Il capitalismo nella
sua furia distruttrice converte ogni esperienza umana e storica in processo di
valorizzazione. Il colonialismo e l’aggressione ad ogni differenza sono la struttura
sostanziale del capitalismo. L’illimitato,
qualità del capitalismo, si esplica nel “micro e nel macro”. Le nostre
città sono state costruite mediante l’isolamento e la frantumazione irrazionale
dei centri storici, la cui cultura è sempre stata valutata, in quanto
comunitaria, un limite notevole all’omologazione di ogni spazio e tempo al
capitalismo. Nel presente come nel passato il risanamento dei centri storici,
oggi denominato pomposamente “riqualificazione”, cela nel suo grembo l’assimilazione degli
stessi con la loro cultura e con le relative professioni alla sussunzione
capitalistica. Riqualificare significa colonizzare e svuotarli della loro
peculiarità per renderli musei viventi
da mercificare e vendere al turismo di massa che consuma il proprio
tempo in spazi ormai anonimi, perché svuotati del loro linguaggio e delle
funzioni architettoniche comunitarie. Il turista massificato nei centri storici
riqualificati vive l’esperienza di “silenzio”, poiché lo spirito che li
vivificava è stato estinto dal rullo compressore della valorizzazione.
Il testo di Pier Luigi
Cervellati, La città post-industriale,
oggi introvabile, storicizza il problema e lo analizza nella sua complessità
fino a farne emergere l’inquietante verità. La definizione di “centri storici”
è il prodotto delle rivoluzioni industriali, prima di esse era la “città”; la sua definizione è stata necessaria,
quando essi sono stati assediati
dall’estensione delle aree urbane. L’aumento demografico non giustifica
totalmente il fenomeno, in quanto l’estensione ha comportato la stratificazione
sociale per quartieri dell’odierna città e la cementificazione di ogni spazio
in vista del guadagno:
“I centri storici sono
un prodotto specifico ed emblematico della società industriale: prima dell’avvento
delle rivoluzioni materiali non esistevano. C’era, l’abbiamo già detto, solo la
città[1]”.
La nuova
determinazione dei confini della città e la sua divisione in centro e in
periferia ha disperso l’unità architettonica e la spazialità razionale e
comunitaria, giacché l’unità spaziale era speculare alla vita comunitaria.
L’astratto con le sue divisioni e le sue forzature geometriche ha contribuito a
fondare “l’atomistica delle solitudini” nelle città. Spazi e architetture
disomogenee hanno atomizzato i cittadini e li hanno resi individui gerarchizzati
e spazializzati; su tutto impera il capitale che trasforma in merce la storia
fino a farla inabissare nella categoria della quantità. Sotto la scure della
gerarchizzazione astratta caddero anche i monumenti che scissi dai contesti
furono valutati in “principali e minori” rompendo in tal modo la bellezza
razionale della città storica nella quale “il tutto dava senso alla parte”:
“Mentre nel contesto
territoriale veniva a formarsi un <<centro>>
e una <<periferia>>, nell’ambito della parte urbana preesistente (coincidente
con il centro e quindi battezzata centro storico) vennero distinti i monumenti dal cosiddetto <<tessuto
edilizio minore>>[2]”.
La disintegrazione del tessuto urbano della città storica
inocula nell’architettura urbana un processo di alienazione che riflette la reificazione
della società sotto il comando del capitale. I monumenti isolati e staccati dal
contesto delle architetture minori sono saccheggiati del loro deposito di senso
che emerge soltanto dalle relazioni
urbane con il loro intreccio. L’isolamento e la solitudine del “monumenti
maggiori” è parte delle solitudini del nuovo ordine. Il declino del rapporto
volumetrico e spaziale è pari al tramonto della socialità generale:
“Il meccanismo di
sostituzione del contesto/cornice formato dal tessuto edilizio minore, provoca
profonde alterazioni agli stessi monumenti, i quali, isolati o circondati dalle
nuove architetture, perdono il loro significato originale, diventano corpi
estranei, spesso incomprensibili in quanto viene a mancare quel rapporto
volumetrico e spaziale che si era
raggiunto con la conformazione originale[3]”.
Il tessuto urbano violato e vilipeso comporta la deportazione
degli abitanti del “centro storico”. I benestanti nei quartieri periferici che
imitano i borghi mediante villini e complessi, oggi sempre più blindati e
difesi da alte mura; i più poveri sono costretti a vivere nei ghetti. Si pensi
al caso “Bari”, ma potrebbe essere qualsiasi metropoli, con il quartiere San Paolo e i nuovi quartieri
distanti non pochi Km dal centro. La segregazione è tra di noi, ma non è
riconosciuta, nel frattempo il centro storico artatamente svuotato si riempie
dei nuovi ceti emergenti che lo utilizzano in modo snobistico dopo averlo sterilizzato
della sua cultura. Nel nostro tempo i centri storici sono solo un immenso bed and breakfast, hanno perso l’anima,
non producono nulla materialmente e spiritualmente, ma la morte della civiltà è
con noi. Destra e sinistra liberali ancora oggi continuano a riqualificare i
quartieri storici annichilendo identità e culture e arricchendo i soliti noti,
anche questo è nichilismo. Si vive tra spazi estranei e stranieri:
“I ceti sociali che
tradizionalmente abitavano e lavoravano nella città preesistente sono
sostituiti da nuovi ceti e da nuove attività mediante la segregazione dei più
poveri in ghetti periferici e di quelli appena più benestanti nei quartieri
(sempre periferici) imitanti le <<città giardino>>[4]”.
Corresponsabili dello scempio che da decenni avanza
desertificando la storia e cancellandola sono gli architetti, i quali, organici
al mondo degli affari e presi da un inarrestabile impeto narcisista, propongono
soluzioni urbane innovative e dirompenti al fine di elevare il loro nome nel
loro desiderio di “immortalità”. Si percepiscono affini ai grandi del passato
senza aver compreso la causa della loro grandezza. La nuova ignoranza è una
condizione dell’anima. In tale movimento
non vi è nessuna riflessione sui contesti e sulla loro storia che sono in tal
modo disintegrati tra affari, narcisismo
e ignoranza. La vera ignoranza è l’incultura del contesto materiale e umano che
in tal modo cade vittima di tale tragedia:
“Gli architetti non si
danno pace. Per nulla auto-critici di ciò che stanno realizzando nella
periferia, in costante aumento grazie anche alla loro opera; per nulla
perplessi della validità dei loro prodotti culturali, ritengono che la sola
possibilità di diventare immortali sia quella di confrontarsi con le opere
d’arte del passato[5]”.
L’architetto che si erge nel suo solipsismo a giudice degli spazi, è organico ai poteri forti, pertanto ignora che la bellezza funzionale della città
storica era il risultato del fitto dialogo tra costruttori e abitanti, poiché
la città è degli uomini e delle donne che la abitano e la vivono, mentre nel
nostro presente la città è solo
transazione economica per i ghiotti appetiti degli affaristi. La comunità si è
dissolta nell’espansione irrazionale delle città che fagocitano ogni spazio
monetizzabile:
“Allora esisteva un
amore profondo per l’ambiente costruito
da parte di tutti i cittadini. Un amore intenso e partecipato, tale da
tramandarci assetti urbani che oggi, consapevolmente, consideriamo opere d’arte,
monumenti di cultura e di storia[6]”.
L’architettura non è più un’ arte ma un comitato di tecnici
limitrofi agli affari, viene a mancare, dunque, la teleologia oggettiva dell’architettura che
di conseguenza diviene manipolazione degli spazi il cui fine è “vendere e
comprare”, è il trionfo dell’architettura del mercimonio:
“L’architettura, in
quanto opera d’arte, non si compra e non si vende. A vendersi sono solo gli
architetti. Consapevoli della loro mediazione culturale, avallano gli interventi più strampalati, barattandoli
per opere di grande interesse artistico quando invece costruiscono il
consolidamento del processo di trasformazione urbana e il mantenimento della
produzione edilizia all’interno e all’esterno della città storica[7]”.
In modo esplicito Pier Luigi Cervellati
nomina ciò che erode dal suo interno l’architettura rendendola una tecnica
mediocre e nichilistica:
“L’architetto si illude
nel migliore dei casi di affermare la propria personalità, mentre, al
contrario, è succube dell’imposizione del sistema produttivo[8]”.
La riqualificazione, parola che evoca buone intenzioni, in
realtà è parte del neo-linguaggio orwelliano che consente di distruggere il
passato e le comunità e passivizza le comunità con l’illusione della restituzione
del patrimonio saccheggiato o che sta per essere predato. Dovremmo imparare,
tutti, a diffidare delle parole del “capitalismo”, è il primo passo per
difenderci dalla sua intrinseca capziosità, solo in tal maniera sarà possibile
rianimare ciò che sotto il nostro sguardo scompare nel “niente del capitale”.
Lo scempio delle città e l’architettura divenuta da arte per l’uomo ad “affare”
consente di guardare in profondità la barbarie che si cela dietro il velo di
Maya delle belle parole e dei calcoli spaziali e volumetrici. Tutto è solo
calcolo per l’aumento esponenziale del plusvalore; sotto le macerie
dell’architettura giacciono le civiltà.
Il furore iconoclasta del “progresso” ha reso le città luoghi della
disperazione e della solitudine senza speranza.
[1] Pier
Luigi Cervellati, La città post-industriale , il Mulino, 1984 pag. 47
[2] Ibidem
pag. 48
[3] Ibidem
pag. 49
[4] Ibidem
pag. 49
[5] Ibidem
pp. 51 52
[6] Ibidem
pp. 52 53
[7] Ibidem
pag. 53
[8] Ibidem pag. 54
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