Una bella prospettiva, per davvero
Complessità. Bel termine che ha avuto una grande fortuna. Facilmente lo si trova, a mo’ di prezzemolo, sparso nei più disparati angoli della riflessione, come anche nei discorsi meno impegnati e persino nella colloquialità quotidiana. Sta solitamente a significare che ciò di cui si parla non è facilmente dipanabile o che non lo è fino in fondo. Ovvero che, se anche lo è, non lo sarà in forma definitiva. Una elegante, sana e intelligente confessione di ignoranza, di riconoscimento dei limiti, attuali e/o permanenti, della conoscenza. Ci siamo arrivati ed era ora: si sta chiudendo l’età del semplicismo, delle spiegazioni monocausali, della linearità interpretativa, delle soluzioni elementari.
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Ma quella della complessità non è propriamente una “teoria”, come accade di sentir dire. Essa infatti non è un modello, uno schema, ma un tipo di approccio, una prospettiva. Per dir meglio, è un paradigma, una posizione epistemologica diversa che rifiuta – quantomeno per non essere autocontraddittoria – ogni definitività delle acquisizioni in capo alla conoscenza mentre accoglie le dimensioni della circolarità, della retroazione, della coevoluzione etc. degli eventi e della loro comprensione. Prospettiva mobile, plastica, sospettosa delle sue stesse conquiste, intese come stadi provvisori di una lettura che non può, né deve, finire di arricchirsi, di riarticolarsi, di problematizzarsi, ma anche, ove necessiti, di tornare a semplificarsi. E non è un paradosso.
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Ma non perciò essa considera la conoscenza come arbitraria o inventata, priva di fondamenti o vana. Non c’è alcuna furia iconoclasta. Tutt’altro. Non si va alla demolizione delle conoscenze pregresse né verso il qualunquismo epistemologico, ma alla ridefinizione, al reinquadramento, al consolidamento dinamico-evolutivo del noto.
Lavoro interiore
Modestia e prudenza sono certamente elementi di questo nuovo paradigma. Come si vede si riferiscono però – forse sorprendentemente – ad una condizione psicoemotiva, prima che intellettual-gnoseologica. Si richiede l’abbandono della presunzione e l’attaccamento fideistico a quelle soluzioni, letture, interpretazioni che pure hanno dato, e forse ancora danno, buona prova di sé e che ci hanno permesso in qualche modo di capire, di districarci nella giungla degli avvenimenti. Il paradigma complesso suggerisce con insistenza, invita con calore a “disinnamorarsi” delle nostre stesse conquiste. Ciascuna di esse va sentita e vissuta come l’amante di un week-end non come la donna della vita.
Si passa all’incertezza della navigazione abbandonando la stabilità della terraferma. Il costo è emotivamente alto, ma è il prezzo da pagare all’evoluzione della conoscenza. Di tutte le indicazioni della Complessità, questa è forse quella più dura da digerire, perché va a toccare un punto nodale: la forza quasi invincibile della nostra costante identificazione con ciò che pensiamo, con le “nostre idee”.
Tempi moderni
Questo nuovo paradigma emerge nella seconda metà del Novecento, non certo per caso, in una stagione storica in cui, per davvero, le manifestazioni del reale iniziano a sfuggire alle vecchie interpretazioni, le variabili superano la capacità predittiva delle equazioni, il mondo si deforma, esce dai modelli noti ed esonda dai vecchi schemi, esplodendo infine in una fantasmagoria di eventi la cui individuazione e le cui interrelazioni esigono, invocano una diversa prospettiva.
Fermandoci anche solo al piano sociale consideriamo la perdita di confini, la sovrapposizione di posizioni e infine lo scompaginamento subito dalle classi sociali storiche nel sistema capitalista con l’avvento della Società Industriale Avanzata. La disarticolazione, l’indebolimento ed infine l’evaporazione della classe operaia, simmetrica alle metamorfosi di quella borghese, le cui contrapposte posizioni sociali sono oggi occupate da forze dai contorni sfuggenti e senza nome. L’irruzione della dimensione verticale (identitaria) nel bel mezzo della globalizzazione economica e della contestuale omogeneizzazione della cultura.
L’emergere conclamato del conflitto dei sessi, combattuto sin qui da una sola parte, ma, almeno in nuce, percepito ora anche dall’altra. Brevi cenni, questi, a comprovare uno degli assunti della complessità stessa, ossia la coevoluzione degli eventi, da una parte, e della loro interpretazione, dall’altra, e quindi la provvisorietà (che non significa inesistenza o irrilevanza) sia di quelli che di questa.
Salpati dal porto delle certezze, alla luce di questa nuova prospettiva abbiamo di che divertirci e divagare nel mare dell’ipercomplesso. Se è vero poi che el camino se hace andando, la rotta si traccerà navigando. Con prudenza ed umiltà, certo, ma al tempo stesso senza soggezioni.