Il mondo nuovissimo (quinta parte)

ANNO XLII DELL’ERA DELLA RINASCITA

 

L’indomani tocca lavorare, e il giorno 27 pure.

Al mattino Marco 2039 percorre sotto un cielo bigio il tragitto che conosce a memoria, arriva puntuale come d’abitudine e si mette in fila per entrare: timbrato di fretta il cartellino si avvia, silenzioso e a capo basso, verso la sua postazione. Ha la fallace impressione che tutti gli occhi indugino su di lui, anche se in verità i colleghi pensano ciascuno alle proprie faccende e non gli badano affatto.

Il computer tarda ad accendersi: nulla di preoccupante, le macchine sono vecchie come il cucco. Marco dà una manata al mouse: non desidera altro che mimetizzarsi e sfuggire agli sguardi altrui, ma non gli riesce proprio di conservare il sangue freddo e concentrarsi sull’attività quotidiana. Bastano un lieve fruscio, lo sfarfallamento di uno schermo per irritarlo; si distrae, sbadiglia, batte sui tasti a casaccio commettendo una sequela di errori che poi snervato corregge. D’altro canto, quante tonnellate di caffè può produrre all’anno una regione come la Groenlandia? Zero, quale che sia il racconto dei numeri che compaiono e dispaiono sul display.

Ore e giornate al chiuso assomigliano a un’interminabile pena, ma passano a una a una senza che accada nulla.

A sviste e refusi si può sempre rimediare, nessuno l’ha convocato o ripreso e l’enigmatico Luigi non gli si è manifestato in corridoio né altrove: è con palese sollievo che la sera del sabato (cioè del “sixth” in semplilingua) Marco lascia il posto di lavoro e si avventura nell’oscurità della strada. Occorre procedere a passettini per non esporsi all’insidia dei tratti ghiacciati. Prima di tornarsene a casa il giovane fa tappa al supermarket: il suo frigo è desolatamente vuoto, ma la ragione autentica della sosta è un’altra. Vorrebbe scambiare due parole con Francesca, porgerle le sue scuse per essere stato… villano (il senso è questo, anche se il vocabolo gli è ignoto), ma neanche stasera lei è in servizio: alla cassa siede un’arcigna megera di mezza età che, alle sue domande imbarazzate, risponde con malagrazia di non conoscere nessuna Francesca: «… comunque io non mi impiccio degli affari altrui… si sbrighi a fare le sue compere che fra poco chiudiamo».

Marco obbedisce e, con aria abbacchiata, preleva dagli scaffali una confezione di sei bottiglie di minerale, un cartone di vino analcolico, una baguette insipida, del pollo, due porzioni di tofu e un sacchetto di verdura. Il mese è agli sgoccioli e se non spende per intero le somme accreditategli sulla card dovrà restituire il residuo: acquista perciò un paio di scarponcini in similpelle adatti alla stagione (perlomeno se lo augura: gli ultimi ci hanno messo nemmeno due settimane a rompersi!). La cassiera scocca occhiate spazientite all’orologio, ma lui si accerta che le calzature siano del numero giusto: risultano abbastanza comode, meglio indossarle sin da subito per scongiurare scivoloni.

E ora che fare, quale partito prendere? Forse si sono già stufati di sbellicarsi alle sue spalle, magari lo lasceranno in pace – ipotizza – Sì, ma se anche fosse? Niente sarà più lo stesso per lui: ciò che stimava reale si è sfarinato dinanzi ai suoi occhi, a questo punto non potrà mai più ritrovare la beata (?) inconsapevolezza di prima. Mi hanno strappato la benda – geme – e assieme a essa tutti i riferimenti che avevo. Erano illusori? Che importa, alla fin fine la mia esistenza era sopportabile: mangiavo, dormivo, inserivo dati per dieci ore di fila… e pensavo che tutto questo fosse assolutamente normale.

Con un moto di ribellione si leva l’anello dal dito: anche se intorno non c’è un cane immagina che quel gesto (vano e puerile, ne è conscio) a qualcuno non sfuggirà. Sanno tutto quel che c’è da sapere, loro. Anziché dirigersi verso il “suo” casermone svolta a destra in una viuzza secondaria che conduce a una specie di belvedere poco frequentato. Gli è venuto l’uzzolo di scoprire se ci sia qualcosa là sotto, a parte il mare e una nebbia che giammai si dirada. A scuola gli è stato insegnato che l’innalzamento delle acque determinato dal surriscaldamento globale (o dalle esplosioni atomiche, non ricorda bene) aveva sommerso decenni prima la vecchia città e il suo porto, e lui quella… verità – una fra le tante – non l’ha mai posta in discussione: perché mai avrebbero dovuto mentirgli? Il perché può adesso vagamente intuirlo… perciò accelera il passo, trascinandosi dietro le pesanti borse della spesa che tracciano solchi nella neve infangata.

Aguzza la vista senza che sia necessario. C’è il golfo in quiete, il luccichio delle navi alla fonda – ma del nebbione nessuna traccia: si è dissolto come per incanto oppure non c’è mai stato… era un camuffamento, un inganno… tutto una stupidissima messinscena! Miriadi di lampioni illustrano eleganti facciate, maestosi palazzi, cupole e torri; pulsano, all’altezza dei tetti e a mezz’aria, puntini luminosi in movimento. Ecco la città dei manager! – realizza Marco – Sta qui da sempre, sotto i nostri occhi, ma nessuno di noi l’ha mai scorta… l’anello ci ha resi ciechi, docili e passivi. Mi hanno ammonito a non scendere dalla collina “perché laggiù in basso il terreno sprigiona gas velenosi”, e io me la sono bevuta… d’altra parte questo coso l’ho portato al dito per anni considerandolo quasi una parte di me, un segno di appartenenza di cui andare fiero… e no, non ho mai avuto la tentazione di togliermelo: perché avrei dovuto? Potrei dirmi che avevo timore dell’ignoto, ma sarebbe una pietosa bugia: no davvero, semplicemente nella mia povera testa tutto quadrava, mi hanno addestrato per bene… e non è che all’improvviso abbia dischiuso le palpebre, me le hanno spalancate a forza, e il motivo mi sfugge! Mi sono illuso di essere un giocatore, invece sono soltanto una pedina mossa da altri su una scacchiera invisibile… per diletto o per calcolo? Non ne ho la più pallida idea, accidenti! – Queste sono suppergiù le riflessioni di Marco mentre, stordito e umiliato, prende la via del ritorno.

L’anello, ancora in tasca, non può celargli lo stato di degrado dello stabile in cui abita: infiltrazioni d’acqua deturpano i muri, dappertutto si notano fenditure e la malta cade a pezzi. Il cadavere di un ratto imputridisce davanti al portone di ingresso e l’atrio odora di fumo e marciume. Dalla sua cassetta delle lettere spunta, caso strano, una busta senza mittente: Marco torvamente la afferra e, lacerato il lembo di chiusura, ne estrae un foglio di carta che, spianato, si rivela essere una mappa dell’altopiano a nord. Che gentili – commenta sottovoce – mi suggeriscono dove andare e come arrivarci… erano già al corrente, insomma, dei miei programmi per domani. Dove sei, Luigi? Sono sicuro che ti stai divertendo un mondo…

Il tanfo nell’androne è intollerabile: una volta tanto Marco piglia l’ascensore, anche perché il braccio destro è tutto indolenzito a causa del peso di bottiglioni e provviste.

Adesso finalmente sa qual è l’aspetto del suo appartamento: quello di una topaia angusta, sporca, polverosa e abitata da famigliole di ragni. Squassato da conati di vomito corre in bagno e, dopo aver espulso un fiotto di bile, ardisce guardarsi allo specchio. Ha qualche ruga in più sulla fronte, occhi cerchiati di nero e guance scavate – però si riconosce, e questo lo rinfranca. Avevo paura di imbattermi in un mostro o in uno sconosciuto, invece sono ancora io: un ometto insignificante con il naso lungo e i capelli dal colore indefinito – bisbiglia grato con uno spento sorriso. Una coscia di pollo e un bicchiere di vino, poi vado a coricarmi…

 

Il solingo raggio mattutino scova presto un pertugio fra le tendine mal accostate e bisunte e si fa strada fino al cuscino, illuminando la faccia magra di Marco. Lui alza il capo di scatto, tossicchiando e stropicciandosi gli occhi. Il tempo è finalmente migliorato: ampi squarci d’azzurro si aprono nella nuvolaglia violacea, e c’è calma di vento.

Il giovane corre in bagno a svuotare la vescica, poi si sciacqua capelli, braccia e ascelle nel lavabo – per colazione basterà una fetta di pane da intingere nel surrogato. Il silenzio che aleggia nella stanza lo deprime un poco, così preme il tasto rosso del telecomando. Le notizie del videogiornale sono ancor meno interessanti del solito: “… oggi è la festa del transpecista. Il riconoscimento dell’identità di specie è una grande concessione fatta dalle libere imprese ai loro cittadini-lavoratori. Molte persone nascono umane, ma crescendo iniziano a percepire la loro appartenenza ad altre specie o generi animali. L’intervento chirurgico necessario a cambiare specie è però molto difficile e costoso, per questo i candidati devono superare un’accurata selezione. Nel servizio che va ora in onda ascolteremo le testimonianze della donna-topo, dell’uomo-salamandra e…”

«Gente strana e anormale», sentenzia Marco disgustato e si disinteressa della trasmissione per studiarsi ancora una volta la cartina, che fornisce indicazioni piuttosto chiare sulla direzione da seguire. Butta giù l’ultima sorsata di bevanda calda e ripone il foglio nella sacca, già riempita con tutto ciò che potrebbe tornargli utile durante il cammino (cibo, acqua, cerotti, sciarpa, guanti e una torcia elettrica).

I residenti approfittano della giornata libera per smaltire un po’ di sonno arretrato e regalarsi una, due ore di riposo in più: Marco sa (o almeno spera) che non incapperà in nessuno lungo la via. All’uscita dal caseggiato l’aria frizzante del mattino d’inverno gli carezza ruvida il viso, restituendogli vigore e un barlume di ottimismo. Attacca a camminare di buon passo: grazie alle scarpe nuove incede con sicurezza sul terreno gelato oltrepassando in men che non si dica i confini del quartiere, al di là dei quali si estende, fitta e scura, la foresta che non ha nome. Il giovane vi si inoltra senza remore: sulla mappetta è disegnato un percorso quasi rettilineo, che solo in prossimità del finale si biforca… tocca imboccare una deviazione appena tratteggiata per raggiungere la meta, un abitato… presumibilmente un villaggio di poche case di cui lui ignorava l’esistenza. Quanto sarà distante da qui? si domanda Marco. Bisogna inerpicarsi su un’altura, poi su una seconda e più scoscesa collina, tuttavia la prospettiva di una passeggiata lunga e faticosa con frequenti salite non lo demoralizza, anche perché il vecchio bosco malandato esercita su di lui un sottile e inatteso fascino. Parecchi alberi sono secchi o moribondi, ma la neve – più alta che in città – scintilla candida e incontaminata al sole, ferendo gli occhi del viandante che quasi si intenerisce quando gli capita di individuare, impresse su quell’uniforme biancore, le tracce del passaggio delle creature silvane.

Dalla sommità di un carpino la variopinta ghiandaia lancia il suo grido mentre uno scoiattolo fulvo, indispettito dalla presenza dell’intruso, guadagna velocissimo la sicurezza della tana. Una grossa lepre sfreccia in lontananza, ma Marco ha un sobbalzo quando il suo sguardo incrocia d’improvviso quello giallo e malinconico di una volpe dalla folta coda fiammeggiante. La bestiola lo fissa curiosa, senza mostrare ostilità né paura: non deve aver mai incontrato un essere umano in vita sua. Il giovane le fa cenno di avvicinarsi, e in segno di amicizia le porge un pezzettino di pane dopo averlo estratto senza movimenti bruschi dalla sacca. La volpe non disdegna il dono e, grata, si lascia persino accarezzare dal viaggiatore che, bevuto un sorso d’acqua dalla borraccia, riprende il cammino.

L’animale non lo perde di vista: a un tratto si rialza e, scrollatosi di dosso la neve, inizia placidamente a seguirlo. Non ci vuole molto a Marco per accorgersi di quel pedinamento discreto: non sa se essere lieto della compagnia o preoccuparsi, visto che i robot zoomorfi non sono una rarità. Decide di fidarsi: il mondo non può essere ovunque un letamaio.

La strada, ormai divenuta un sentiero, è sempre più erta: raggiunto a fatica il cocuzzolo del primo colle il giovane scopre di essere di nuovo solo. Si sarà stufata – commenta, e si ferma per una merenda improvvisata. Appoggiato al tronco di un rovere rivolge in alto il guardo: pochissime nuvole solcano adesso un cielo quasi completamente sereno.

A causa della neve la discesa si rivela piuttosto infida: Marco rimedia un ruzzolone, ma si rimette in piedi all’istante – una leggera storta alla caviglia, nulla di serio. Da quando si è addentrato nel bosco saranno trascorse due ore abbondanti, ce ne vorrà almeno un’altra – calcola – per salire il ripido pendio e arrivare in cima alla montagnola che incombe su di lui: sul versante opposto sorge il paesello (così almeno dice la carta…). Si arrampica di buona lena, consumando le energie residue, e conquista la vetta prima del previsto. Piacevole panorama… ma dove sarà ‘sto maledetto villaggio? Vedo solo una distesa bianca… Forse in mezzo a quella macchia di pini? Ma allora è ben distante, dannazione!

Scende a rotta di collo, incurante dei rischi: a metà della china ecco finalmente il bivio segnato sulla mappa. Può darsi che ci siamo, sospira ansante. È stanco, sudato e smanioso di mettere qualcosa sotto i denti.

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