Ogni comunità per vivere e sopravvivere necessita di regole, il fondamento che regola il rapporto tra le parti è l’indicatore della qualità delle relazioni. Nelle società a capitalismo avanzato il fondamento è occultato dall’egemonia culturale delle oligarchie che agiscono per imporre “ i propri valori” e nel contempo mascherano la verità storica.
Il capitalismo totalitario non ha un fondamento assiologico, all’origine di tutto vi è la merce quale orizzonte ultimo di ogni intenzionalità relazionale. I rapporti fondati sull’utile non hanno fondamento etico, non vi è reciprocità, ma pratica della sola sudditanza. La democrazia all’ombra del capitale non può che recitare un ruolo nel contempo formale ed ideologico: formale, in quanto come ci ha insegnato Marx, uguaglianza e diritti individuali dipendono dalla condizione materiale del soggetto, ideologico poiché “la bella forma del diritto” deve occultare interessi oligarchici, che con i mezzi di controllo e produzione dell’opinione pubblica ripetono ossessivamente che oltre questa democrazia con i suoi inattingibili diritti vi è il nulla o il pericolo rosso-bruno.
La pandemia sta palesando la normalità in cui siamo immersi, come i pesci in acqua non percepiscono la verità della loro condizione, nel tempo pandemico il dominio mette in atto la sua pratica di potere senza che questa causi scandalo e resistenza generalizzata. La relazione è Erfahurung, esplorazione, e non saccheggio dell’altro. Il capitalismo come re Mida trasforma in oro tutto ciò che tocca, ma provoca la morte per asfissia da plusvalore. Tale paradigma si è installato ovunque, al punto che il male è la normalità del modo di produzione capitalistico. Il male è l’assoggettamento quale fine del nuovo ordine mondiale. L’obbligo vaccinale indiretto con la sua logica ricattatoria è stata accettata supinamente dalla maggioranza. L’incredibile è il silenzio su tale normalità. Vi è da sorprendersi, si alzano voci di dissenso dinanzi ad ogni violazione, anche minima, alla libertà delle donne e di qualsiasi minoranza, ma il ricatto generalizzato è vissuto con acquiescente normalità. Si vive in una realtà violentissima, al punto che si può ricattare il comune cittadino senza che ciò procuri dialettica ed opposizione, se ciò avviene, non è per la paura del covid, ma è per la normale violenza su cui abbiamo disegnato l’ordito delle relazioni. Il ricatto è diventato il modello pedagogico della gabbia d’acciaio in cui siamo: i padroni ricattano i dipendenti, i dirigenti pubblici e privati i loro sottoposti, i giovani hanno imparato l’arte della seduzione sui vecchi, li ricattano con il potere della giovinezza, per sopravvivere i lavoratori accettano condizioni lavorative capestro con redditi umilianti, perché non c’è alternativa. In ogni relazione si è insinuato il ricatto associato alla dipendenza per solitudine e al timore dell’abbandono: la chiamano libertà, ma è solo violenza generalizzata. Il ricatto vaccinale rientra in tale clima plumbeo, in cui il dono è sostituito dal plusvalore, in cui la parola è un fendente sempre in azione che colpisce in modo continuo. Fin quando non saremo capaci collettivamente di guardare la verità in cui siamo immersi e dispersi e continueremo ad accettare la logica della lotta orizzontale tra uomini e donne, tra vaccinati e non, tra migranti e non saremo sempre oggetto della violenza, ma specialmente saremo veicolo di violenza. L’adattamento a condizioni ambientali ostili fa in modo che la violenza proliferi ed alligni in ogni rapporto.
Da sudditi a cittadini
Il ricatto vaccinale è un’occasione di consapevolezza, il potere si mostra nella sua verità senza filtri, si sente onnipotente, ha constatato che può procedere, in quanto l’azione-reazione è minima. I sudditi hanno introiettato la violenza, ne sono parte, il potere circola ed ha inciso nei corpi e nella mente la sua logica vessatoria e nel contempo sono attraversati da uno scollamento schizoide, praticano la violenza, ma non la riconoscono. I sudditi hanno imparato il linguaggio dei dominatori, sono più realisti del re, per cui il dominio procede a salti sempre più ampi verso il dominio totale. Le nuove generazioni vivono il ricatto come un ammaestramento-addomesticamento da cui attingere un modello da mettere in atto: tutto avviene in modo naturale. Vi è la necessità della mediazione razionale e dialettica per palesare la violenza della scissione ideologica. Il grande compito della politica e degli intellettuali, quali uomini e donne di buona volontà, è agire in ogni ambito per trasformare l’abitudine al linguaggio svuotato della sua valenza significante in consapevolezza. Nel linguaggio si aggira il vero virus che sta divorando la comunità, e tale virus è il capitalismo totalitario che rinchiude il pensiero in formule stantie da cui non riesce ad uscire. Al silenzio del dominio bisogna opporre una nuova egemonia culturale, essa può usufruire di canali apparentemente secondari, ma questo può segnare l’inizio di una rivoluzione delle coscienze, una più diffusa resistenza alla logica del ricatto quale abile strumento di dominio che si appella al diritto per giustificarlo. Senza l’approccio olistico la violenza continuerà a perpetuarsi. Gli esseri umani hanno bisogno di capire per uscire dalle prigioni del capitale. Comprendere il proprio tempo significa partecipare alle decisioni politiche, riappropriarsi del linguaggio per vivere l’esperienza del corpo vissuto come possibilità di sentirsi parte di un tutto, e non per guerreggiare tra mortali pulsioni che spingono verso una solitudine violenta e disperata: è qui che si costituisce dinamicamente e drammaticamente la violenza. Il ricatto seduce ed abbandona causando il dramma della violenza. Bisogna riportare la violenza al suo contesto, non si deve cadere nella trappola della scissione e dell’astratto con cui il potere cerca di ipostatizzarsi privando i sudditi di strumenti per capire. Tagliare la parte dal tutto come normalmente si fa con il femminicidio è il modo con cui il potere continuerà a perpetuare se stesso senza subire scossoni di nessun genere. Per decodificare la violenza bisogna usare lo scandaglio della filosofia che ricostruisce le interconnessioni tra le parti per generare nuova vita. Alle passioni tristi del nostro tempo bisogna opporre più vita e più pensiero per sentirsi ancora potenza attiva e progettante, e questo è un ottimo anticorpo contro la violenza. Chi usa la violenza si sente “niente”, chi vive “il ricatto emotivo” può trasformare la rabbia in violenza che invece deve sublimarsi in vita comunitaria pensante: tutto è ancora possibile[1]:
“Ma che l’assenza di passioni, la rettitudine e la benignità del comportamento divenga costume, è connesso per un verso con la diretta educazione etica e di pensiero, la quale fa da contrappeso spirituale a quel che l’apprendimento delle cosiddette scienze degli oggetti di queste sfere, la debita pratica degli affari, il lavoro reale ecc. ha entro di sé di meccanicità e simili; per un altro verso la grandezza dello stato è un momento principale, grazie al quale viene indebolito il peso di legami di famiglia e di altri legami privati, quanto anche divengono più impotenti e con ciò più smussati vendetta, odio e altrettanti passioni; nell’occuparsi dei grandi interessi sussistenti nel grande stato scompaiono per sé questi lati soggettivi e genera sé la consuetudine di funzioni, vedute e interessi universali”.
[1] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza Bari, pag. 238