L’indignazione
di una parte della stampa e dell’informazione sull’ingerenza
nella scuola delle cosiddette “lobby” pro-vita è fuorviante e
deve indurre a un ragionamento più ampio.Siamo
in presenza dell’ennesimo esempio di una polarizzazione strumentale
delle questioni. Recentemente è montata una polemica su alcuni
cartelloni pubblicitari installati dall’associazione Pro Vita &
Famiglia, dei quali il Comune di Roma ha disposto la rimozione,
considerandone il messaggio e i contenuti “lesivi” e
“stereotipati”. Due aggettivi che, comunque, invito il lettore a
ricordare, soprattutto il secondo.
Ora,
la premessa necessaria è a mio parere la seguente: le principali
linee di costruzione, articolazione e influenza ideologica sulla
Scuola, su una serie di temi variamente connessi, quali femminismo,
femminicidi, “pari opportunità”, Stem ecc., in linea di massima
afferiscono al politicamente corretto, molto più che alla destra
clericale. In altre parole, questi temi vengono ormai trattati nelle
e dalle scuole prevalentemente, se non esclusivamente, all’interno
dei quadri ideologici del politicamente corretto, che ha precisamente
questa caratteristica: si presenta, ma non è, come costitutivamente
inclusivo, egualitario, intrinsecamente costituzionale. È, invece,
fortemente ideologico. Si prenda, a titolo di esempio, il modo in cui
viene costantemente affrontata
la
cosiddetta
“questione
di genere”: sempre a senso unico, senza approfondimento, senza
analisi critica delle notizie, incorporando come presupposti che la
“questione di genere” si declini sempre e solo al singolare
femminile, che la società è patriarcale (postulato sommo,
indiscusso e blindato), che la violenza è sempre maschile.
Le
scuole dedicano a questi temi molti incontri, che finiscono
invariabilmente per rappresentare un momento di pura catechesi, dal
quale si dovrebbe, si suppone, uscire profondamente edificati.
Soprattutto, va da sé, i maschi. Di fronte a ciò, continuo a
chiedere se la Scuola dovrebbe indottrinare oppure fare antropologia
culturale. Se non dovrebbe aprire domande, invece di inculcare le
“giuste” risposte e i veri valori, incoraggiando il conformismo e
l’adesione a un sistema di valori oggetto di semplice trasmissione.
Sono
stato retorico, ma purtroppo guardando la prassi della scuola è
altrettanto scontata anche la risposta alle domande che ho sollevato.
È, infatti, esperienza comune che nel mondo della scuola la
grandissima parte degli incontri pubblici si struttura attorno alla
cornice ideologica di riferimento del politicamente corretto, con i
suoi assiomi, i suoi presupposti inamovibili, non discussi e nemmeno
esplicitati, le sue strutture discorsive. Questo accade per tante
ragioni, che in sintesi si riconducono al carattere egemonico del
politicamente corretto. Dall’egemonia come sempre discende tutto il
resto: il fatto che nella scuola entrino scrittrici e scrittori che
le maggiori case editrici selezionano già a monte in base alla
conformità delle loro idee e dei temi affrontati; lo spontaneo
allineamento di molti tra gli stessi educatori, che hanno
completamente interiorizzato i dogmi del politicamente corretto, la
cui azione plasmatrice dei comportamenti individuali e collettivi si
misura, del resto, lungo l’arco degli ultimi tre-quattro decenni;
e, ancora, il fatto che le ricette del politicamente corretto si
trincerano dietro a parole chiave come “inclusione”, “pari
opportunità” e simili, che si presentano come universali e
oggettivamente condivisibili da tutti, di modo che contro chi mostra
una disposizione critica scattano facilmente, e prontamente, i
meccanismi del silenziamento e della marginalizzazione.
Di
fronte a questo stato di cose, per cui su argomenti
molto delicati si sopprime il dibattito e si orienta il discorso a
senso unico secondo le direttrici ideologiche del politicamente
corretto, fino a che punto costituisce un problema l’attività di
“lobbying” riconducibile alla destra clericale? Quest’ultima
fornisce un’impostazione dei problemi lontana dalla mia sensibilità
personale e, in effetti, a mio modo di vedere, specularmente
ideologica. Ma il punto, mi sento di ribadirlo con cognizione di
causa, è che non è in alcun modo prevalente all’interno della
scuola. Anzi, è vero proprio il contrario. Ad essere prevalente è
la declinazione politicamente corretta. Del resto, la destra di
governo e di sistema è perfettamente allineata, come mostrano le
posizioni sempre espresse da Valditara su questi temi e, da ultimo,
le linee guida per la scuola, e in particolare per l’educazione
civica, che “invitano a collaborare
con associazioni e istituzioni
che
operano contro la violenza di genere, promuovendo una cultura
del rispetto
attraverso
dibattiti,
testimonianze e peer
tutoring”
(fonti giornalistiche).
Ad essere assente, però, è proprio il dibattito. Quanto alle
“testimonianze”, esse vanno sempre, di conseguenza, in una
direzione sola, quella prestabilita. Sono chiamate a confermarla, a
proteggerla alla radice da qualsiasi agenda o visione lettura
alternativa. Un approccio aperto e dialettico imporrebbe di trattare
in modo molto diverso temi delicati e complessi. Come? Eppure
basterebbe poco, in fondo. Sarebbe sufficiente trasformare assunzioni
dogmatiche in domande, per esempio: “La
società odierna è principalmente patriarcale?” “Quale è
l’origine della violenza nell’attuale società
tardo-capitalistica?”. Ma proprio queste sono le domande che si
evita accuratamente di porre. La grandissima parte delle iniziative
organizzate nell’ambito della scuola non ha la benché minima
impostazione dialogica, bensì replica e rilancia l’ideologia
dominante, della quale la scuola (non più) pubblica è da tempo
diventata una cinghia di trasmissione. E, ancora bisogna ricordare,
sulla stessa linea, che il disegno di legge del governo sui
femminicidi presenta chiari profili di incostituzionalità, ma
intanto è politicamente redditizio. Non c’è di che sorprendersi:
a “destra” come a “sinistra”, cavalcare il vento della
narrazione dominante è facile, immediato e ripaga lautamente.
Ululare contro la luna, agitare lo spettro del patriarcato e
criminalizzare il genere maschile in quanto tale rende bene. È un
bancomat politico e giornalistico a flusso continuo, e nessuno
intende rinunciarvi.
Aggiunge Valditara: “Come si studiano Leopardi o i logaritmi, gli studenti dovranno imparare il rispetto verso le donne all’interno dei curricula scolastici”. Anche in questo caso il ministro è del tutto in linea con l’impostazione ideologica che è stata usata per distruggere la Scuola pubblica e diminuire la funzione pedagogica dell’insegnamento. In effetti emerge, da queste parole, la convinzione che “il rispetto verso le donne” (o forse verso chiunque?), al pari, come spesso si vuole suggerire, dell’”educazione emotiva”, “sentimentale” ecc., sia qualcosa di esterno o aggiuntivo rispetto alle discipline, cui esse non possono provvedere e non sanno rispondere. Studiare Leopardi costituisce, insomma, un atto puramente nozionistico, a quanto pare. Di fronte a questa impostazione, continuo a chiedere: ma perché si legge una poesia, o un romanzo, se non (anche) per esplorare e conoscere il campo delle proprie emozioni? Se solo si lasciasse in pace la relazione docente-discente, invece di lavorare costantemente per interrompere e frammentare la didattica, non si vedrebbe meglio che sono proprio le discipline a provvedere già e pienamente all’”educazione emotiva” del discente?
Proprio questo continuo additare l’insufficienza della didattica e delle discipline costituisce la piattaforma sulla cui base è stato condotto in profondità l’attacco alla funzione pedagogica dell’insegnamento e, dunque, della scuola pubblica. Così, sembra che ci sia sempre qualcosa da aggiungere, sempre qualcosa che manca. La Scuola è già il luogo entro il quale, per definizione, si impara a relazionarsi all’interno di un sistema di regole condivise. Ma proprio affinché questo sia fino in fondo possibile, è necessario lasciare intatta la relazione docente-discente, che è quella istitutiva di tutte le altre relazioni all’interno della Scuola. Proprio al contrario, si è incessantemente proceduto a diminuire e disarticolare quella relazione. Si è in questo modo provveduto a costruire la scuola capitalista e neoliberale, ancella del Mercato, che costituisce la negazione della Scuola pubblica e costituzionale.
Pertanto,
la rappresentazione mediatica che dipinge come perniciosa l’influenza
e l’iniziativa delle associazioni riconducibili alla destra
clericale è fuorviante. Se vogliamo parlare di attività di lobbyng,
quella esercitata dalle centrali del politicamente corretto è ben
più efficace e capillare. E ha da tempo espugnato la Scuola (non
più) pubblica, stretta in una camicia di conformismo. Nella gran
parte delle sue iniziative, su questi temi la scuola non discute più
nulla, indottrina. Non apro ora un altro capitolo che costituisce un
eccellente esempio, quello delle cosiddette Stem, rimandando
piuttosto ad altro articolo che ho dedicato all’argomento: Stem
mess mal.
.
La
scuola non più pubblica, bensì capitalista, neoliberale e da ultimo
tecnocratica ha stabilito con il femminismo una solida alleanza (cfr.
Femminismo
e Capitalismo).
Insomma, stracciarsi le vesti come fanno molte testate di area “liberal” per l’intollerabile attività lobbista della destra clericale è in primo luogo ipocrita, perché il lobbismo politicamente corretto è molto praticato e molto gradito, e anzi non viene nemmeno presentato come tale, bensì offerto come un insieme di posizioni e “battaglie” in punta di Costituzione (non lo è affatto: Femminicidio Emancipazione e Narrazione); in secondo luogo è funzionale a mandare perennemente in scena una falsa polarizzazione tra le posizioni della destra clericale e quella del politicamente corretto, la cui funzione è quella di estromettere la problematizzazione e la discussione, annientando, in ultima analisi, le potenzialità di costruzione del pensiero critico della Scuola.