Sono sempre sospettoso quando ricevo innumerevoli inviti alla visione di un film. Nel caso di Parasite sono stati incessanti già quando la pellicola era proiettata nelle sale cinematografiche. In questi casi più si manifestano questi consigli più assumo un atteggiamento refrattario, che mi impedisce di vivere con naturalezza la curiosità di andare a scoprire la novità. Nella testa si insinuano dubbi di natura snobistici sui gusti, le qualità interpretative, i criteri di giudizio della maggior parte delle persone. Non perché non le stimi. La diffidenza nasce dalla consapevolezza delle capacità persuasive dell’ideologia dominante che è riuscita a plasmare anche il pensiero critico e individui ai quali riconosco enormi doti intellettuali. Ciò che mi frena è un istinto di autoconservazione. Il fastidio di partecipare a una cena nella quale mi ritroverei a sconfessare giudizi unanimi d’entusiasmo, intrisi di apriorismi culturali che delimitano la sfera dei sensibili da quella degli indifferenti alla bellezza. Insomma il non aver voglia di comportarmi da rompipalle quando mi rilasso tra affetti consolidati o di essere considerato un gretto bifolco qualora l’opinione mi sia sollecitata da democratici sconosciuti.
Nel caso del film Parasite questo timore ha raggiunto vette inconsuete a causa di un particolare preconcetto. L’invito alla visione è stato generalmente corredato da un’ulteriore spinta gentile a me potenzialmente congeniale, di quelle donate per farti sentire in dovere di correre immediatamente nella sala più vicina pena un giudizio di colpevolezza senza appello. “Il film racconta la lotta di classe”. Dopo una reazione di immediata freddezza il dilemma susseguente è così apparso: possibile che l’industria cinematografica americana, il regno del capitalismo assoluto e del liberismo di costume, una delle centrali della libera circolazione dei capitali, premi con ben 4 Oscar un film dai contenuti rivoluzionari? Che questi argomenti valgano il premio di miglior film a un prodotto non in lingua inglese per la prima volta nella storia?
La visione del film a mesi di distanza – quando insomma è scomparso dalle discussioni da ombrellone – mi ha permesso di giudicarlo senza troppa pressione, senza la necessità di dover a tutti i costi enfatizzare l’evento. Ma ha ahimè confermato ogni legittimo sospetto.
La storia racconta di una famiglia poverissima impegnata a svoltare lavoretti saltuari nella confusione di una topaia adibita ad abitazione ma con un atteggiamento di ridanciana allegrezza. Tramite continui stratagemmi l’intera famiglia viene assunta da una famiglia di nuovi ricchi nella quale il marito veste i panni dell’aristocratico manager cosmopolita. Le abitudini dei benestanti possiedono poco di coreano e risultano sottomesse al sogno omologante americano. Il week end in campeggio, la festa in giardino con il barbecue, l’educazione dei figli sullo schema del capitale sociale. In questo contesto il modus operandi del nucleo familiare povero è sempre incentrato sull’imbroglio. Ognuno di loro ingegna raggiri per sostituirsi ai precedenti inservienti della casa, stipendiati per prendersi cura di tutto il nucleo familiare ricco. Raggiri per nulla innocui perché comportano il licenziamento in tronco dei loro predecessori.
Insomma già la premessa assume contorni estremamente classisti. Oppone il mondo dei poveri caratterizzato dalla meschinità più cinica e dal divertito atteggiamento nell’autoassolversi al mondo dei ricchi che sono o distratti perché troppo impegnati nel produrre o ingenui poiché poco a contatto con la vita reale. Questa distanza è colmata dalla volontà di accaparramento dei poveri, perennemente guidata da un animo dedito al sotterfugio. La loro intelligenza viene messa al servizio della loro volontà di razziare e di possedere roba. La loro uniche aspirazioni sono ridotte alla dimensione dell’invidia sociale. Inoltre il povero non guarda in faccia a nessuno pur di raggiungere i propri criminosi scopi. Viene mosso solo dalla voglia di arrampicarsi in tutti i modi, per cui non si fa scrupoli di mandare in ospedale la vecchia governante o di implicare l’autista in uno scandalo sessuale. Il povero è anche un miserabile e ricalca le gesta dei coniugi Thénardier, i perfidi locandieri del romanzo di Victor Hugo.
Ma gli stereotipi non finiscono qui. Una volta entrati in pieno possesso della villa padronale i falliti si dimostrano incapaci di frenare i più biechi istinti. La loro dissolutezza si manifesta nel mangiare in modo vorace, nell’ubriacarsi fino allo svenimento, nel bivaccare senza alcun rispetto dei luoghi che loro stessi ammirano. Il loro livello culturale e sociale non gli consente di avere cura di nulla. Si dimostrano abili nel gestire l’emergenza poiché dotati di quello spirito di sopravvivenza necessario a resistere passivamente agli stenti. Gli ultimi insomma non sono mossi da uno spirito di giustizia, ma da un istinto di prevaricazione. Istinto che non gli permette di provare sentimenti di solidarietà verso altri poveri. Quando messi in concorrenza tra loro, tutti si abbandonano alla rissosità più efferata, tesa a impedire il successo altrui. Non possono esprimersi in senso collettivo, il loro scopo finale è mutuato dall’individualismo concorrenziale del neo-capitalismo. L’impresa criminale è pur sempre un’impresa che tende alla massima soddisfazione personale. Non viene neanche immaginata un’alleanza.
La vendetta difatti, quando si consuma l’uccisione del padrone di casa, è ispirata alla frustrazione personale, appare improvvisa e istintiva. Lo sforzo di incarnare il modello vincente del manager che ha tutto ciò che desidera è rovinato dal cattivo odore. La consapevolezza della propria esclusione dal mondo che conta – causa la puzza di povertà – si riduce al compimento di un gesto irrazionale. Il povero non è in grado di pensare, di calcolare la portata di un evento e delle conseguenze che questo avrà per sé e per i propri affetti. Guai quindi a sovvertire l’ordine naturale delle cose, apparirebbe all’orizzonte il caos.
L’intero film insomma ha un intento preciso – camuffato da una sorta di sarcasmo tarantiniano e quindi ancor più subdolo -, ribaltare quella che Orwell chiamò la common decency. L’idea insomma che le classi popolari fossero proprietarie di uno stile di vita e di una cultura antitetiche rispetto all’egoismo dell’impresa. Quel modo di essere che intuitivamente guidava le comunità in una sfera di reciprocità. Qui al contrario la gentilezza d’animo diventa sinonimo di ricchezza. Sono i benestanti a delimitare il recinto della civiltà. A loro è demandata la gestione di quello spazio poiché riescono a governare una società basata sull’interesse personale. Insomma la povertà è giustificata dalle responsabilità dei singoli. I poveri non sono vittime di ingiustizia sociale ma di una loro naturale propensione al fallimento. Il povero non sarà mai in grado di governare. Per cui il consiglio paterno è proprio la raccomandazione di affrontare la vita senza mai avere un piano.
Il solo sogno possibile è quello di diventare ricchi. Non esistono alternative. Il figlio povero sopravvissuto alla catastrofe non immagina un mondo ispirato a differenti paradigmi. Per elevarsi dovrà fare i soldi. Entrare a far parte della casta dei meritevoli. Non si fa neanche riferimento a quell’eroismo americano del fuorilegge il quale guidato dall’ideologia del mito della frontiera – in un quadro di valori ispirati comunque all’individualismo – cercava di rompere l’ordine sociale, non certo di assecondarlo.
Gli Oscar concessi alla pellicola sono quindi ideologici. Viene raccontata la legittimazione all’esistenza di un preciso modello sociale. Il film strizza l’occhio agli esclusi, non per innescare un impeto di immedesimazione per la loro condizione di indigenza ma per la loro capacità di sfruttare gli eventi in maniera manipolatoria. Nulla di più di quello che la società del capitalismo assoluto chiede all’individuo trasformato in capitale umano. Cercare di sfruttare ogni occasione a proprio personale vantaggio. Ma la furbizia – unico criterio utile nel definire un’intelligenza – non risulta sufficiente. Occorre anche trasudare civiltà. Questo requisito lo si può immagazzinare se si è dotati di eccellenza, raggiungibile esclusivamente nell’ambito educativo della nuova Aristocrazia meritocratica. E civilizzare il povero resta un’utopia infantile. Le leve del comando sono e dovranno essere intoccabili.