servile, che ha dominato l’ultimo trentennio, ad
una industria ‘core’ senza lavoro; da capitali che si sono scoperti fragili per
effetto delle estreme conseguenze dello scambio deflattivo esteso al trentennio
e per l’esaurimento degli spazi di manovra dell’economia del debito, in primis
negli Usa; quale conseguenza di queste dinamiche e nuovo punto di equilibrio
una nuova regionalizzazione competitiva.
Il punto centrale è che nel passaggio da una “piattaforma
tecnologica” all’altra, ormai non più rinviabile, la vecchia
divisione/organizzazione del lavoro che di spostamento in spostamento è giunta
all’oggi dovrà essere rivista. E anche che questa transizione non sarà
pacifica. Come si è visto dalle mosse di apertura, comporta un esercizio di
violenza economica e costrizione politica nella quale si dovrà vedere alla fine
chi prevarrà. Ovvero chi avrà sanguinato meno.
Alla fine prevarrà, al tavolo al quale si giungerà ad un accordo
finale, chi potrà mostrare di perdere di meno. Non si tratta, quindi, né solo
né principalmente di una guerra commerciale, ma del completo ridisegno di tutte
le relazioni internazionali. Il problema è giungere a questo, dato che lo status
quo non è sostenibile e aumenta gli squilibri, ma farlo senza cadere nella
Trappola di Tucidide[20].
Le armi in mano alle due parti sono:
- per gli Usa restringere e annullare il loro ruolo di “acquirente
di ultima istanza”, al contempo creando una contrazione industriale nei paesi
esportatori e danneggiando il ruolo centrale del dollaro,
- per la Cina utilizzare le riserve per sfidare la stabilità del
debito pubblico americano.
- Per gli attori intermedi decidere verso quale economia rivolgere
la propria attenzione prioritaria.
Chiaramente il passaggio dallo “scambio deflattivo” ad un nuovo
sistema economico, che non necessariamente assomiglierà a quello welfarista
(per almeno due essenziali differenze: la piattaforma tecnologica nella quale
si svolge, che non è quella della rivoluzione industriale; l’assenza della
spinta della ricostruzione) porterà ad un non breve periodo di assestamento dei
prezzi, in un clima inflattivo, inoltre alla perdita di ruolo delle società
leader della “economia immateriale” e della finanza connessa (e ne sono segno
le perdite in borsa e nei listini di questi giorni). Nei paesi esportatori, la
Cina in primis, tutto ciò potrebbe portare ad una contrazione economica e
sociale che partirà non dalle grandi società (altamente meccanizzate), quanto
dal tessuto di microimprese, talvolta familiari, che vivono e lavorano
personalizzando piccole e medie forniture per paesi terzi (in genere del
‘secondo’ mondo, Sudamerica, Africa, Medio Oriente). E che partirà dalle catene
lunghe di fornitura internazionale che dovranno essere profondamente
ristrutturate.
Per questo è cruciale, ed è il vero obiettivo, costringere un più
ampio ecosistema di paesi a condividere le tariffe, in cambio dell’esenzione.
Di fatto questo è il gioco che si apre nei prossimi anni, l’inserimento in aree
di free-trade o a basse tariffe, dominate da l’uno o l’altro egemone, e quindi
l’innalzamento di barriere di confine tra le aree così definite. Ovviamente,
anche ogni genere di triangolazione, aggiramento, contrabbando, elusione.
Gli Stati Uniti rischiano la recessione, la destabilizzazione
finanziaria e il salvataggio della FED al prezzo del crollo dell’egemonia del
dollaro; la Cina rischia la destabilizzazione del consenso interno in strati
intermedi di piccola borghesia, politicamente pericolosi. Entrambi, in caso di
perdita di equilibrio, potrebbero trovare la strada di un’escalation
distrattiva. In tal caso la Trappola di Tucidide si aprirebbe.
Di qui la diagnosi per la quale vincerà chi sanguinerà di meno.
Non già chi troverà le parole più alte ed ipocrite (gioco nel quale sembra
attardata l’Unione Europea). Vincerà chi avrà la migliore visione, e più
pratica, della situazione e dei diversi interessi e valori operanti, chi avrà
più pazienza e capacità di tessere reciproche relazioni, chi costruirà alleati
e non subalterni rancorosi.
La Cina è in vantaggio.
[1]
– Pierluigi Fagan, Benvenuti nell’era complessa, Diarkos 2025.
[2] – Mi riferisco a quelle di Giovanni Arrighi.
[3]
– Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli 2007.
[4]
– Giovanni Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a punto uno schema
interpretativo potente che vede lo sviluppo del sistema di produzione ed
organizzazione ‘capitalista’ come una successione di ‘cicli’ per successiva
espansione ed incorporazione in una dialettica tra “attori territoriali” e
“attori economici”. Oppure, se si vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una
“logica di potenza” ed una “logica capitalista”. Ancora in altre
parole, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli
di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione
produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei
quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione
produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio
monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta
concorrenza, allora i capitali generati vengono trattenuti in forma liquida, e
non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase
di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova
gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che
determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove. Consentendo
l’avvio di un ciclo di investimenti produttivi, l’incremento di efficienza e la
distribuzione dei surplus accumulati.
Arrighi sposa qui, se pure in modo originale, la tesi
di Marx per la quale nel modo di produzione capitalistico (dato che lo scopo è
la produzione di capitale e non lo sviluppo delle forze produttive), il mezzo
entra in conflitto [in particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine
ristretto: la valorizzazione del capitale esistente. Il capitale entra dunque
periodicamente in palese contraddizione con l’espansione materiale
dell’economia-mondo, il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria
dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con
profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi).
A questo elevato livello di astrazione si può
concludere che, nella dinamica che si genera tra la tendenza a ritirare
il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza
soffrono i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e quindi
sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità
di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto e la
sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è
tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono
determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per
investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette
alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere
complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due
scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si
contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto,
ma, dice Arrighi, a potere o prestigio.
In queste “biforcazioni” si creano quindi campi
instabili e turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono
l’uno a sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli
sui mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di
massimizzare il proprio potere.
Si tratta anche di una lotta per l’egemonia.
[5]
– Si veda il post “Si intravede”, Tempofertile 15 giugno 2024
[6]
– Un classico di questa lettura è il libro di Emmanuel Todd, La sconfitta
dell’Occidente, Fazi editore 2024.
[7]
– Fondamentalmente dagli anni Venti del Novecento, poi conclamati come esito
della guerra, agli anni Dieci del XXI secolo.
[8]
– Dalla sconfitta di Napoleone alla Prima Guerra Mondiale.
[9]
– Si veda Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia
dell’imparo britannico, Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022)
[10]
– Si veda il post “Superare la sfida dei Brics. Quale logica segue Trump?”,
Tempofertile, 2 febbraio 2025.
[11]
– Per sottolineare il punto Elon Musk ha dichiarato oggi che se non si taglia
la spesa pubblica gli Usa falliranno. Il debito pubblico mostruoso, la cui
rappresentazione primaria è l’enorme quantità di titoli del tesoro è ormai
detenuta solo per circa un quarto da fondi sovrani esteri (con la Cina che ne
ha sempre meno, e per lo più in mano a Taiwan, Francia, Canada e Giappone) e da
un notevole 40% dai grandi fondi americani che, quindi, possono determinare una
decisiva pressione sulle politiche.
[12]
– Per fattori strutturali e culturali. Tra i primi la volatilizzazione
dell’industria americana, la irresistibile dipendenza dalle importazioni, il
degrado sociale e la dipendenza da lavoratori immigrati anche di alto profilo,
le tensioni del dollaro, sfidato in prospettiva dal resto del mondo.
[13]
– La Cina è ormai sulla frontiera tecnologica nelle più importanti aree di
confronto, e spesso avanti. La ragione è che impegna ingenti risorse economiche
e politiche, concentrandole, nel contesto di un grande paese che laurea un
milione di ingegneri, spesso di alto livello, all’anno (gli Stati Uniti
230.000, la Russia leader in questa classifica mezzo milione).
[14]
– Chiamo qui semplicemente “perimetro di protezione” l’area nella quale
si estende il potere politico-militare americano e che determina stati più o
meno pronunciati di sovranità limitata. La protezione costa, sia per la
necessità di tenere in piedi la capacità di minaccia (che tante volte è stata
dispiegata), sia perché l’arma del controllo è il predominio del dollaro,
sempre più sfidato, e questo rende necessario tecnicamente che ci sia richiesta
della moneta americana che si può ottenere o vendendo più beni e servizi
americani di quanti se ne comprano (ma non è così), o costringendo gli altri a
comprare commodites e asset in dollari, anche quando le due parti non sono
americane. Per ottenere questo ci vuole una rete di influenza e penetrazione
nei sistemi economico-politici che costa una continua sorveglianza,
mobilitazione, presenza.
[15]
– Chiamo “prelievo imperiale” l’insieme di ragioni di scambio
squilibrate, vere e proprie esazioni dirette ed indirette, imposizione di
standard e regolamenti che sbilanciano il piano negoziale, minacce, talvolta,
che consentono di vendere beni o servizi a prezzi maggiorati, di regolare gli
scambi finanziari in modo da attirare e gestire flussi, etc. Alcuni esempi,
oltre al mio Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020, in Qiao
Liang, L’arco dell’impero, Leg Edizioni 2021, e Qiao Liang, Wang
Xiangsui, Guerra senza limiti, Leg Edizioni, 2001, anche utile
Giacomo Gabellini, Krisis, Mimesis 2021.
[16]
– Ovvero del set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio
per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie
convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite
da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche
che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di
incentivi pubblici e privati (entrambe, norme ed incentivi, coinvolti
nell’affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica”
è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed
in ultima analisi possibile).
[17]
– Che tendeva concentrare fisicamente e socialmente expertise e servizi
avanzati rari in “città globali” e territori densi.
[18]
– Quella degli anni Settanta ed Ottanta non fu una crisi economica, ma
l’ingresso, che si è verificato a ben vedere con l’uscita dal modello fordista,
in un assetto tendenzialmente permanente di “stagnazione-contrazione”. Un
assetto, prima di tutto di potere, nel quale è prevalente un circuito di
rafforzamento tra la contrazione della quota lavoro (salari ed occupazione) via
deregolazione e flessibilizzazione, la stagnazione o deflazione dei prezzi
nell’economia “reale” (mentre quelli dell’economia “finanziaria” continuano ad
essere sostenuti ed a crescere), la depressione degli investimenti e la
conseguente continua creazione di “capitale mobile” eccedente, il riciclaggio
di parte di questo in credito/debito funzionale a sostenere i consumi (anche a
fini di consenso). Questo assetto esprime un vero e proprio “nuovo compromesso
sociale” del tutto orientato ai bisogni, alla visione ed agli interessi delle
classi alte della società ed in particolare di quella parte di esse mobile e
liquida. Al contempo la dinamica erode, lentamente e progressivamente, le
condizioni di vita e gli ambienti di insediamento di quote sempre maggiori
della popolazione che non riesce o non vuole essere mobile e liquida. In
conseguenza risucchia le forze attive e determina un colossale spreco di vite e
risorse. Questa circostanza, insieme alla perdita di senso, rende instabili e
pericolose le nostre società e si vede sia in occidente come nelle marche di
confine (ad esempio nel mondo arabo). Un assetto deflattivo come questo
favorisce continui “rimontaggi” e spostamenti, determinati dalla messa in
contatto senza protezioni e filtri di poteri e dinamiche troppo diverse e
sbilanciate. Quello che chiamiamo da anni “globalizzazione” e che innumerevoli
cantori interessati hanno incensato per tutti gli anni Novanta e zero.
Inseguendo un’ideologia che voleva lo sviluppo come intrinsecamente
equilibrante ed in ultima analisi a vantaggio di tutti.
[19]
– Si veda il post “Appunti sul mutamento della piattaforma tecnologica”,
Tempofertile, 20 maggio 2018.
[20] – Graham Allison, Destinati alla guerra, Fazi editore 2017.
Fonte foto: da Google