Umanesimo contadino e Resistenza


Il 25 aprile 2025 segna ottant’anni dalla fine del Totalitarismo nazifascista. I totalitarismi non sono terminati nel 1945, ma nel nostro tempo di guerra e di eccessi, la memoria della  resistenza sembra ormai una ritualità stanca e vuota che, non pochi, sperano di seppellire con le sue esperienze e con i suoi valori eterni. In questi giorni si consigliano sobrie manifestazioni “causa morte di Beroglio”. Tutto è usato pur di accelerare il processo di rimozione della memoria collettiva, in modo da favorire i processi di disintegrazione della democrazia e inaugurare il tempo del nuovo totalitarismo. Indifferenza, anestesia politica e individualismo parossistico  stanno ultimando il processo in atto. L’indifferenza e il cinico carrierismo a cui sono addestrate le nuove generazioni sono i capisaldi del nuovo totalitarismo. L’ambizione del nuovo totalitarismo capitalistico è produrre in serie una generazione di uomini e donne i cui orizzonti si fermano ai desideri indotti dal sistema.  La grammatica emotiva del nuovo tempo è assolutamente antitetica agli eroi della Resistenza. Sacrificio e progettualità forte motivarono uomini e donne a impugnare le armi per difendere la patria e la comunità.

Nel nostro tempo il patrimonio etico dei resistenti pare essersi consumato come l’essere. Il surrogato dell’essere è l’io minimo senza storia e senza progettualità.

Oggi ricordare la Resistenza ha più senso di ieri, poiché il contrasto  tra l’indifferenza e l’abulia del presente, se comparate con il tempo dei resistenti mostra la decadenza e l’ignavia dei nostri giorni. Il contrasto non è un mezzo per colpevolizzare e giudicare, ma è  finalizzato a capire, e si spera, per ridestare il “guerriero” che rugge in ogni essere umano. Un popolo oggetto di manipolazione e di violenza può sempre sorprendere per le sue azioni e reazioni. La dignità offesa può incontrare parole, storie e volti che possono ridestarla.

La storia dei sette Fratelli Cervi con il loro eroismo generoso, oggi ci insegna che l’umanità può raggiungere, toccare e testimoniare l’impegno fino al martirio.  Furono fucilati a Reggio Emilia nel 1943. La loro storia è nota. Il Presidente della Repubblica Einaudi nel 1953 ricevette il padre Alcide Cervi che fino al 1970, trasformò la sua immane tragedia in fonte di vita. Il padre era in carcere, sapeva dell’ipotetico processo ai figli partigiani, ma il sangue gli diceva che non erano morti. Egli nelle sue memorie spiegò che il sangue aveva ragione, ed ha sempre ragione, poiché persi i sette figli maschi, si dedicò alla memoria di tutti i partigiani, e specialmente, a trasmettere la memoria viva alle nuove generazioni. Non erano morti invano, il loro sangue pulsava ancora nelle nuove generazioni. Egli era divenuto padre dei partigiani del passato e del futuro.

Nel 1955  Salvatore Quasimodo dedicò una poesia ai Fratelli Cervi:“Ai fratelli Cervi, alla loro Italia”.

Nel testo è l’umanesimo contadino, ovvero l’umanesimo che conosce l’essenziale, ciò che animò la Resistenza condivisa della famiglia Cervi. Uomini della terra che fecero del lavoro e del comunismo la patria che non esclude nessuno, ma lottarono contro i criminali che calpestavano  il rispetto universale di ogni essere umano. L’umanesimo di razza contadina senza leggere libri ci insegna ancora come bisognerebbe vivere. La rabbia in loro divenne azione nella chiarezza dei valori essenziali che non sono contrattabili.

Salvatore Quasimodo con le sue parole mai stucchevoli ne disegna l’etica virile dell’impegno che si oppone ai mercanti stranieri che tutto vogliono mercificare e offendere. Ancora oggi l’Italia è nazione oggetto di trame palesi e celate che la rendono terra di saccheggio. Le parole di Salvatore Quasimodo risuonano all’unisono con il gesto eterno dei Fratelli Cervi:

“Ai fratelli Cervi, alla loro Italia”

In tutta la terra ridono uomini vili,

principi, poeti, che ripetono il mondo

in sogni, saggi di malizia e ladri

di sapienza. Anche nella mia patria ridono

sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria

malinconia dei poveri. E la mia terra è bella

d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure

di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.

***

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti

il petto dei santi, le reliquie d’amore,

bevono vino e incenso alla forte luna

delle rive, su chitarre di re accordano

canti di vulcani. Da anni e anni

vi entrano in armi, scivolano dalle valli

lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

***

Nella notte dolcissima Polifemo piange

qui ancora il suo occhio spento dal navigante

dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.

Anche qui dividono in sogni la natura,

vestono la morte, e ridono, i nemici

familiari, Alcuni erano con me nel tempo

dei versi d’amore e solitudine, nei confusi

dolori di lente macine e lacrime.

***

Nel mio cuore e finì la loro storia

quando caddero gli alberi e le mura

tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d’amore,

e anche questa terra è una lettera d’amore

alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,

non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani

dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,

morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.

***

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,

di questo umanesimo di razza contadina.

L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.

Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,

non per memoria, ma per i giorni che strisciano

tardi di storia, rapidi di macchine di sangue”.

Alcide Cervi scrisse nel 1955 la storia della sua famiglia.

Le parole di Alcide Cervi sembrano rivolte a noi e al nostro futruro. Sono parole eterne dinanzi ad un presente fosco e confuso, in cui con parole buone si procede a perpetrare il male e l’oppressione. La speranza non è una chimera, ma è parola che esige  fatica e impegno. I queruli lamenti sono lussi che si permettono coloro che nel sistema a conti fatti ci stanno bene. La speranza autentica vuole impegno, Alcide Cervi, lo ribadisce, il suo messaggio giunge a noi con la stessa freschezza di allora. Il seme della memoria dev’essere coltivato, perché dia i suoi frutti. Fu contadino di anime che curò con il balsamo della memoria e della testimianza. Sta a noi continuare la semina.

L’eterno dell’umanesimo contadino attraversa il tempo e ogni tempo.

Ciascuno a proprio modo può lottare e far vivere nel presente la Resistenza contro il nemico del presente: il capitalismo senza padri e senza madri. La storia ci restituisce la verità, i dominatori e i padroni conoscono solo la legge del capitale, essi sono ancora tra di noi con la loro religione perversa dell’accumulo senza limiti:

“E qual è stata la riconoscenza? Che fino ad oggi gli americani sono stati dalla parte di quelli che ci hanno bruciato cinque volte la casa e hanno distrutto la famiglia. Sono stati loro a dirgli bravi, ai persecutori dei comunisti, del partito dei figli miei. Alla larga, da questi amici! Ti fanno morire e alla memoria dei morti e a quelli che restano dicono crepa. E non vi illudete, voi che state al governo di avere più riconoscenza se volete continuare a dividere gli italiani. Si servono di voi e poi vi buttano via, perché non stanno mai ai patti e sono amici solo del loro capitale. Hanno fatto così con l’Italia dopo il ’15-’18, uguale dopo questa guerra, e ci rubano sempre col sangue. Dicono che gli italiani sono furbi e sanno scegliere sempre il più forte. Io dico che sono minchioni se continuano a stare col prepotente e ladro, che adesso ci accarezza perché vuole gli aeroporti per metterci le bombe atomiche. Io dico agli italiani, non fatevi bruciare la casa come hanno fatto a me, salvate i vostri figli, le vostre spose, scacciate quelli che si presentano con le caramelle e portano morte e disgrazia nelle famiglie. Quando mi dissero della morte dei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male[1]”.

In questo giorno, parole così vere,  risuonano  e possono essere donate a chi ancora vuol vivere da essere umano. Ci accarezzano per impossessarsi della nostra terra e metterci le bombe atomiche, su queste parole dovremmo riflettere ogni giorno e in ogni occasione, tanto più che siamo in pieno riarmo.


[1] Alcide Cervi, I miei sette figi, pag. 90 da https://anpilodigiano.it/wp-content/uploads/2020/07/Alcide-Cervi-Renato-Nicolai-I-miei-sette-figli.pdf

Fonte foto: da Google

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