Una discussione in corso su un gruppo di Facebook mi ha stimolato a scrivere di getto questa breve riflessione che è più che altro un “outing”, come si suol dire; un’analisi più approfondita meriterebbe ben altro spazio, tempo e impegno. Del resto, ogni tanto avremo pure il diritto di toglierci qualche sassolino dalla scarpa…
Il dibattito verteva sul profilo storico, politico (e anche umano) del professor Toni Negri. L’autore del “post” difendeva la sua storia e le sue scelte politiche e personali, ivi compresa (e soprattutto) quella di farsi eleggere in Parlamento con il Partito Radicale per uscire di galera e successivamente rifugiarsi in Francia.
La premessa è che chi scrive non parla per sentito dire ma è stato un militante politico (anche se giovanissimo, essendo nato nel novembre del ’58) in quegli anni durissimi ma entusiasmanti, fin dal 1973 (la prima manifestazione a cui presi parte si svolse il giorno seguente il colpo di stato in Cile di Pinochet, cioè il 12 settembre del 1973), prima in Lotta Continua e poi, al suo scioglimento, in Autonomia Operaia.
La mia opinione è che non si può teorizzare il “dominio e il sabotaggio”, invitare migliaia di giovani a “provare l’ebbrezza di calarsi il passamontagna sul volto” per poi farsi eleggere dal partito radicale – cioè da una forza liberista, filo sionista, filo atlantista, guerrafondaia e visceralmente anticomunista – pur di “pararsi il sedere” (mi scuso per l’espressione un po’ fuori dalle righe ma a volte è la sola maniera per trasmettere con efficacia ciò che si pensa) e riparare in Francia. Né vale la considerazione, pure sostenuta da alcuni (e da lui stesso!…), in base alla quale Negri era soltanto uno che scriveva libri.
Intanto scrivere certi libri è un atto di grande responsabilità politica, oltre che morale. E poi non è affatto vero che si limitasse alla sola attività intellettuale perchè era anche un dirigente politico, e di primissima fascia dei movimenti degli anni ‘70. In ultimo, ma non per ultimo, se si elaborano e si diffondono determinate teorie e si sprona gli altri a tradurle in pratica, si deve essere conseguenti e coerenti. E Negri non lo è stato.
Nessuno chiede a nessuno di immolarsi, sia chiaro, né tanto meno il sottoscritto ha la presunzione di ergersi a giudice. Però se si vuole fare una valutazione complessiva su un personaggio che in qualche modo è stato un protagonista della storia di questo paese, lo si deve fare a 360°. E secondo me Negri ha dimostrato di non essere all’altezza, sia sul piano politico che personale, di quella storia e del ruolo che comunque egli stesso si era costruito. Un dirigente politico sedicente rivoluzionario si caratterizza innanzitutto per la coerenza e per la responsabilità che si assume nei confronti degli altri e dell’esperienza politica che rappresenta e che è chiamato a rappresentare, nel bene ma anche nel male, al di là delle responsabilità oggettive che gli vengono attribuite o imputate. Che il famoso “teorema Calogero” fosse una montatura politica e giudiziaria per colpire tutto ciò che si muoveva a sinistra del PCI e che Negri non avesse nulla a che vedere con le BR non c’è alcun dubbio, ma questo non può bastare per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche, anche e soprattutto quando queste, obtorto collo, assumono sia pur tragicamente un’altra veste (giudiziaria). Ma anche questo fa parte del “gioco” e uno come Negri non poteva non saperlo. Diciamo che l’inciucio con i radicali e la fuga in Francia non sono stati proprio il massimo per chi teorizzava l’insurrezione di massa e il contropotere proletario, anche se poi, in un secondo momento, ha cercato di ridimensionare il tutto arrivando a sostenere che lui non poteva mai immaginare che centinaia di migliaia di persone prendessero per buone le sue tesi e scendessero in piazza con bottiglie molotov e armi varie… (chissà se, mutantis mutandis, dalle stalle alle stelle, anche Marx immaginava che tanti disgraziati di mezzo mondo lo avrebbero preso seriamente e avrebbero perfino fatto delle rivoluzioni…)
Voi ve lo immaginate, ad esempio, un uomo e un dirigente politico dello spessore di Antonio Gramsci (ma il discorso vale naturalmente anche per i tanti compagni e militanti, rimasti per lo più sconosciuti, scaraventati nelle carceri fasciste) che si inventa una scappatoia per sfuggire alla condanna e al carcere magari sostenendo che “lui è solo uno che scrivi libri, se poi la gente prende una pistola e va a sparare, non ne ha nessuna responsabilità…”…
Oppure vogliamo parlare di un uomo e di un dirigente politico come Salvador Allende che si è rifiutato di cedere al ricatto del “fascio liberista” Pinochet che gli aveva offerto la via dell’esilio e che ha pagato il rifiuto di scendere a patti con il torturatore al servizio di Washington con la sua stessa vita?
Qualcuno, nel corso del dibattito, ha addirittura proposto un parallelismo fra Negri e i militanti dell’Ira che si lasciarono morire in carcere ma gli è stato risposto che il confronto non è valido perché quelli erano religiosi e nella fattispecie cattolici e non marxisti, e quindi votati per definizione all’estremo sacrificio.
Ma questo discorso è quanto meno paradossale. Decine di migliaia di comunisti, socialisti e “semplici” democratici sono stati torturati, ammazzati e incarcerati in tutto il mondo, in America latina, in Asia, in Africa e anche in Europa, dalle più brutali dittature. Come si spiega allora il loro estremo sacrificio? Forse Guevara era da meno del patriota Bobby Sands per il fatto di essere “soltanto” un comunista e non un cattolico?… Gli esempi potrebbero essere centinaia; ve li risparmio.
Negri, con la sua scelta, ha dimostrato, a mio modo di vedere, di non essere un leader politico, cioè di non essere in grado di reggere la prova che la storia lo aveva chiamato a sostenere e per questa sua “debolezza” ha escogitato la “scappatoia” grazie alla complicità dei radicali; insomma si è “rifugiato in corner”, come si direbbe in gergo calcistico. Un escamotage che nulla ha a che vedere, sia chiaro, con la via dell’esilio forzato a cui tanti militanti politici, oppositori dei più svariati regimi politici, sono stati costretti nei diversi frangenti e contesti storico-politici.
Negri avrebbe dovuto essere più coerente e non lo è stato. Se ne è andato in Francia a fare il professore universitario e l’intellettuale a tempo pieno, lasciando in braghe di tela migliaia di giovani e giovanissimi militanti i quali, dopo essersi calati il passamontagna, finita la “festa” (si fa per dire…), si sono ritrovati con una mano davanti e una di dietro, sotto tutti i punti di vista, compreso, e forse soprattutto, quello psicologico ed esistenziale.
Da un certo punto di vista la sua vicenda è molto simile a quella di Adriano Sofri – finito a sostenere i “bombardamenti umanitari” della Nato nella ex Jugoslavia dalle colonne di Repubblica e del Foglio – il quale anche lui di punto in bianco decise che la festa era finita ed era meglio tornarsene tutti a casa, e così facendo abbandonò al loro destino decine di migliaia di giovani che da un momento all’altro si ritrovarono, metaforicamente e non solo, in mezzo ad una strada.
C’è anche da dire, per onestà intellettuale, che Sofri interpretò la stanchezza e il sentimento di quella robusta parte di militanti di estrazione medio e talvolta alto borghese che avevano capito che il sol dell’avvenire non era più dietro l’angolo e il cui desiderio, anche se non dichiarato, una volta fattisi i famosi due conti in tasca, era quello di tornare all’ovile. Per la serie:”In fondo, chi ce lo fa fare? Tutto sommato, la famosa “durevole passione” la lasciamo volentieri al povero Lukacs e a chi ha da perdere solo le catene…”
Fu così che tanti rampolli, molti dei quali con “papà” alle spalle, furono “sistemati”; i più “meritevoli” si “sistemarono” grazie ai loro buoni uffici, mentre migliaia e migliaia di “giovani proletari”, come venivano chiamati una volta, senza “papà” e senza buone relazioni alle spalle, si ritrovarono a fare i conti con la realtà, che non era quella di un incarico alla Sorbona bensì quella molto più dolorosa di cercare di reinserirsi faticosamente, molto faticosamente, in un contesto sociale all’interno del quale erano già in una condizione di subalternità e di marginalità complessiva e al quale si erano giustamente ribellati.
Ora, io credo che invece di continuare a celebrare questi signori, pur nella loro diversità (del resto la lista è lunghissima e non riguarda certo i soli Negri e Sofri), a distanza di quarant’anni da quell’esperienza, dovremmo invece cercare di capire come mai quella fase storica e quella generazione abbiano partorito (anche) quei personaggi, senza naturalmente voler fare di tutt’erba un fascio. Dovremmo cioè cercare di fare uno sforzo per capire cosa non ha funzionato, dal momento che gli uomini sono in larga parte il risultato delle “strutture” che li producono. Ritengo che questo sia un lavoro utile proprio per fuoriuscire dalla logica della demonizzazione e della rimozione di un’intera fase storica da una parte, cioè quello che vorrebbe il sistema dominante (e in larghissima parte purtroppo ci è riuscito) e della difesa d’ufficio o peggio (perché convinta) ideologica, dall’altra. Sono convinto che solo rileggendo e rielaborando dialetticamente la nostra storia possiamo costruirne una futura.
Un vero leader politico è come un buon padre di famiglia. Male che va affonda con la sua donna e i suoi figli, magari tentando di salvarli. Non è stato questo il caso di Negri (e di Sofri).