1) Sul Kototoi bridge di Tokyo, sospeso sullo scorrere del canale di Sumida, insieme alla nipote Niko, Hirayama, il protagonista, pronuncia il suo unico discorso per esporre una teoria di spazio e tempo. Lo spazio è “monadi”, afferma: “ognuno è un Mondo” con possibilità ma non necessità di incontrare “un altro Mondo”. Il tempo è istanti presenti- discontinui, canticchia con la nipote: “adesso è adesso -un’altra volta è un’altra volta” e allude ad una non linearità – progressiva del tempo. Il film narra la “routine” del protagonista e questa ripetizione ci propone un mondo stabile. Lo spazio si allarga (espira) dall’angusta casa → alla città intera dove lavora, ai giardini, alle terme, al piccolo bar dove mangia la sera → alle piccole variazioni del giorno di festa (la lavanderia, la libreria, il locale) → per poi, infine, tornare a restringersi nella casa (inspira).
Analogamente “respira” il tempo : ogni “genere” di gesto (alzarsi /piegare il futon, ecc.) con minime varianti “specifiche” è celebrato ogni giorno. Circoscrizione dello spazio con abitudinale frequentazionedegli stessi luoghi e ritualizzazione del tempo con la ripetizione altrettanto puntuale dei gesti. Torna sempre sugli stessi posti e fa sempre le stesse cose, così ha familiarità del proprio Mondo e “rallenta” il proprio tempo. Così le piccole varianti, le “specifiche” novità, dei luoghi e nei giorni, risaltano e sono valorizzate come occasioni, come nessi tra i Mondi, ponti tra esistenze (il favore per il giovane collega, la ragazza del giovane incuriosita dalle musicassette, la nipote, gli apprezzamenti della ristoratrice, la confessione del marito della ristoratrice, ecc.).
2) La ritualizzazione dei gesti rallenta il moto del tempo fino alla sua sospensione. Ogni giorno fotografa le chiome delle piante, poi, ne conserva le stampe con “cronologica” sistematicità. Questo rito ha funzione “ritornante” e rovescia la critica di Bergson alla fotografia, per il quale gli scatti separerebbero la vita facendone perdere il senso di continuo fluire eracliteo. Hirayama invece esalta la capacità di mantenere le “infinitesimali” variazioni, cioè apre la possibilità di poterci tornare su, un “eterno ritorno”. In ogni “piccolezza marginale” c’è il valore: la nuova fogliolina sbocciata, precaria, alla base di una pianta secolare è il segno “attuale” (mutamento) che rassicurante non perde di vista il grande albero: la sua solida origine potenziale (essere). Questa sospensione “temporale” dispone alla “estasi” all’essere fuori (ἐξ + στάσις) “spaziale”; è il presupposto per disporsi ad incontrare altri Mondi possibili, altre monadi, altre esistenze.
3) Il silenzio sistematico di Hirayama è lo strumento per ascoltare altre esistenze: nudo di parole è capace di accoglierne altre. Sospende il fluire del linguaggio, del proprio “logos”, per “star fuori” a cogliere i piccoli segni, le stentate foglioline delle altrui esistenze. Rallentando la sua esistenza incontra altre esistenze: riesce a curarle, a confortarle e viene riconosciuto. Succede nel caso dell’aiuto al suo giovane collega desideroso di amare una scorbutica ragazza, a sua volta confortata da Hirayama (mutamento casuale) ma anche, quando il barista accogliendolo tutte le sere porgendogli un bicchiere d’acqua: “ecco a te dopo una giornata di duro lavoro” (ripetizione costante).
4) Tuttavia questi incontri non riescono a ricostruire una rete comunitaria stabile; la socialità emergente dal film è rapsodica, stabilizzata, come le foto, in frammenti momentanei. D’altra parte non c’è possibilità per un dialogo “politico”con coloro che incontra, una comunanza più profonda. Due passaggi conflittuali evidenziano questa disgregazione: A) Il giovane collega “scojonato” si licenzia e H. deve coprire il suo turno; è l’unico passaggio dove emerge un turbamento e una “ferma” protesta con l’azienda. B) Nell’incontro con la sorella, scesa da una potentissima fuoriserie nel suo modestissimo vicolo, si avverte una distanza valoriale incolmabile. Si accenna ad una misteriosa scelta precedente non meglio chiarita e in quest’algido incontro emerge oltre la distanza di “classe” quella familiare.
5) La sorella menziona il padre, un ricco magnate, e ci lascia intuire la rottura francescana di Hirayama, la rinuncia agli agi familiari. Abbiamo solo qualche altro indizio delle sue radici: la romantica collezione di musicassette e l’ascolto del rock degli anni anni 70/80 e le foto su pellicola ad attestare l’indifferenza per la tecnologia presente e un legame sentimentale con un età trascorsa. Non ha TV, smartphone e usa l’auto solo per il lavoro, spostandosi poi con una pesante bici. Pare nascere ogni giorno svegliandosi sul tatami e ogni giorno meravigliarsi del cielo, uscendo di casa.
6) Prima di svegliarsi fa sogni, anche loro ritualizzati. Forme geometriche che evocano gli ideogrammi intrecciati a immagini naturalistiche, le fronde degli alberi che fotografa durante la giornata. Nel cielo, appena uscito dalla sua abitazione-fetale, scorge l’impressionante Tokyo Skytree, torre di comunicazione di 634 m che sovrasta Sumida, il suo quartiere, e l’intera città. Questo contrasto, simbolico e ancestrale, propone un confronto tra lingua e comunicazione. Nel sogno, la geometria del linguaggio pittografico è un rispecchiamento della natura. Il “discorso orientale”, quel logos, tende a porsi sullo stesso livello dell’ambiente, è naturalistico. Di contro la Torre simboleggia la comunicazione del linguaggio verbale “globalizzato”, degli alfabeti verbali che articolano complesse retoriche per persuadere comunità. La lingua, nella tradizione occidentale, si stacca dalla comunità politica “greca”, dove era nata, per porsi in alto, sulla Torre, e manipolare “sofisticandola”, la verità di chi è in basso. Così Hirayama trascorre “il giorno-comunicativo” ad evitare le parole e per rammemorare, nella notte, i segni dell’essere.
6) La notte è platonica e filosofica, con la visone onirica “pura” di forme-idee nel netto contrasto dialettico del “bianco e nero” \ il giorno con le “impure” sfumature colorate di cose e persone pare invece complicare e confondere il vero. La situazione è analoga a quella dell’essere di Heidegger “gettato nel Mondo”. Anzi è “deietto” – cioè partorito\cacato – così come succede a Hirayama quando uscito da casa (feto) si trova nei cessi “fashion” di Tokyo. La “gettatezza” è, qui, il trauma giornaliero di nascere senza radici “sociali” e di cadere più in basso di tutti – la deiezione – per trovarsi nella posizione più autentica, più pura, e poter curare cose e persone, al di là dell’apparire.
7) Nell’approdo orientale di Wenders c’è dello scetticismo politico ed è a noi più affine la civiltà giapponese. La solitudine di Hirayama evoca la condizione urbana occidentale – qualcuno ha rilevato come il Giappone del film sia molto “didascalizzato” e piegato alle finalità del regista – e la sua mistica quotidiana paragonabile ad una scelta monacale. L’occidentalizzazione ha frammentato le relazioni ma ancora, e ai margini, è possibile una via “individualista”, zen, all’armonia, divergente da quella confuciana-cinese dove la felicità è nell’equilibrio della “comunità”, dato dalla saggezza politica. Al nostro “neomedioevo” occidentale la scelta di Hirayama appare opzione possibile di vita frugale: parca di cose e parole, permette di riconoscere l’autentico.
8) Il marito di “Mama”, la ristoratrice – che è Sayuri Ishikawa, una delle più note cantanti giapponesi, canta la canzone degli Animals “The house of the Rising Sun”, che nel ritornello parla di perdizione “La chiamano sole nascente / ed è stata la rovina di molti poveri ragazzi”; il Giappone è il Paese del “Sole Nascente” – incontrando sul greto del fiume “eracliteo” Hirayama gli confessa la sua malattia mortale chiedendogli di vegliare su “Mama”. Di fronte a questa “situazione di autenticità” Hirayama si “scioglie” e gioca con il marito a calpestare le proprie ombre. Ridono chiedendosi se due ombre fanno più ombra di una, se due esistenze possano congiungersi. Di fronte all’autenticità della morte, Hirayama è capace di Cura, di avvicinare l’altro.
9) Veniamo a contatto unicamente con il “fare” del protagonista ma proprio quell’attivismo, quel darsi, è anche nascondiglio per la sua anima, per le sue emozioni. C’è una sequenza di primi e primissimi piani del volto di Hirayama, dove si succedono, con mimica compulsiva, espressioni felici\tristi. La sua intimità emerge unicamente in questo piano strettissimo e privato, mentre normalmente domina il controllo emotivo e la sua faccia, scarna e precisa, risulti una chiara indicazione per chi lo guarda. Rispetto alla teoria pirandelliana (e occidentale) del volto quale maschera sociale, che espone un’anima falsa per confondere l’osservatore, qui, la faccia coincide conl’anima, senza doppiezza. L’intimo è tutto visibile nei suoi atti, è ciò che gli vediamo fare; la psicologia, il travaglio dell’io, è risolta completamente nella morale, nell’io di fronte agli altri.
10) C’è qualcosa di Stoico nella sua riservatezza, nel suo pudore linguistico ed espressivo, così come nella educazione delle passioni per “fare bene”. Nel film echeggia la canzone di Lou Reed “Perfect Days” che nell’inciso finale, reitera con enfasi “You’re going to reap just what you sow – Raccoglierai ciò che hai seminato”. La crisi della civiltà del progresso con l’esaurirsi delle frontiere da conquistare e delle quantità di merci da produrre; l’appannarsi dell’infinitamente grande (indefinito) è affrontata nell’infinitamente piccolo, curando il seme fino al frutto, perfezionando l’impegno. Come nella scena nella quale raccoglie una fogliolina, gemmata dal grande albero e, poi, la coltiva e la colloca nel suo piccolo giardino domestico, in un infinito comprensibile.
Fonte foto: da Google