A volte la Storia (con la “S” maiuscola, quella che si studia a scuola e nelle facoltà) si incontra e si scontra con la storia quotidiana dei comuni mortali, quella con la “s” minuscola, condizionandola in bene o in male. È il caso dell’autore di questo libro, Ugo Maria Tassinari, giornalista, studioso, blogger e conoscitore di uno degli universi più arcani e interessanti della storia italiana, la «fascisteria».
La sua ultima erculea fatica? Napolitano. Il capo della banda (Cesena, Edizioni Sì, 2014, 116 pp., euro 9,50).
Perché questa volta Ugo Maria Tassinari è tornato a fare il pelo e il contropelo, ma non alla destra radicale, ma alla sua stessa area d’appartenenza, la sinistra e l’ex PCI. E lo fa parlando di Giorgio Napolitano. Qui, nell’episodio descritto all’inizio, la “Storia” si incontra con la “storia” e da lì partono le analisi, impietose, ai danni del Presidente. L’11 settembre 1973 infatti, la sinistra europea viene scossa da uno dei più gravi golpe architettati dagli Stati Uniti contro il Cile e il suo governo democraticamente eletto, pianificato da un futuro premio Nobel “per la Pace”, Henry Kissinger. A farne le spese è il governo socialista – sostenuto direttamente dai comunisti cileni – guidato da Salvador Allende, il quale, secondo i canoni dei “democratici” americani, era “reo” di aver introdotto programmi economici “redistributivi” e di rivendicare percorsi indipendenti che mal si conciliavano col sistema liberista vigente in America Latina patrocinato da Washington. Come diretta conseguenza del golpe militare, che porterà al potere un ceffo reazionario come Augusto Pinochet (anche se anni dopo si scoprirà che i democristiani cileni avevano fornito un’iniziale appoggio ai golpisti) il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, attraverso tre articoli pubblicati il 28 settembre, il 3 e il 13 ottobre sul settimanale «Rinascita», pianifica quello che è passato alla storia come “compromesso storico”, ovvero l’incontro e l’alleanza politica fra le forze politiche popolari di estrazione comunista, socialista e cattolica (cioè la DC) per preservare la democrazia parlamentare da eventuali golpe reazionari e fascisti. Questa è la “Storia”. Perché è da quell’episodio e dalla successiva soluzione berlingueriana che la storia del nostro giornalista inizia a prendere una piega diversa che lo porterà a divenire l’ultragoscista radicale che tutti conoscono, ovvero quando il diciassettenne Ugo, il 22 settembre 1973, incontra l’allora responsabile nazionale della Cultura del partito venuto ad «illustrare la linea del PCI» ai giovani rampolli della FGCI, facendogli intendere, insomma, che il socialismo è archiviato e che l’obiettivo primario del PCI è conservare la stabilità della Repubblica alleandosi con gli odiati democristiani! Ecco le testuali parole del giornalista, all’epoca deluso da un PCI in procinto di ammorbidirsi:
«Non ricordo un sola frase del lungo, gelido, raffinato ragionamento politico con cui il leader riformista […] ci spiegò che la lezione del Cile era l’esatto opposto di quello che m’era sembrato di capire. Ma il messaggio mi fu chiarissimo. L’errore non era stato, cioè, la mancanza di durezza contro la borghesia compradora e gli apparati militari, ma la presunzione di poter fare da soli, da minoranza governante in regime democratico, senza piegarsi al ricatto dei potentati economici e militari. Contro le velleità avventuriste degli estremisti la via maestra era la politica dei piccoli(ssimi) passi. Pochi giorni dopo, su Rinascita, sarebbe uscito il primo dei tre articoli con cui Enrico Berlinguer lanciava la strategia del compromesso storico. […] Uscii dalla riunione schiacciato, attonito. Il problema, per me, non era […] di contenuti ma di senso profondo delle cose e della vita. Nel mio estremismo infantile ero comunista per passione, per emozione, per voglia di fare. Capii quel giorno che la politica era un’altra cosa, lontana mille anni luce dal mio modo di essere e di vedere. Fu triste e straziante, nei giorni successivi, spiegare ai miei amici che me ne andavo e resistere ai loro tentativi di convincermi a prendere tempo, a pensarci su, a non fare cazzate. Non litigammo neanche: come facevo a spiegargli che io non potevo riconoscermi in un leader di partito che non faceva una piega parlando di una immane tragedia, tutto preso dal “ragionamento politico”, impeccabile nella sua monotonia, nel suo vestito di taglio inglese, nel suo aplomb. […] ancora non ho finito di elaborare il lutto di quel trauma originario: l’assoluta inconciliabilità tra il mio sogno e la realtà».
Mi sia concessa un’analisi: la «via maestra» del PCI, cioè «la politica dei piccoli(ssimi) passi» ci ha portato, dal 1973 a oggi, a quel partito virtuale che è oggi il PD. Insomma, la parabola ci fa partire dall’austero Berlinguer e ci conduce al rampantissimo, ottimista e sorridente Renzi, l’uomo degli 80 euro, quello sempre prono a Obama, agli USA, all’UE, alla trojka e al FMI col sorriso in bocca (insomma, l’ennesimo burattino, al punto da farci chiedere se il vero Renzi sia quello a Palazzo Chigi o quello interpretato da Maurizio Crozza su La7). Insomma, un “serpentone metamorfico”, per citare una felice espressione di uno degli allievi del filosofo Costanzo Preve, Diego Fusaro, che ha fra i suoi protagonisti Giorgio Napolitano, uno dei registi del graduale cambio di campo del PCI, che da antiamericano doc diviene un partito favorevole a rimanere sotto “l’ombrello protettivo della NATO”. Ugo – tranquilli, la sua non è una reductio ad personam stile «la Repubblica» – prende il Napolitano per le corna che diventa così il simbolo e l’archetipo di una sinistra che ha cambiato la pelle divenendo garante della dela dittatura della finanza. Poteva utilizzare come simbolo il “bombardiere” D’Alema, il “kennediano” Veltroni (quello dell’“I Care” e del “Yes We Can”), il mellifluo Letta, il “berluschino” Renzi o il poeta-governatore Vendola come archetipi di una crisi politico-culturale, il senso non cambiava. Si sceglie Napolitano in quanto primo cittadino d’Italia. E Tassinari ci azzecca in pieno.
La contro-biografia del leader migliorista, vicinissimo al “socialdemocratico” Amendola, è scritta con dovizia e con una perizia invidiabile – ed è facile mettere alla berlina l’avversario. Difficile, invece, sezionare e criticare un tuo “parente”, seppur lontano – da perfetto archeologo della modernità, con uno stile addirittura più caustico di quello utilizzato nel 1978 da Camilla Cederna per “sezionare” l’allora presidente – sempre napoletano –Leone (C. Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, Milano, Feltrinelli, 1978, 252 pp.). Certo, all’epoca c’era vera democrazia e Leone dovette dimettersi. Oggi però siamo nel 2014, e i poteri forti non lo permettono.
Tassinari, però, ci presenta comunque quello che lui considera il peggior presidente che la nostra Repubblica abbia mai avuto, un uomo prono ai poteri forti, considerato dal golpista Kissinger «il suo comunista preferito», un uomo in odore di massoneria, nato in una “borghesissima” famiglia napoletana di simpatie liberali vicina agli ambienti crociani. Tranquilli: Ugo, nonostante gli anni passati a studiare la destra radicale non è diventato un complottista. L’autore porta fonti e cita fatti che inchiodano “Mr. President”, l’uomo di cui tutti devono dire bene e che nessuno – ma proprio nessuno, pena la censura – deve contestare. Come criticare infatti quello che Tassinari definisce come «garante dei poteri forti», palesi e occulti che vogliono patrocinare quel «nuovo ordine mondiale» neoliberista che il presidente stesso cita in più occasioni – come faceva Ronald Reagan, tra l’altro – come il mitico orizzonte di una magnifica era di pace e di prosperità per tutti i popoli della terra? Non è causale, infatti, che dall’elezione di Giorgio Napolitano – l’uomo che firma le varie porcate presentate da tutti i governi in carica, progressisti o conservatori che siano – si siano succeduti, dalla scomunica di Silvio Berlusconi, governi nominati dall’alto. Insomma, la democrazia 2.0 è questa. Un nome su tutti? Il sen. Mario Monti del Club di Bildenberg, messo al posto giusto e al momento giusto, nominato senatore a vita proprio da Re Giorgio ed acclamato da una sinistra imbelle e inconscia (o forse no) del fatto che quello di Mr President è stato un golpe finanziario ordito col benestare dei vertici della trojka e non la sconfitta dell’odiato Silvio (questa sì che è stata una reductio ad personam), un governo tecnico buono per pareggiare i conti per conto dei poteri forti dell’UE, facendoci sudare lacrime, sangue e precarietà. Seguono Letta e Renzi, sempre scelti da lui, e non dagli elettori. Secondo Tassinari quindi, Napolitano non è affatto cambiato, ma rimane il grigio uomo d’apparato di un tempo – tipica figura presente nei partiti comunisti terzinternazionalisti e stalinisti – «impeccabile nella sua monotonia, nel suo vestito di taglio inglese, nel suo aplomb», lo stesso che nel 1956, di fonte alla tragedia ungherese difese l’invasione sovietica in nome del superiore interesse dalla pace mondiale di allora, polemizzando con l’“eretico” Antonio Giolitti – che transiterà nel PSI – che difendeva le ragioni della «via nazionale al socialismo»: cambia l’apparato – ieri il Kominform, oggi il FMI e l’America –, l’ordine da difendere, ma il garante è sempre il medesimo. Napolitano, in questa controbiografia che sembra essere l’alternativa politicamente scorretta all’autobiografia politicamente corretta scritta dallo stesso presidente, Dal Pci al Socialismo europeo, si scaglia come facevano i contestatori del ’77 (Ugo, per chi non lo conosce, è un ex militante di Autonomia Operaia) contro l’uomo a capo della “Banda”, della “Cricca” e del Governo delle larghe intese e delle Grosse Coalition non legittimate dai cittadini che nei suoi 88 anni – ed ecco un altro tema-chiave del libro, la gerontocrazia italiana –, rendono comunque il nostro presidente il regista della decadenza di una democrazia senza popolo così come il PCI di Re Giorgio era un comunismo senza Marx.
L’autore, in questo libro dal sapore eclettico, si dipana nei meandri di una biografia che, anche se non tratta di un condottiero come Alessandro il Grande o Giulio Cesare, entusiasma, fa sognare e indignare, visto che di giornalisti di razza oggi ce ne sono pochi, al contrario degli apologeti del nulla che abbondano. A colpi di machete, Ugo smonta dicerie sulla possibile parentela di Re Giorgio con l’ultimo re di Casa Savoia (che a me non avrebbe stupito affatto), ma stuzzica l’appetito del lettore sulla possibile vicinanza del presidente alla Massoneria e, cosa certa, agli americani (altrimenti Kissinger avrebbe taciuto. E poi, come mai Giorgio volò negli States per una serie di conferenze – quando bastava dire “comunista” per esser bannati come “indesiderati” – mentre Aldo Moro è prigioniero delle BR? Un caso? E il cambio di pelle del PCI, non dimentichiamolo, non piacque forse all’ala liberal del Partito democratico americano, Carter in primis? E non li ha forse portati all’Ulivo mondiale con Clinton in testa? Questa è storia, non fantastoria). Insomma, il ritratto di un conservatore e opportunista, che per caso – oppure per opportunismo – si iscrive nel dopoguerra al PCI.
Forse devo personalmente ringraziare Napolitano per quella visitina fatta alla FGCI napoletana di allora: altrimenti oggi avremmo un Ugo “piddino”, politicamente corretto, moderato e neocentrista, e forse libri come Fascisteria, Naufraghi e Guerrieri ce li saremmo scordati o avrebbero una sintassi con l’aplomb “alla Napolitano”, stile «la Repubblica» o «l’Unità» (quella di oggi ovviamente). Invece – grazie a Dio! Napolitano pontificò coi giovani e lì educò al “compromesso storico”! E ci ha così risparmiato l’ennesimo amorfo elettore del PD o dell’Altra Europa – Ugo critica anche la degenerazione dell’altra sinistra, una prona al capitalismo, l’altra al politicamente corretto – pronte a vendersi per 80 euro al mese una tantum e a dire – dopo aver ingoiato il rospo dell’ennesima stangata merkeliana – «Questa riforma s’ha da fare! Ce lo chiede l’Europa!». Insomma caro Ugo, a te Re Giorgio sta antipatico e io non posso fare altro che ringraziarti!