Una ventina di anni orsono, invitato a un matrimonio nella Germania luterana, scoprii con sorpresa che fra gli inni sacri che si cantavano in chiesa alcuni portavano la firma di Thomas Müntzer (1490-1525). La cosa mi suonò paradossale, considerata la durezza della polemica che aveva contrapposto negli anni ’20 del XVI secolo il padre della Riforma protestante e il demonizzato Archifanaticus patronus et capitaneus seditiosorum rusticorum. Nel corso di un viaggio in Turingia concessomi un decennio dopo pernottai nella bella cittadina medievale di Mühlhausen: appena fuori da una delle porte della cerchia muraria si ergeva un massiccio monumento a Müntzer, ma stavolta non rimasi affatto stupito poiché sapevo che nella vecchia Germania Democratica il riformatore era considerato una sorta di eroe nazionale e quasi un antesignano del marxismo (come tale ce lo presenta Friedrich Engels). A quanto mi risulta la statua è ancora al suo posto, e mi auguro ci rimanga per sempre – perché il nostro fu davvero un grande personaggio.
Del suo aspetto fisico sappiamo poco o nulla, ma l’immagine del predicatore cencioso e invasato alla guida di una turba di reietti non ha agganci con la realtà. Nato a Stolberg nell’Harz da una famiglia relativamente agiata Thomas studiò in ottime università, laureandosi in teologia e filosofia prima di prendere i voti a ventitré anni. Conosceva perfettamente il latino e, a quanto pare, pure l’ebraico e per leggere Platone non aveva bisogno di traduzioni: era insomma un uomo dotto, e dalla penna felice. Dopo l’affissione delle celebri 95 tesi sul portone della cattedrale di Wittenberg si avvicina a Lutero, cui lo accomuna il profondo disgusto per la simonia della Chiesa Romana che drena risorse dalla Germania impoverita e controlla vaste porzioni del territorio tedesco. L’opposizione al papato fa da collante a un gruppo assai eterogeneo, che annovera radicali come Carlostadio e “uomini d’ordine” quali Lutero e Melantone – tutti intellettuali di prim’ordine, ma con visioni della società e del futuro distanti fra loro. Esaltato come il padre della lingua tedesca moderna Martin Lutero deriva da Sant’Agostino la dottrina della salvezza per fede e della predestinazione; al contempo conduce una battaglia che potremmo definire “patriottica e anticolonialista” contro il predominio culturale e politico della Santa Sede. L’affrancamento passa attraverso la redazione di una versione in lingua volgare della Bibbia, ma la trasformazione ch’egli propugna non tocca i fondamenti della società, che anche a Riforma compiuta egli immagina rigidamente gerarchica, con ruoli cristallizzati e immutabili. Ai principi e alla nobiltà d’oltralpe la proposta piace, perché conveniente: saranno loro ad ereditare la terra usurpata da Roma e perciò offrono il loro appoggio interessato. Ragionano come classe in sé e per sé, e l’agostiniano Martin Lutero si adatta di buon grado a convertirsi in loro “ideologo”. Oggi l’incarico spetterebbe a un economista ortodosso, ma nell’Europa preindustriale i “tecnici” più apprezzati erano proprio i laureati in teologia.
Un barlume di coscienza di classe, tuttavia, si fa strada anche negli strati sociali inferiori. Le rivolte contadine sono un fenomeno ricorrente nel medioevo europeo, ma hanno in genere carattere spontaneo, si verificano in tempi di guerra o carestia (sovente associate) e sono acefale. La jacquerie si scatena contro i nobili sfruttatori impetrando la giustizia del Re (che arriva, ma per punire duramente i “vermi della terra” che hanno ardito sfidare i “leoni”). Rispetto ai tradizionali e confusi cahiers de doléances, tuttavia, i XII Articoli elaborati dagli agricoltori tedeschi nel 1525 rappresentano un deciso salto di qualità, poiché assumono il carattere di un coerente progetto di (sia pur moderata) riforma sociale: si chiede la terzietà dei giudici, la “pubblicizzazione” dell’acqua e la restituzione alle comunità dei pascoli sottratti dai signori nonché il ripristino delle regole consuetudinarie soppiantate da una produzione normativa tesa a favorire una primitiva accumulazione capitalistica. Riecheggia nell’appello l’inveterata e pessimistica convinzione – speculare al mito illuminista del progresso continuo e illimitato – che la Storia sia “regressiva” ma anche, più prosaicamente, la richiesta di un’equa spartizione delle terre strappate a Roma. La pretesa è in sé ragionevole, perché le masse hanno sostenuto la Riforma, ma la risposta delle autorità nazionali è di chiusura – e Lutero presta la sua voce al potere costituito. Müntzer fa la scelta opposta, schierandosi dalla parte degli ultimi – ma la rottura fra i due uomini si è già consumata da tempo. Thomas è un riformatore (anzitutto) religioso, non un manutentore dell’esistente. Sin dagli esordi la sua predicazione è apparsa incendiaria, pur basandosi su saldissimi riferimenti biblici – e gli ha fruttato molteplici cacciate, per cui peregrina da una città all’altra. A Praga approfondisce la conoscenza di Jan Hus, scomodissimo teologo e capopopolo arso sul rogo, e nella città boema si fa notare – suscitando l’ammirazione delle folle e i sospetti di chi comanda. Torna in Germania, matura e rafforza le sue convinzioni – ed esse lo portano inevitabilmente allo scontro con l’élite economico-sociale. I principi lo convocano: si aspettano giustificazioni, l’abiura – nella sostanza: un riconoscimento della loro legittima supremazia. Lui li delude: nella celebre Predica, successivamente pubblicata, li richiama ai loro doveri verso il popolo, ammonisce che la spada consegnata da Dio ai nobili perché proteggano i sudditi potrà venir tolta dalle mani e rivolta contro di loro nell’evenienza di un abuso – e l’abuso, sottintende, è sotto gli occhi di tutti. Memore dell’insegnamento di Platone subordina lo status (elevato) degli “uomini di bronzo” al corretto esercizio di una precisa funzione sociale, al venir meno della quale cessa qualsiasi legittimazione al comando. La parola di Dio non può essersi fossilizzata in un libro antico, come pretende Lutero: essa risuona quotidianamente, rivolta agli uomini e alle donne capaci di prestarle orecchio – ricchi o poveri che siano, anzi: sono proprio gli ultimi (“Beati gli ultimi!” diceva Cristo) i destinatari prescelti. Se gli esseri umani sono uguali fra loro in quanto figli di Dio, essi vantano logicamente gli stessi diritti sulle cose terrene: in tre parole, omnia sunt communia. Per Müntzer democrazia e comunismo sono corollari della fede cristiana: d’altra parte la terra deve essere a immagine e somiglianza del cielo, non la sua negazione. Il teologo di Solberg deriva dalla sua concezione religiosa quella sociale: è tutt’altro che un “materialista” (Historia non facit saltus!) eppure intuisce confusamente, anche grazie alle letture fatte in gioventù, che il mondo contemporaneo è retto da regole arbitrarie, irrazionali, e che in questa cornice paganeggiante le classi privilegiate difendono esclusivamente i propri interessi egoistici. Per instaurare il cristianesimo, che coincide con l’egualitarismo secondo natura, tocca cambiare registro, e di fronte all’intransigenza di chi non vuole rinunciare ai propri inammissibili privilegi è perfettamente legittimo imbracciare le armi. Müntzer reputa la ribellione l’extrema ratio, ma fallita ogni via diplomatica l’abbraccia e la capeggia con convinzione: non è affatto un utopista nel senso marxiano del termine. Sarà una lotta all’ultimo sangue, e il “gallo rosso” nutrito da una rabbia secolare divorerà per mesi le dimore nobiliari fino all’inevitabile reazione in forze. Il feroce scambio di accuse con il “grasso maiale” Lutero, agitprop della reazione proprietaria, precederà di poco la giornata decisiva sul campo di Bad Frankenhausen: un arcobaleno apparso in cielo, simile a quello effigiato sulla sua bandiera, darà a Müntzer l’illusione di una possibile vittoria sul soverchiante esercito guidato da Filippo d’Assia. Deus vult, ma la volontà di Dio è imperscrutabile, la Sua esistenza una scommessa: i contadini vanno incontro a un massacro, il teologo della Rivoluzione (definizione di E. Bloch) a sofferenze e a una morte non meno ignominiosa delle calunnie sparse dai nemici sul suo contegno dinanzi ai torturatori.
Sarebbe anacronistico rimproverarlo per aver confidato nell’Assoluto: un uomo del ‘500, per quanto colto fosse, non aveva altra ideologia a disposizione che quella cristiana. Non si riteneva un rivoluzionario, ma lo fu: al pari di Marx ambiva a creare il paradiso in terra, perché s’era persuaso che gli esseri umani meritassero di vivere degnamente – tutti, senza distinzioni. Thomas Müntzer non riuscì nel suo intento, non tanto perché fosse in anticipo sui tempi storici (questa la lettura un po’ scolastica di Engels) quanto per il fatto che un regime e un sistema di potere crollano solo su spinta esterna o per intima fatiscenza.
“Non lasciate raffreddare la vostra spada!” intimò non soltanto ai seguaci, insegnandoci fra le righe a diffidare di quei pacifisti (o panciafichisti) che, se non di complici, svolgono volentieri il ruolo di ottusa e belante manovalanza dei dominanti.