La falsità della nostra vita quotidiana – quella di un Occidente globalizzato saturo di discariche di ogni tipo – ha raggiunto livelli non più sopportabili! Sono tante, troppe, le realtà che colpiscono la mente e il cuore dei più avveduti.
Viviamo in un mondo in cui le guerre imperialistiche vengono camuffate da missioni di pace umanitarie, proprio mentre il benessere occidentale comporta inesorabilmente fame e malattie per miliardi di esseri umani. Il caos collettivo è esacerbato anche da coloro che dovrebbero essere in grado, per professione, per ruolo sociale, di costituire guida “spirituale” per lo smarrimento della gente. E, così, è spettacolo di ogni giorno il fatto che liti invereconde fra azzeccagarbugli più o meno volgari di ogni disciplina sia considerata scienza. Neppure l’intimità degli uomini può dirsi al sicuro dalla produzione di scorie tossiche, dal momento che la famiglia stessa è, quasi sempre, sede di solitudini violente e intrattabili.
La società più materialista della storia – la nostra – si ammanta di ipocrisia solidalistica e di “ideali giusti” ma non si accorge di star portando alla distruzione irreversibile dell’οἶκος comune. I “leader” politici, da parte loro, divinizzati o vilipesi che siano, in realtà contano assai poco, dal momento che il loro spazio d’azione si riduce a quello di chierichetti al servizio dei sacerdoti della finanza. Al massimo, utilizzano il loro potere per creare un clima di paura generalizzato, contro immigrati, terroristi, incolumità personale in pericolo, diritti civili da rilanciare, e nascondere così l’orrenda solitudine economica e identitaria in cui gli individui singoli sono lasciati. In questo mondo, un mondo privo di qualità e fondato esclusivamente sulla quantità del numero, tutto è consumo di merci e produzione di massificazione serializzata.
In questo orizzonte, qual è il ruolo della filosofia? Possiamo proiettare sul pensiero umano, ossia il nostro patrimonio più grande e la nostra maggiore speranza di esseri viventi, una possibilità di costruire almeno un riparo dalle insidie di questo nostro tempo? Credo di no. Credo proprio di no, dal momento che ciò che un tempo era la regina delle scienze, la filosofia, si è riservata (le è stato riservato) oggi il compito di fornire materiale ulteriore al motore dei media. Di conseguenza, neppure la filosofia fa eccezione: anche ad essa si lega strettamente tutto ciò che, nel nostro mondo, partorisce paccottiglia serializzata. Non serve richiamarla al suo compito originario. È del tutto vano farle presente che nessuna comunità può sopravvivere senza pensiero. In fondo, la filosofia stessa vive su un rimosso che non riesce più neppure a vedere. È stato dimenticato che la conoscenza più autentica e radicale non serve a qualcosa di preciso e non ha alcun compito che non sia quello di coordinare un insieme di saperi, elaborando ciò che il passato ci ha tramandato, per rilanciare il tutto verso un futuro che non ci appartiene.
La questione della filosofia, del resto, mostra in maniera macroscopica una contraddizione che è dell’intero corpo sociale – un corpo sociale non si sa se più stupido, ingenuo, o più arrogante. Dovremmo smetterla di considerarci – noi, noi che viviamo in un mondo posto sul ciglio dell’abisso – come la punta avanzata della civilizzazione del mondo e considerarci per quello che siamo, che inevitabilmente siamo, ossia nulla di più che l’ultimo anello d’una interazione fra miliardi di uomini che hanno abitato la storia umana. Anzi, se volessimo dirla tutta, dovremmo considerarci come una civiltà senza Dei, senza principi e valori che non siano monetizzabili. Una civiltà nichilistica che si illude di poter vivere affidando alla tecnica il compito post-umano di fare la storia. Confidiamo, infatti, come mai prima, nell’automazione e nella tecnica.
E tuttavia, abbiamo totalmente dimenticato che quest’ultima non significa affatto conoscenza, ma soltanto una mera ipotesi, peraltro sempre più settoriale e slegata dal senso del tutto e incapace di collegare i risultati della propria azione ai fini collettivi dell’umanità e agli equilibri globali della terra. Il sapere, il sapere vero (ma chi lo ricorda ormai?) è nato come conoscenza “poetica”, poiché non può che essere poetico ed estraniante ciò che attiene alla coscienza dell’uomo sulla terra. La domanda della conoscenza – infatti – non può che essere posta da un essere che si risveglia in un corpo e in un ambiente che non conosce. Soltanto risvegliandosi “poeticamente” quell’essere che siamo noi tutti può provare a descrivere la realtà della sua esperienza, comunicandola ai suoi congeneri. La domanda della conoscenza, di conseguenza, non potrà certo essere quella che istituisce nessi fra le cose tesi al dominio su un mondo nel quale noi siamo e saremo sempre stranieri. Nel nostro tempo, si è eletto il carpe diem come poesia esistenziale. Ci siamo rintanati nell’attimo presente costruendo in esso la nostra propria tana – ebbene, se questo è vero, allora l’attimo presente, piuttosto che la sede della felicità, non è altro che una fuga disperata e angosciosa nell’ultima cittadella esistenziale del nostro animo. Chiusi in un labirinto pieno di specchi ingannevoli, privi di qualsiasi filo d’Arianna che possa condurci verso l’uscita, ci siamo rintanati all’interno di un’unica stanza e lì, non sperando neppure più che qualcuno o qualcosa possa venire a salvarci, non facciamo altro che mangiarci tutte le scorte poiché non siamo affatto sicuri che i nostri occhi potranno aprirsi su una nuova aurora.
Fonte foto: bezzifer – Myblog (da Google)