«L’ateismo è aristocratico».
Maximilien de Robespierre
«È tempo di sottrarre queste armi alla reazione. Ancor più, è tempo di mobilitare contro il capitalismo, sotto la guida socialista, le contraddizioni dei ceti non contemporanei. Non si pensi qui di farsi beffe in blocco dell’irratio, ma piuttosto a occuparla, e da una posizione che si intende di irratio un po’ più seriamente dei nazisti e dei loro grandi capitalisti».
Ernst Bloch
«L’Islam per sua natura non è compatibile con i valori di una società laica e moderna». Le diverse incarnazioni di questa massima vengono riproposte con costanza ciclica da schiere di improvvisati esperti di Medio oriente almeno dal 2001 a oggi, in una lunga sequela di facce da Oriana Fallaci fino a Michelle Houellebecq. L’affermazione viene sempre pronunciata con inoppugnabile certezza e supportata da stralci del Corano. Dopo i fatti di Parigi il mantra si è fatto ossessivo.
Un metodo efficace per testare la validità della tesi è sostituire la parola «Islam» con «ebraismo» e «Corano» con «Antico testamento», testo non privo di passaggi sanguinari atti al gioco: il più delle volte si otterrà un’affermazione schiettamente antisemita, che verrebbe condannata con fermezza nelle trasmissioni televisive e sulle pagine dei giornali che non si pongono il problema di ospitarla quand’è riferita alla fede islamica. Tanto per concludere il gioco, qualunque lettore oggettivo del Vangelo saprà facilmente applicare il medesimo ragionamento anche al cristianesimo.
È superfluo specificare che la tesi non è del tutto infondata: in tutte le religioni abramitiche si trovano forme di conflittualità con la modernità e con la visione del mondo scaturita dal secolo dei Lumi. Pensare però che delle tre l’Islam sia l’unica portatrice di una refrattarietà incurabile al moderno impedisce di comprendere i moventi della tempesta in atto.
Ricordiamo come pochi anni fa, ai primi bagliori delle Primavere arabe, i cultori dello scontro di civiltà si fossero improvvisamente zittiti. L’insurrezione antiautoritaria, scatenata in principio da forze laiche e soltanto in seguito condivisa dai movimenti islamisti, sfuggiva del tutto a chi divide il mondo in compartimenti stagni culturali. L’involuzione delle Primavere in Libia e in Siria ha rasserenato quei fallaciani spaesati. Finalmente possono tornare a dire «noi l’avevamo detto».
Si tratta di una cecità pericolosa. Attraverso queste lenti si è ciechi alle linee di frattura che percorrono il mondo globale nel suo insieme, da San Bernardino a Baghdad, passando per Parigi. Il primo punto di cui prendere atto è il carattere dell’islamismo come fenomeno politico moderno: il radicalismo come noi l’intendiamo nasce di fatto con i Fratelli musulmani, in pieno Novecento. Da questo punto di vista l’Isis è l’edizione globalizzata e postmoderna di quei movimenti.
Nell’Islam, come in tutti i monoteismi, è sempre esistita una dialettica fra tradizione, profezia e mistica, le ultime due come possibili motori di una religiosità libertaria. Il sedicente Stato islamico intercetta, mastica e vomita in forma ideologica parte di quella storia: impiega frammenti di non contemporaneità nella cultura delle comunità islamiche e li dispone all’assalto della globalizzazione di cui è figlio (ne ho scritto su Scenari in Al cuore del nulla).
Ma il fenomeno non si comprende se non si considera anche l’altro ramo scaturito dal confronto fra mondo islamico e globalizzazione. Le Primavere arabe sono illuminanti perché rompono lo schema culturalista, portando alla luce istanze universali. Laboratorio di resistenza alla globalizzazione capitalista, tentavano di rispondere a domande valide anche sulle altre sponde del Mediterraneo. Non a caso sono coeve a tumulti analoghi dalla Spagna alla Grecia. Ma le Primavere sono state anche l’ennesimo capitolo del rapporto fra Islam e libertà, e in quanto tali offrono materiale di riflessione anche alla società occidentale.
Il fallimento delle Primavere arabe è palese. Ma le loro origini continuano a custodire un potenziale esplosivo. Un modo per provare a leggerle è prendere in analisi il loro archetipo: la Rivoluzione iraniana.
Nel 1979 Michel Foucault va a Teheran e scrive per il Corriere della Sera una serie di reportage poi raccolti nel Taccuino persiano. Si tratta del testo probabilmente più criticato del filosofo francese. Vi si trovano passaggi sorprendenti, se letti con l’occhio della nostra contemporaneità:
Conoscete la frase che di questi tempi fa ridere con sarcasmo gli iraniani? Quella che sembra loro la più stupida, la più piatta, la più occidentale? «La religione, oppio dei popoli». Fino all’attuale dinastia, i mollah sulle moschee predicavano col fucile a fianco. In effetti che posto si può fare, nei calcoli della politica, a un movimento come questo? Un movimento che non si lascia disperdere in scelte politiche, un movimento attraversato dal soffio d’una religione che parla meno dell’al di là che della trasfigurazione di questo mondo.
Facile a posteriori accusare Foucault d’essersi fatto abbindolare. In realtà disponeva di strumenti che gli consentivano di penetrare a fondo il momento e anticipare il lungo periodo. Prima di partire aveva studiato a fondo il lavoro di Henry Corbin, l’uomo che ha dischiuso all’Europa l’accesso ai tesori della filosofia islamica, e aveva familiarizzato con il pensiero di ‘Ali Shari’ati, rivoluzionario sciita martire dello Shah.
Da Corbin, cultore dello sciismo, Foucault aveva appreso la differenza fra essoterico (zahir) ed esoterico (batin) nell’Islam. Il secondo si estrae dal primo attraverso il ta’wil, l’esegesi dei testi sacri. Nelle opere di Corbin, il filosofo aveva scoperto anche l’esistenza di movimenti rivoluzionari come gli ismailiti nizariti all’interno della galassia dello sciismo iraniano. Scrive Corbin in Storia della filosofia islamica:
Mentre la gnosi sciita duodecimana si sforza di mantenere la simultaneità e l’equilibrio tra zahir e batin; per la gnosi ismailita il discorso è diverso: poiché ogni apparenza esteriore, ogni essoterico (zahir) ha un suo senso nascosto, interiore, una sua realtà esoterica, e poiché questa è superiore a quella, in quanto della sua comprensione dipende il progresso spirituale dell’adepto, l’essoterico non è altro che un guscio che va frantumato una volta per tutte. È appunto ciò che fa il ta’wil, l’esegesi ismailita, «riconducendo» i dati della shari’at alla loro verità gnostica (haqiqat), comprensione del senso vero della rivelazione letterale o tanzil, religione positiva. Se l’adepto spirituale agisce in accordo con il senso spirituale, gli obblighi della shari’at sono aboliti per lui.
Gli scritti di Corbin non si riferiscono ad astruse dispute medievali. Raccontano un mondo spirituale ancora vivo. Il mondo in cui viveva Shari’ati. Citiamo un articolo dell’intellettuale iraniano (da Tra lo Scià e Khomeini di Riccardo Cristiano):
Queste tre correnti comunque esistono nell’uomo, nel suo profondo, e producono i bisogni fondamentali dell’uomo: il misticismo, cioè l’amore che è alla base delle scuole mistiche; il socialismo, cioè la ricerca della giustizia materiale tra le classi e le nazioni; l’esistenzialismo, cioè il primato dell’esistenza umana, della libertà e scelta dell’Io, per la sua crescita e perfezione. Sono questi i veri strumenti della fuga dai sistemi che negano l’uomo, gli strumenti che consentono un ritorno all’uomo.
Niente di strano che, sentendo ripetere il nome di Shari’ati dalle masse persiane con lo stesso entusiasmo con cui gridavano quello di Khomeini, Foucault sia stato fulminato dall’idea della rivoluzione spirituale in Iran. Quel che il filosofo non aveva previsto è il medio termine. Non aveva inquadrato la componente islamista, il khomeinismo, che avrebbe poi preso il potere. Ma non è stato l’islamismo a generare quell’evento, e la componente libertaria e spirituale continua a covare sotto le ceneri a Teheran. Baluginano ogni qual volta, come durante la rivolta dell’Onda verde, le masse iraniane tornano nelle strade intonando «Allahu Akbar», chiedendo non più shari’at ma più libertà. Chiedendo al regime di essere fedele alle sue premesse, attuando una rivolta in forma di sovridentificazione.
Allo stesso modo l’islamismo non è la causa né l’unico possibile esito finale delle Primavere. Diversi dall’Iran sciita, i paesi arabi ospitano dinamiche differenti. Gli anni trascorsi hanno ristretto lo spazio di una rivolta spirituale che potesse fare da cassa di risonanza a istanze laiche e progressiste. Durante le Primavere abbiamo assistito a una più classica sovrapposizione-scontro fra laici e islamisti. Eppure il rapporto fra quegli eventi e la Rivoluzione iraniana è quello delineato (riguardo ben altre insurrezioni) da Slavoj Žižek in questo passo di In difesa delle cause perse:
Quando Heidegger caratterizza l’avvenire stesso come “essere-stato” (Gewesene) o, più precisamente, qualcosa che è “essendo-stato”, egli colloca l’avvenire stesso nel passato; non, ovviamente, nel senso che viviamo in un universo chiuso in cui ogni possibilità futura è già contenuta nel passato, in modo tale che possiamo solo ripetere, realizzare ciò che è già presente nella struttura ereditata, me nel senso molto più radicale dell’”apertura” del passato stesso: il passato stesso non è semplicemente “ciò che è stato”, esso contiene potenziali nascosti, non realizzati, e l’avvenire autentico è la ripetizione/recupero di questo passato, non del passato come è stato, ma di questi elementi nel passato che il passato stesso, nella sua realtà, ha tradito, represso, non è riuscito a realizzare. In questo senso oggi si deve “ripetere Lenin”: scegliere Lenin come proprio eroe (per parafrasare Heidegger) non per seguirlo e fare la stessa cosa oggi, ma per ripeterlo/recuperarlo nel senso di portare alla luce le potenzialità non realizzate del leninismo.
Non c’è dubbio che la ripetizione delle Primavere abbia avuto finora esiti tragici. Eppure quella è la via di cui il mondo islamico dispone per imboccare il cambiamento che, confusamente, da più parti gli si chiede. Una via per pensare un nuovo rapporto fra musulmano e politica e forse, con le cautele del caso, una nuova forma di Islam politico. Se uno spettro si aggira per il Medio oriente oggi, è quello di Hasan Sabbah: signore di assassini, Vecchio della montagna. Unione sempre sfuggita all’Occidente fra mistica e rivoluzione. Meister Eckart e Thomas Müntzer.
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Poscritto in Europa. Questi appunti sparsi nascono dall’urgenza di pensare in Europa una politica che, rubando la definizione a Pasolini, si ponga in termini di «opposizione totale allo stato di cose presente». Tra i tanti compiti che gravano sul pensiero radicale in Occidente oggi, ve ne sono alcuni pertinenti ai temi che ho appena trattato.
L’ateismo, inestimabile radice dell’Europa, va strappato alla deriva veteropositivista di cui è preda. Allo snobismo reazionario dei Dawkins e degli Hitchens. Se ai tempi di Robespierre l’ateismo era cosa da aristocratici, oggi non si può accettare sia un tratto del medioborghese. Va ripreso a partire da basi più serie, kojeviane ad esempio. Quando poi l’unica critica radicale al mondo così com’è viene da certa cristianità, non si può continuare a reiterare ostilità ottocentesche nei confronti di quel mondo. Per dirla con Bloch, forse è tempo di tornare a cercare l’ateismo nel cristianesimo.
Fonte: Maometto e Robespierre http://mimesis-scenari.it/2015/12/14/maometto-e-robespierre/