“I borghesi sopravvivono a se stessi come spettri annunciatori di sventura” tale affermazione di T. W. Adorno, in Minima moralia, è la cifra del nostro presente. La borghesia finanziaria è divenuta totalitaria, in quanto è abbagliata dal capitale, fino a idolatrare ciò che essa ha posto senza riconoscerlo come “proprio” e divenendo la serva infedele della nuova religione del male. La nostra è un’epoca religiosissima, essa ha i suoi dogmi, le sue liturgie, la sua gerarchia e i suoi fedeli. Tutto è per il capitale e per la divinità del solo plusvalore. L’edonismo malinconico dell’atomistica delle solitudini si disfa nella singolarità che idolatra se stessa percependosi come l’attributo della divinità-capitale. Il fedele che fa di sé olocausto si decompone nei desideri dell’uomo variopinto e amorfo, in preda ad emozioni da consumare come il “dio capitale” vuole, ordina e desidera. La singolarità non ha fini soggettivi, non ha lunghe temporalità in cui impegnarsi per affermare l’individualità astratta; ha rinunciato, al suo posto vi è la temporalità fluida, in cui i segmenti temporali sempre più brevi si susseguono e ognuno di essi, presto dimenticato, diviene un’esperienza del desiderio-piacere senza profondità. La temporalità puntiforme non dispone al pensiero ma al desiderio incapace di differirsi e di pensarsi. L’identità personale, la conoscenza di sé, è sostituita dall’immediatezza del desiderio vorace che vuole se stesso, ovvero vuol essere fedele ed incluso nella divinità del capitale (il mercato) che promette l’Eden in Terra da conquistarsi rigorosamente desiderio dopo desiderio fino a diventare “mercato incarnato”.
Baccanali delle singolarità senza comunità
La filosofia
cinica nell’Antica Grecia testimoniava la coerenza tra vita e
filosofia, e in quanto la verità incarnata si opponeva alla
menzogna del potere. La parresia si opponeva all’ordine del
discorso del dominio. Il capitalismo è il perfetto ribaltamento
antitetico del cinismo filosofico, proclama l’uomo azienda, ovvero
ogni essere umano a prescindere dalla condizione materiale è carne e
sangue del mercato, deve vivere il capitalismo totale, accede al
mercato dei desideri, ma è egli stesso mercato in vendita. Il
carnefice e la vittima coincidono in ogni adorante suddito del dio
capitale. Il turbocapitalismo è adialettico, non ha reali
oppositori, ma solo metamorfiche fedeltà.
In questa
liturgia del reciproco massacro l’uguaglianza menzognera delle
democrazie si svela nelle voracità delle singolarità che
costituiscono il mercato. La singolarità più forte, in questo
baccanale delle carni e del sangue, divora la singolarità più
debole. Paganesimo della giungla in cui il rumore di sottofondo dei
desideri è il denaro sonante che impedisce di ascoltare l’altro.
La verità storica del capitale non è tollerata, i fedeli del
capitale conoscono la menzogna, ma la rimuovono, sono spettri
disperati. La vista non regge il “crudo vero”, pertanto bisogna
ottundere le coscienze con le liturgie linguistiche. Tutto è falso
nel mercato, in primis
la parola, per uccidere l’essere umano nella sua umanizzazione e
innalzare altari alla riproduzione senza mediazione delle coscienze
si uccide la parola sua essenza viva.
La parola è
comunicazione, è messa in comune; è l’indisponibile al mercato; è
il sacro immanente. Il capitale la mutila della sua essenza
originaria per tradurla in valore di scambio. Le parole diventano
mezzi con cui stabilire distanze e regolare i rapporti tra venditore
e compratore in ogni sfera sociale: in casa, in amore e sul mercato
c’è chi vende e c’è chi tradisce il contratto per affari più
gaudenti per la singolarità in perenne decostruzione. La natura
umana resta, e dunque il senso del linguaggio continua a scorrere
carsicamente e silenziosamente, per cui al fine di vendere prodotti
di qualità scarsa ed esosi, il capitale affonda nella natura umana
della comunicazione (logos),
individua i bisogni primari prontamente traditi e traviati da esso
stesso, in modo da favorire la vitalità del mercato.
Succedanei
Il bisogno
di comunità a cui ogni essere umano aspira per natura, in quanto
soggetto politico e sociale, è venduto sul mercato con una
inquietante fioritura di nuovi quartieri esclusivi che devastano
paesaggi e zone monumentali con il bollino “borgo”.
L’edificazione violenta dei borghi limitrofi alle città in zone di
pregio e a volte da “riqualificare”, spinge il compratore ad
immaginare la socialità di cui sente il bisogno, ma che non trova
possibilità di essere soddisfatta. Il borgo diviene il luogo dove
immagina di vivere un’esistenza appartata, rigorosamente da
privilegiato, lontano dal mondo brutale, è il suo porto sicuro dalla
barbarie della città. Naturalmente il borgo è solo per
privilegiati, è green secondo
le normative europee, e specialmente, non è un borgo ma un
condominio per ricchi che si dispone in orizzontale divorando
territorio e suolo. La comunità dimostra presto di essere solo “il
comitato d’affari” di pochi privilegiati che hanno sterilizzato
la vita. Il borgo-comunità autentico si connota per lo scambio tra
soggettività in pubblica relazione negli spazi voluti
dall’architettura sociale. L’agorà non si compra.
Nei borghi
comunità del capitalismo ogni spazio è separato, la terra è
cementificata anche quando la casa dispone di terra e recinti
costituiti da siepi ed alberi. Il compratore non entra in nessuna
comunità-borgo, ha comprato una casa di lusso; egli ha cementificato
nel tradimento linguistico il suo sogno di comunità. Nel borgo
esclusivo non c’è comunicazione ma separazione sia dai vicini che
dalla città. Il borgo nel linguaggio capitale è uno spazio chiuso,
nel quale ci si rifugia dalle violenze del mondo che il capitalismo
medesimo ha procurato. Nessun modo di produzione è riuscito a
trasformare le patologie che ha procurato e causato in un affare che
produce malesseri da cui guadagnare. Il ciclo del plusvalore è
illimitato.
Il borgo del
privilegio è afono, si vive nel silenzio religioso dei propri affari
e del proprio privato. Il capitalismo in tal modo cerca di persuadere
che ogni idea di comunità con spazi pubblici, tradizioni, usi e
costumi è solo un retaggio del passato. Il borgo-comunità è parola
che fa sognare il compratore, ma nel contempo ne rieduca la natura e
le parole. Il capitale è forza che agisce nella carne e nella vita
psichica-interiore e relazionale al fine di neutralizzare i bisogni
umani e di congelarli. La comunità di cemento dei borghi con le sua
mura altissime e con i suoi dispositivi di sorveglianza si ribalta
nell’angoscia dell’assedio. Il borgo comunità per soli
privilegiati è solo espressione delle classi limitrofe
all’oligarchia che si difendono dalla città e dalla comunità in
sofferenza, essa non è più soggetto politico, è solo privilegio
sotto scacco. La qualità di vita promessa dal borgo è solo
distopia realizzata; solitudine e angoscia sono la sostanza del
borgo che si difende dal mondo con i sistemi tecnologici più
avanzati.
Quantità senza qualità
La
comunità-borgo è solo mercato, è quantità senza qualità
similmente agli ipermercati, luoghi distopici della socialità, in
cui le singolarità in malinconici gruppi si disperdono nella
bulimia dei consumi e alle scuole in cui i clienti imparano il
catechismo del mercato.
I social
sono l’espressione popolare delle comunity,
sono l’ortopedia pedagogica del mercato per le nuove generazioni.
L’inganno strutturale è palese, si aderisce gratis ma si paga
sempre, con le informazioni rilasciate nei social
e prontamente usate per il mercato e per la
sorveglianza. Ci si offre alla trasparenza pornografica senza difesa
alcuna, in quanto le singolarità spettrali si esibiscono in un
contesto di “comunità asociale” che saccheggia le identità e il
pensiero, alla fine non resta che la nuda vita esposta e socializzata
in modo anonimo.
La violenza
a cui sono sottoposte le parole è speculare, dunque, al circolo
della violenza delle società a capitalismo integrale.
In ogni
luogo e spazio la quantità deve necrotizzare l’empatia sociale e
concettuale. La quantità è la forza del capitalismo, poiché
traduce la socialità in giustapposizione di singolarità
consumatrici, le quali producono l’uomo-massa con automatismi
impalpabili.
Solo la
comunità in cui l’urto e la parola sono poste al contatto di una
storia antica di spazi condivisi che diventano linguaggio, in cui
riconoscersi, è comunità autentica. Il capitale è lotta contro la
natura umana, essa senza la parola concreta e materiale che
costruisce l’ordito di architetture della prossimità è solo
violenza della quantità che vorrebbe cancellare la storia costituita
di comunità plurali. Le comunità si ritrovano nella parola che
unisce riflessa nella razionale disposizione dell’abitare nella
quale il contatto non è neutralizzato dalla paura dell’altro, ma
l’altro è l’amico con cui ritrovarsi.
Soglie
Il grande
compito che ci attende, nel presente, è far vivere con l’impegno
quotidiano e con la gioia di chi vive la pienezza feconda della
qualità le comunità di prossimità che ancora sono presenti nelle
nostre città e borghi. Come i monaci benedettini di un tempo
dobbiamo coltivare l’orto-comunità dal basso per dare speranza
alla nostra comune natura umana nel presente, affinché ciò possa
essere liberiamoci ed emancipiamoci dai pregiudizi e dalle
sovrastrutture linguistiche che il capitale ha inoculato in ognuno di
noi. Per liberarci dalle sclerotizzazioni emotive apprese dobbiamo
riaccostarsi e approssimarci alle comunità formali e informali dei
nostri territori senza trasformare ciò in narcisistiche visibilità.
La comunità in cammino è umanesimo materiale nel quale la
soggettività incontra l’altro per conoscersi nell’orizzonte
della storia che ci precede e apre al futuro; chi vive la comunità
senza “social” non necessita di apparire e non cerca applausi, in
quanto ha ritrovato la parola che unisce nella bellezza della
comunità con i suoi scontri e con le sue dialettiche.
La
singolarità fluida è il risultato finale del lungo processo di
decostruzione della metafisica a cui non possiamo che rispondere con
lo spirito di comunità che non conosce i muri della falsa inclusione
ma sa parlare a tutti, in quanto il contatto libera da preclusioni e
pregiudizi per porre in atto l’universale concreto. Le singolarità
atomizzate nella relazione con l’altro e specialmente nel rapporto
schizoide con se stesso sono il punto finale della decostruzione del
soggetto metafisico. La singolarità può essere la soglia di
passaggio tra la disumanità del capitale e l’umanizzazione
comunitaria nella quale pensare il declino e renderlo reale mediante
la concettualizzazione dello stesso. Se ciò non avverrà le “soglie”
di passaggio saranno solo distopie, poiché le grammatiche del
capitale continueranno a contaminarci con le tossine delle solitudini
delle singolarità in lotta.
La filosofia
è comunità, in quanto è universale concreto che pensa la verità.
Essa deve scendere dagli scranni accademici, dai social
e dai festival per ritrovare la piazza in cui il pensare risponde
alle domande del proprio tempo.
Per cacciare gli spettri impalpabili del capitalismo dobbiamo riconquistare il territorio con il senso della comunità nella quale le soggettività prendono forma e rinunciano agli spettri del capitalismo totalitario. La filosofia è prassi, pertanto essa invoca con la sua storia a ricostruire punti di coesione e passaggio attraverso la soglia della critica radicale. La radicalità comunitaria è ricostruzione silenziosa che inizia nella prossimità e nella responsabilità etica che comporta, solo in tal modo gli spettri avranno finalmente un volto e un corpo vivo, in cui riconoscersi e le parole saranno ponti di vicinanza indisponibili al mercato. La politica è parola che diviene prassi sociale. Riconquistare la “grammatica” che il capitale ha saccheggiato è il primo passo verso il comunismo, senza tale riconquista nulla sarà possibile.