Una favola della paura e il filosofo dell’angoscia
Una favola per aggirare la paura
Ho già in un paio di occasioni, sui social, suggerito la lettura della fiaba Giovannin senza paura, da ultimo all’inizio della pandemia. Ricordo biografico della mia infanzia, un racconto orale che frequentemente faceva Neno, il mio vecchissimo zio, e anche, significativamente, la favola d’apertura dell’antologia “Fiabe italiane” di Italo Calvino (https://www.doppiozero.com/materiali/giovannin-senza-paura). “…E’ una delle fiabe più semplici ed anche, per me, una delle più belle. Non fa una grinza come il suo imperturbabile protagonista, si distingue dalle innumerevoli <<storie di paura>> a base di morti e di spiriti, perché dimostra verso il sovrannaturale una tranquilla fermezza, dà tutto per possibile, senza sottostare alla soggezione dell’ignoto.” Per Calvino questo modello “latino” di insegnare ad affrontare la paura con la “furbizia” diverge totalmente da quello nordico, ad esempio dei Grimm, che sottolineano invece la “colpa”, la passività. Giuvanni, come lo chiamava dialettalmente mio zio, affronta una situazione grottesca che gli si para davanti senza paura mentre continuando a mangiucchiare sfrutta l’ansia altrui.
La condizione umana: paura, angoscia, cura.
C’è una suggestiva affinità tra questa saggia novella popolare e la profonda, ritengo insuperabile, argomentazione sul tema svolta da Martin Heidegger, in quel monumento della filosofia contemporanea che è “Essere e Tempo”. Siamo nel contesto dell’apparizione dell’uomo sulla Terra, che il filosofo nel suo gergo quasi esoterico chiama EsserCi (l’Essere concretizzato nel tempo, la singolarità umana) e nel par “30 La paura (furcht) come modo della situazione emotiva” dove è descritto il primo approccio al mondo dell’uomo “Il davanti-a-che della paura, <<ciò che fa paura>>, è sempre un ente che si incontra nel mondo,..” L’essere-gettato, questa condizione primigenia dell’uomo, né da’ il primo “umore” (gergo di Heidegger), la cosa interessante è che il davanti-a-che è una proiezione, una costruzione immaginifica, perché l’uomo non sa niente del mondo e ne è intimorito. Per intenderci è quell’esperienza infantile, che in varia misura abbiamo vissuto tutti, di trovarsi davanti-al-buio e proiettarvi sopra immagini terrifiche. Invece nel par “40 La situazione emotiva fondamentale dell’angoscia (angst) come apertura caratteristica dell’esserci” H. pone il principio delle relazioni umane, della socialità umana e che poi sarà, però con tono più psicologico e intimista, principio fondamentale dell’esistenzialismo . “Il davanti-a-che dell’angoscia è il mondo come tale”. Questa situazione emotiva è più evoluta, siamo nell’Essere-per-la-morte l’uomo, nel mondo, ha scoperto la morte – anche questa è stata esperienza di tutti nell’uscita dall’infanzia – e cerca, di porsela davanti, ma davanti ritrova il nulla. E’ il brivido di cadere, nel baratro dentro se, preso da Kierkegaard, ma qui, dove si è già caduti fuori-di-se, diviene stimolo al sapere e all’azione. Questo è la situazione emotiva da cui tutto inizia: a) l’uomo si rende conto di essere stato “deietto” nel mondo (letteralmente cagato nel mondo), laddove il termine così disprezzante rende il venire-dal-nulla; b) tematizzata è così la sua solitudine e il confronto con il mondo, cioè ci si interroga sui fini (da dove veniamo? Dove andiamo?),altri, come Severino, direbbero che inizia qui il sapere, inizia la filosofia; c) invece l’EsserCi prova a confrontarsi con la propria morte (con il nulla come fine) ma trova solo la morte degli altri: la chiacchiera della morte degli altri, “il Si muore”; d) nonostante questa “banalità” scopre comunque gli altri e, infine, sperimenta la modalità di rapporto “autentico” che è la Cura, il costituirsi contro la morte degli altri (che echeggia l’amore protettivo di Platone); e) in questa APERTURA o ex-sistenza si appaga l’Angst (che in italiano significa anche ansia) / mentre il meccanismo primitivo della paura tende alla CHIUSURA emotiva sull’oggetto fabbricato dalla paura e ciò somiglia, in qualche maniera, alla alienazione marxiana . In altre parole: si ha paura di perdere la vita (di lì nasce l’istinto ad alienare il proprio stato di natura nello Stato-leviatiano di Hobbes o quello di farsi servo nella dialettica servo-padrone di Hegel) / si ha angoscia di non comprendere il senso della vita, cioè l’esistenza.
La buia regressione attuale
Giovannin domina la paura e si procura una buona esistenza; il finale, senza svelarlo, gli ripropone una situazione angosciosa…troppo. Ecco nella cultura popolare “povera” c’è un grande interesse ad interrogarsi sulla situazione umana, sulle ragioni dei comportamenti e anzi rispetto alla curvatura esistenzialistica, individualistica e borghese della cultura erudita, consolatoria dei destini privati, c’è una maggiore disposizione a coglierne l’universalità sociale e cioè l’eticità .
Siano, ora, invece a chiedersi come mai sia la riflessione individualistica che la narrazione popolare, siano stati sospesi e regrediscano davanti alla paura? Forse perché anche la morte è diventata una merce o meglio un’immagine (davanti-a-che) della tecnica. Non si vede più, in occidente, una persona (esserci) morire, esibita invece è la potenza strumentale contro la morte: in questi giorni sono i tubi e i monitor delle terapie intensive a dar spettacolo per occultare, ma è già lunga consuetudine nascondere la morte in ospedale. L’emotività è regredita, così, al suo istinto primordiale, alla situazione riflessiva (automatica) della sopravvivenza, si è abbandonata la domanda di senso che è, in definitiva, il fondamento delle civiltà storiche ma anche delle culture comunitarie popolari. Si è soli con la propria paura, dentro una stanzino buio.