Management e totalitarismo

I totalitarismi impliciti ed espliciti sono diversi nelle forme scenografiche e nei dogmi dichiarati, ma si ritrovano eguali nella loro verità comune: vorrebbero necrotizzare la dialettica delle classi con annessa lotta di classe. Per gestire la vita  degli uomini e delle donne come fossero protagonisti di  un esperimento da laboratorio o dati i tempi, di  un reality, in cui il grande occhio del potere degli oligarchi ne disciplini i gesti e le parole per produrre con l’aumento dei profitti il dominio totale. La sussunzione non è leggibile come semplice accumulo crematistico, in quanto quest’ultimo è funzionale al dominio. Nel vuoto ontologico ed assiologico che ha divorato ogni limite e progettualità non resta che il dominio acritico, il quale si nutre di tecnocrazia economicistica allo scopo di coltivare l’illusione di onnipotenza. Senza il limite concettualizzato e reso condizione metafisica dell’esistenza di ogni comunità non vi è che la violenza del potere ad offrire a taluni l’illusione del controllo totale. Il nichilismo tecnocratico ha prodotto e produce dominio, si assiste ad un arretramento del senso della storia e della progettualità, le quali sono consustanziali alla concettualizzazione del limite. Nel vuoto metafisico i fini oggettivi sono sostituiti dai mezzi, non a caso il management è struttura comune al capitalismo liberista, ma è stato elaborato ed applicato dal nazionalsocialismo. Scopo del management non è gestire semplicemente il capitale umano, ma evitare la lotta di classe con la politica dell’inclusione dei sussunti nel sistema:

“Nel lavoro con «collaboratori» risiede la risposta a una delle piú profonde preoccupazioni di Höhn: il conflitto di classe deve essere eliminato tanto dalla società economica quanto da quella politica. Il nuovo rapporto gerarchico scongiura il rischio di uno scontro tra dominanti e dominati, tra datori di lavoro e dipendenti. Nel 1942 Höhn celebrava in questi termini uno dei grandi meriti della comunità nazista: «Al posto del rapporto tra Stato e suddito […] è comparsa la comunità del popolo», che si basa sulle «leggi fondamentali della vita, della razza e del suolo» e che implica «l’integrazione del lavoratore nella comunità produttiva e prestazionale [Leistungsgemeinschaft] di tutto il popolo»  . Anche se il grande progetto della comunità nazista è stato spazzato via dalla sconfitta del 1945, resta comunque possibile coltivare l’armonia comunitaria tra «direzione» (Führung) e «personale» (Gefolgschaft) all’interno di quella «comunità produttiva e prestazionale» che è l’azienda[1]”.

L’esperimento nazista è naufragato, ma la forma mentis manageriale vera sostanza del nazionalsocialismo non solo è sopravvissuta, ma si è rafforzata con l’applicazione del management alle mutate condizioni storiche a guida statunitense. L’attuale assetto occidentale è in linea con la logica gestionale nazionalsocialista, per inibire i conflitti ed eternizzare il dominio delle classi dirigenti gli aggiogati sono inclusi con una particolare tecnica di dominio che occulta  la vera natura dell’organizzazione sociale.

 

Inclusione manageriale

L’inclusione comporta per le classi subalterne dagli operai ai tecnici fino ad arrivare agli accademici la libertà di scegliere i mezzi per concretizzare i fini stabiliti dalle classi dirigenti. L’ordoliberismo attuale utilizza la medesima tattica: i sudditi non possono decidere i fini politici ed economici ma solo i mezzi.  Gli accademici non fondano scuole di pensiero, ma sono manager per reperire risorse che proliferano sullo svuotamento dei contenuti e dei fini formativi. Liberi di scegliere il mezzo con cui vendersi e vendere sul mercato, ma quest’ultimo resta il fine ultimo di ogni gesto e respiro, a nessuno è permesso discutere e dialetizzare il mercato quale fondamento dell’organizzazione sociale. I ragionamenti logici e consequenziali devono prevedere il postulato mercato da cui trarre le debite conseguenze logiche e comportamentali. La logica dell’azienda comune ad ogni compagine politica e sociale diviene il catalizzatore su cui si neutralizzano e si celano i conflitti sociali. Il potere si riproduce sempre eguale in modo liturgico e religioso, si ipostatizza con la tecnica manageriale:

“Ciò che la Betriebsgemeinschaft – comunità degli operai e dei capi aziendali – era stata nel Terzo Reich, l’azienda di Höhn – la comunità dei manager e dei loro liberi collaboratori – continua a esserlo nell’universo democratico della Germania ovest e della sua «economia sociale di mercato», ordoliberale e partecipativa, nella quale, dopo una legge votata nel 1951 dai cristiano-democratici e dai cristiano-sociali, si ritiene regnino la cogestione e la co-determinazione (Mitbestgimmung). Sul piano dell’economia nel suo complesso, la cogestione deve evitare le contrapposizioni tra datori di lavoro e operai, prevenire il conflitto di classe e soffocare alla nascita ogni velleità di contestazione. Sul piano aziendale, l’autonomia del collaboratore libero e felice deve scongiurare le divisioni della società (ricchi/poveri, destra/sinistra, operaio/padrone ecc.) e garantire l’unità di intenti, di affetti e di azione della comunità produttiva[1]”.

 

Il management ha un unico obiettivo salvaguardare il mercato e spingere i sussunti ad adattarsi alle logiche del mercato. Il vuoto metafisico e politico è la condizione dell’adattamento. Se non vi sono fini qualitativi fondati a livello logico e ontologico l’adattabilità è automatica. In assenza di un’etica i soggetti sono disponibili ad adattarsi senza l’inciampo della mediazione del logos. Il sistema in tal modo “valorizza” le capacità manageriali dei sussunti che in perenne lotta non pensano ai fini, ma ad elaborare strategie di attacco e conquista del mercato per far sopravvivere la comunità azienda:

“L’astrazione è regola. La regola è dogma, e il dogma è morte. Höhn, senza deviare dal percorso intellettuale seguito negli anni nazisti, esalta la vita e l’esperienza pratica contro la tentazione geometrica, matematica, di formulare regole applicabili a ogni caso. Il riferimento a Federico II e al suo genio è possibile e necessario, non dimenticando mai che il suo genio ha proprio a che fare con la sua capacità di adattarsi ogni volta alle situazioni incontrate: la vita non è altro che plasticità, flessibilità, adattabilità. Chi non cambia, chi non si adatta, scompare, come tutte le specie che diventano inidonee alla sopravvivenza in un determinato ambiente. In altre parole, l’esercito prussiano ha trovato la sua fine nel 1806 per aver eletto Federico II e i suoi principî tattici a norma intangibile e atemporale dell’arte della guerra. Ha mummificato ciò che era stato vita, spontaneità, adattamento permanente, quella che era, insomma, l’«elasticità» (ecco nuovamente questo termine!) di ogni istante: «Appare evidente che Federico il Grande non è stato il grande generale per antonomasia, ma semplicemente un grande generale[2]”.

 

Libertà manageriale

La libertà nel regime del management è l’inclusione nell’azienda comunità che sostituisce la comunità del sangue e del suolo. I principi restano gli stessi: gli esseri umani sono inclusi per essere sfruttati e usati in vista di un sistema su cui non hanno potere decisionale. I totalitarismi eliminano la politica, poiché essa è partecipazione allo scopo di selezionare con il logos i fini oggettivi su cui fondare il progetto della comunità. La libertà del management è solo attivismo, in cui gli aggiogati sono mezzi sostituibili, non sono parte attiva e cittadini, ma sudditi la cui libertà è a misura del “guinzaglio mercato”:

“Il suo metodo di management, gerarchico ma non autoritario, offriva ai «collaboratori» il godimento di una libertà regolamentata, in cui erano liberi di riuscire eseguendo nel modo migliore quello che non avevano deciso loro. In perfetta continuità con quanto predicava prima del 1945, Höhn immagina un’organizzazione partecipativa. Prima del 1945 l’operaio e l’impiegato erano diventati i compagni (Betriebsgenossen) del capo (Führer), non essendo piú i suoi nemici di classe. Dopo il 1949, nella Repubblica federale tedesca, scocca l’ora della partecipazione generalizzata, della cogestione voluta da Konrad Adenauer e Ludwig Erhard per evitare il conflitto di classe e qualsiasi rischio di tentazione comunista[3]”.

 

Il management è studiato e rappresentato in modo astratto, la comunità di lettura dell’occidente ne legge i dogmi, ma non ha la possibilità di pensarlo criticamente, ne deve solo applicare liturgicamente le formule. Siamo dinanzi ad un nuovo integralismo non riconosciuto. Per smascherare l’impronta ideologica del management è necessario  storicizzare la teoria manageriale. L’ostilità generale verso la storia svela il carattere ideologico e irriflesso dei dogmi del nuovo totalitarismo,  è il sintomo più vero ed evidente che denuncia la violenza del totalitarismo in atto.

 

 

[1] Johann Chapoutot, Nazismo e management Liberi di obbedire, Einaudi, Torino, pag. 47

[2] Ibidem pag. 74

[3] Ibidem pag. 62

[4] Ibidem pag. 90

 

Nazismo e management, Johann Chapoutot. Giulio Einaudi Editore - Passaggi  Einaudi

 

 

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