Ho dedicato un precedente articolo su questo blog all’epopea mistico-rivoluzionaria di Thomas Müntzer, a sua volta solamente un episodio – benché il più significativo dal punto di vista storico e politico – della Bauernkrieg che infuriò in Germania nel primo quarto del XVI secolo. Quella tedesca rappresentò un unicum per durata e dimensioni, visto che interessò vaste regioni del Paese, ma l’esplodere di rivolte contadine costituisce un evento tutt’altro che eccezionale nell’Europa che esce lentamente dal medioevo per affacciarsi all’età moderna. Simili fiammate si registrano soprattutto nel ‘300 e nel ‘500: l’ultima grande sollevazione – quella guidata dal giovane servo della gleba Matija Gubec – divampò nella Slavia asburgica nei primi anni Settanta del XVI secolo. Ribellioni scoppiarono anche successivamente nei territori dell’Europa dell’est (chi non ricorda la sfida di Pugačëv alla grande Caterina?) causa il perdurare di condizioni di arretratezza economico-sociale, ma merita focalizzare la nostra attenzione sulla porzione occidentale del continente, senz’altro la più sviluppata e dinamica dal punto di vista produttivo.
Il periodo che va dal Tre al Cinquecento è quello in cui prendono forma e si irrobustiscono gli Stati nazionali e il feudalesimo entra definitivamente in crisi. Frequenti insurrezioni contadine costellano un’epoca di cambiamento, attirando l’attenzione di storici come il francese Froissart e di osservatori del calibro di Lutero, che in genere condannano senza appello i moti: solo ai ceti egemoni e a quelli emergenti è consentito “rompere” l’ordine sociale. Ma chi erano, come vivevano e cosa si prefiggevano questi agricoltori-servi capaci di sollevare il capo all’improvviso gettando nel caos interi regni?
Sulla scia di Karl Marx, che paragona provocatoriamente la condizione degli operai suoi contemporanei a quella dei servi della gleba, dimostrando che la prima è di gran lunga più infelice, Massimo Fini – pensatore di cui ho profonda stima – dipinge un quadro quasi idilliaco della vita nelle campagne medievali: le corvée dovute ai feudatari sarebbero state in genere lievi e i contadini avrebbero goduto di vitto decente e tempo libero. I nobili, da parte loro, si sarebbero guadagnati il mantenimento difendendo con le armi i produttori dalle minacce esterne. Un equo scambio? Paiono pensarla in fondo così quegli storici a detta dei quali le ribellioni servili sarebbero scoppiate di norma nei periodi di relativa abbondanza, non in quelli di carestia: chi ha la “pancia piena” può permettersi di filosofare e avanzare rivendicazioni. La tesi – espressa proprio in un documentario su Thomas Müntzer che ho visto di recente – si scontra con alcuni dati acquisiti. Assistiamo all’inizio del ‘300 a un netto calo delle temperature medie in Europa: cronisti dell’epoca attestano che nei mesi invernali il Tamigi si copriva di uno spesso strato di ghiaccio. Questa “piccola glaciazione” dura alcuni secoli: nei quadri fiamminghi del ‘400 e ‘500 strade e tetti appaiono regolarmente imbiancati e i pittori imparano a raffigurare la neve che cade dal cielo. A loro volta le estati erano più corte delle attuali e piuttosto tiepide, gli autunni piovosi: freddo e avversità atmosferiche non favoriscono buoni raccolti, specialmente se gli attrezzi disponibili sono rudimentali e l’organizzazione del lavoro latita. Alla piaga del clima ostile si aggiunge quella della guerra, endemica al pari delle pestilenze: quella c.d. dei cent’anni insanguina il territorio francese per ben più di un secolo (dalla metà del ‘300 al terzo quarto del ‘400) e il Cinquecento è segnato dalla lotta continua fra le grandi potenze continentali. Durante le tregue (più o meno lunghe) gli eserciti non fanno ritorno a inesistenti caserme: essendo composti in gran parte da mercenari e avventurieri si scindono in bande di predoni che scorrono le campagne razziando villaggi e cittadine senza che vi sia contrasto da parte dei feudatari.
I padroni non fanno il loro dovere, in compenso approfitta dei propri (pretesi) diritti: nei cahiers de doléances abbondano le descrizioni di ingiustizie e soperchierie patite dai “vermi della terra” e l’accorata denuncia contenuta nei XIII Articoli dei contadini tedeschi ci lascia intravedere un mondo in cui il forte abusava senza ritegno dei deboli. Il feudo è ormai un relitto del passato e il signore, smarrita la sua funzione sociale, vive da parassita alle spalle di sudditi angariati e vilipesi – esistono anche agricoltori ricchi, ma sono un’eccezione. L’esistenza dei poveracci è grama: ci si alza all’alba per andare nei campi, poi – dopo una giornata di fatica – si fa ritorno al calar del sole a miserabili capanne dove manca tutto, salvo sporcizia, malattie e promiscuità. La carne è assente dalle tavole, la speranza di vita breve, l’igiene sconosciuta: imbattendoci in uno di quegli omuncoli lerci, sdentati e analfabeti, spesso rachitici, proveremmo un senso di ribrezzo analogo a quello manifestato dai cronisti dell’epoca, tutti espressione di ceti elevati. L’unico svago sono le sagre in cui si gioca, ci si ubriaca e – come racconta la storica Barbara Tuchman nell’opera “Uno specchio lontano” – ci si diverte ad ammazzare a testate gatti crocifissi a palizzate in una grottesca scimmiottatura del martirio cristiano. Una società violenta e diseguale produce folle cenciose di bruti, la cui rabbia repressa erompe quando la sorveglianza del potere si allenta. Capita talvolta che a prendere la guida di turbe rumoreggianti sia una figura dotata di carisma – come Dolcino – o addirittura un letterato idealista, capace di dare forma a proteste che resterebbero altrimenti inarticolate, al vago anelito a un ritorno a quell’età dell’oro in cui il servo era trattato da uomo e i diritti consuetudinari venivano rispettati.
Nella stragrande maggioranza dei casi le lagnanze (perché di questo si tratta, più che di rivendicazioni consapevoli) si incentrano sulla rapacità degli esattori regi e su arbitrii commessi dai signori feudali: la critica non è rivolta al sistema in quanto tale, ma a singoli comportamenti percepiti come ingiusti e “devianti”. Destinatario delle richieste è il sovrano, cui il popolo minuto si rivolge come a un garante e un patrocinatore delle proprie ragioni: ministri infedeli lo tengono all’oscuro di ciò che accade, ma una volta messo sull’avviso il Re – unto dal Signore – ripristinerà d’imperio l’ordine naturale delle cose. Anche nei celebri XIII Articoli – redatti da intellettuali vicini al movimento contadino – ritroviamo pretese ragionevoli e in fondo moderate: il ripristino delle proprietà collettive usurpate dai nobili, la terzietà del giudice, l’accesso all’acqua e alle risorse del bosco. Nessun afflato rivoluzionario, insomma: a essere messa in discussione non è l’organizzazione sociale nel suo complesso, bensì il cattivo uso che alcuni appartenenti alle classi dominanti fanno delle loro prerogative. Ci sono delle eccezioni al modello fin qui descritto: nell’Inghilterra di fine ‘300 Wat Tyler e John Ball – un religioso che ricorda Müntzer – innescano un moto dai tratti rivoluzionari, ma anch’essi si affidano alla benevolenza regia per ottenere l’abolizione della servitù della gleba e del feudalesimo. L’unico capo di estrazione contadina capace di immaginare un cambiamento è il croato Gubec, ma la ribellione da lui guidata si situa in piena età moderna. In estrema sintesi i contadini, classe oppressa, non acquisirono mai, se non episodicamente, una coscienza rivoluzionaria – e questo spiega perché, in un momento successivo (la fine del ‘700: si pensi alla Vandea e al Regno di Napoli) divennero massa di manovra delle forze reazionarie.
La Storia ci insegna che tutte queste rivolte falliscono e vengono soffocate nel sangue: un esito apparentemente non scontato. Per quanto malaticci e denutriti i contadini del tardo medioevo sono gente tosta, abituata alla fatica e a maneggiare arnesi di metallo che, all’occorrenza, possono convertirsi in armi – taluni, avendo servito nelle milizie locali, sanno maneggiare lancia e spada. Inoltre non hanno nulla da perdere: questo li rende temibili. A Bad Frankenhausen (1525) a fare la differenza saranno i cannoni e la perizia bellica di soldati professionisti, ma nel Trecento le armi da fuoco sono rare e poco efficienti, a decidere le pugne sono la destrezza e il vigore fisico. I nobili mangiano meglio e sono più addestrati, ma il loro vantaggio non è incolmabile, anche perché sono assai meno numerosi degli avversari – e in effetti pochi manieri resistono alla furia dei servi, che nelle fasi iniziali hanno quasi sempre la meglio su chi li sfrutta. Le monarchie non dispongono di eserciti regolari: allo scoppio di un conflitto fornire soldati è compito dei vassalli, ma la penuria di risorse e le difficoltà di vettovagliamento riducono le dimensioni delle armate, che contano poche migliaia di uomini. L’unico punto di forza di questi eserciti raccogliticci, che non reggerebbero l’urto di una legione romana, è la cavalleria pesante corazzata, formata da nobiluomini allenati a combattere. Esistono soltanto due modi per arrestarne la carica: il ricorso all’arco inglese, in grado di colpire da lontano con dardi che perforano le corazze, e l’impiego in prima linea di picchieri. Questa seconda tattica viene efficacemente rappresentata da Mel Gibson nel film Braveheart (battaglia di Stirling Brig), ma gli esempi storici non mancano: l’uso di lunghe aste appuntite regalò agli araucani del Cile una clamorosa vittoria sulla cavalleria di Almagro, che pure aveva travolto a più riprese i disciplinati eserciti incaici.
Il tiro con l’arco era diffuso in Inghilterra, ma non in Francia, e i ribelli erano privi di lance e soprattutto inesperti del combattimento in formazione – pertanto in campo aperto non riuscirono mai a opporre una resistenza degna di questo nome ai cavalieri pesanti, che penetravano le file avversarie come una lama nel burro. A questo punto il numero preponderante diventava uno svantaggio: lo schieramento si frantumava e i combattenti di prima linea, fuggendo in preda al terrore, si scontravano con quelli che venivano dietro. Caos e panico prendevano il sopravvento: nella calca molti finivano calpestati a morte dai compagni, mentre soltanto la spossatezza fisica poneva fine al massacro a opera dei cavalieri, che letteralmente giocavano con la vita altrui.
Non era questo l’epilogo: alla strage in battaglia seguiva il macello dei sopravvissuti. I capi ricevevano un trattamento “di riguardo”: con l’attivo coinvolgimento dell’autorità religiosa – paladina dello status quo – i leader vengono orrendamente torturati e poi messi a morte coram populo. A Matija Gubec viene posta in capo una corona arroventata: siamo di fronte a una parodia della passione di Cristo che non può che essere voluta. Il ribelle va punito in maniera esemplare poiché ha osato l’inosabile, contestando la sistemazione data all’universo da un (presunto) Dio assai compiacente nei confronti dell’élite. Guai a chi attenta a potere e privilegio! Il “patrono arcifanatico dei contadini” (Müntzer) diviene allora l’Anticristo, e come tale va trattato – assai peggio di qualsiasi criminale che, in fondo, attenta alla proprietà o alla vita, non alla visione padronale del mondo.
Ribellarsi è giusto, la colpa risiede nel non avere la capacità di andare fino in fondo.
Fonte foto: Novos Diàlogos (da Google)