Umberto Eco è stato, a mio avviso, un intellettuale organico di tipo particolare originale e “grande”. E’ riuscito cioè a rimanere fuori dalle torri d’avorio dell’accademia nell’epoca della morte dei partiti, questo è un merito alto ed è ben rappresentato dalla sua conversione da “critico” a “romanziere”, in particolare dalla grandezza di “Il nome della rosa”. Certamente come ricordava Massimo Cacciari, Eco è stato un notevole filosofo medievista, studioso dell’estetica di Tommaso d’Aquino e certamente soprattutto con “Opera Aperta” grande mediatore di cultura europea, dello strutturalismo in specie, nel contesto letterario italiano. Ma ad un certo punto, proprio quando tramontava la storia della sinistra -inizio anni 80- cioè la sua funzione di formatrice di società, di direzione pedagogica presso il popolo, lui si volse ad un romanzo “medievale” che popolarizza il suo sapere. Peraltro quel romanzo non solo è al crepuscolo della sinistra ma ben dentro l’impossibilità 900esca del romanzo borghese, del romanzo con un soggetto. E’ una sfida epica e riuscita: Il nome della rosa è uno dei libri più importanti del 900, capolavoro non solo della letteratura italiana ma della cultura europea. Posso non essere d’accordo, in compagnia del maestro Tullio De Mauro, sulla semiologia ne con l’esasperato laicismo di ex cattolico ma la sfida e la sintesi di Eco sono state eccellenti dal punto di vista artistico, scientifico e soprattutto, sottolineo, etico. La sua opera lascia alla presente crisi di civiltà il problema del divorzio tra nomi e cose (sul suo sfondo a mio avviso c’è Wittgenstein più di Foucault) che lui ha indagato dal lato dei nomi lungo tutta la sua biografia “possediamo solo il nome”. Rimane la “rosa”, anzi nell’originale di Bernardo Cluniancense il “ricordo di Roma”, la nostalgia della “res pubblica”.