L’inquietudine politica di Lenin
Una delle ultime opere
di Lenin è stata pubblicata sulla Pravda il 4 marzo 1923. Il lungo articolo
“Meglio meno, ma meglio” non è solo una sintesi critica del percorso tormentatissimo
della Rivoluzione bolscevica, tra Prima Guerra mondiale e guerra civile, ma anche
“testamento politico” nel quale Lenin si spinge ad ipotizzare, su dati
materiali ed oggettivi, previsioni geopolitiche ed economiche che avrebbero
potuto rompere l’assedio militare ed
economico di cui l’Unione Sovietica era
oggetto.
“Meglio meno, ma
meglio”(in russo Лучше меньше, да лучше, Lučše men’še, da lučše) è da allora diventato
un detto della lingua russa che invita alla qualità dell’azione da preferire
alla quantità.
Lenin scorge nella
Russia sovietica la sindrome del fare senza la qualità, perché presa dalla
trappola dell’accerchiamento. Il prevalere della quantità sulla qualità non è
casuale, dato che la lunga guerra non poteva che condurre ad una notevole
quantità di provvedimenti e il “fare” era spesso deficitario della qualità.
Lenin nella sua solitudine, mentre la salute declinava (sarebbe deceduto il 21
gennaio 1924) non poteva non constatare i limiti della Rivoluzione sovietica e
indicare i processi per risolverli. Per poter rafforzare la Rivoluzione essa
andava sottoposta a critica radicale in modo da intervenire e fare tesoro degli
errori. Il problema si poneva in modo stringente per l’elezione dei Commissari
del popolo, i quali avevano il compito di controllare i settori produttivi e di
stimolarne la crescita:
“Per poter migliorare
il nostro apparato statale, l’Ispezione operaia e contadina, a parer mio, non
deve correr dietro alla quantità e non deve aver fretta. Finora abbiamo avuto
così poco tempo per riflettere sulla qualità del nostro apparato statale e
preoccuparcene, che sarebbe giusto dedicarsi con particolare attenzione e
serietà alla sua organizzazione e concentrare nell’Ispezione operaia e
contadina materiale umano di qualità realmente moderna, cioè non inferiore ai
migliori modelli dell’Europa occidentale[1]”.
La Rivoluzione
bolscevica si era concretizzata in una nazione con un numero altissimo di
analfabeti. La gestione diretta delle industrie da parte degli operai non era possibile, poiché essi non avevano gli
strumenti tecnici e amministrativi per la gestione. In questo contesto, “imparare”
era uno dei modi certi attraverso cui salvare la Rivoluzione. Nei decenni che
verranno, per Lenin “imparare” sarà l’imperativo categorico. Migliorare la
produzione in senso qualitativo e quantitativo
non poteva che
consolidare la Rivoluzione. Un’intera nazione doveva partecipare al processo di
alfabetizzazione e crescita professionale.
Il temporaneo
arretramento, rispetto al comunismo, con la NEP e l’introduzione di metodi
capitalistici di produzione (taylorismo) avevano lo scopo di utilizzare le
tecniche capitalistiche per aumentare la produzione e soddisfare i bisogni primari.
Il socialismo non poteva sopravvivere senza la “temporanea contaminazione”. Imparare
e controllare era la modalità con cui i rivoluzionari dovevano operare; senza
la tecnica, l’industria e la produzione il comunsmo era irrealizzabile. Il
“comunismo di guerra” è stata la modalità con cui superare l’aggressione
straniera e la guerra civile, per cui nel presente e nel futuro la Rivoluzione
dovrà rispondere in modo duttile alle sfide geopolitiche. Le sperimentazioni
attuate durante il comunismo di guerra, i sabati comunisti e l’eliminazione
pressoché totale del denaro erano da dimenticare, mentre le urgenze non
permettevano accelerazioni, ma arretramenti tattici e strategici:
“Per rinnovare il
nostro apparato dobbiamo a ogni costo porci il compito, in primo luogo, di
imparare; in secondo luogo, di imparare; in terzo luogo, di imparare, e poi di
controllare ciò che si è imparato affinché la scienza non rimanga lettera morta
o frase alla moda (come da noi, e non v’è nessuna ragione di nasconderlo, accade
molto spesso), affinché la scienza diventi realmente carne della nostra carne,
sangue del nostro sangue, affinché essa diventi in modo completo e reale parte
integrante della nostra vita. In una parola, dobbiamo avanzare non le esigenze
che avanza la borghesia dell’Europa occidentale, ma quelle che sono degne di un
paese che si è posto il compito di divenire un paese socialista[2]”.
Selezione e classe dirigente
Il commissario del popolo doveva sentire come proprio il dovere
del controllo attento e scrupoloso, poiché egli era al servizio del popolo e del comunismo, in quanto dai controlli sarebbe dipeso il
benessere del popolo sovietico. Ogni commissario non avreebbe dovuto farsi
prendere dalla fretta. Errori e ignoranza sarebbero stati il risultato della
fretta; il popolo e il comunismo rischiavano di essere minacciati dalla velocità
irresponsabile dei Commissari, non semplici burocrati, dall’agire dei quali sarebbe
dipesa la qualità della produzione. La
formazione politica e la cultura scientifica sarebbero divenuti i capisaldi con
cui neutralizzare i pericoli di corrosione interna causati dalla “fretta” e imparare
avrebbe comporato l’accertamento con scrupolo etico dei risultati e delle
“mancanze” del sistema produttivo:
“Per essere all’altezza
del compito che le è affidato, l’Ispezione deve attenersi alla regola: misurare
sette volte prima di tagliare[3]”.
La qualità del comunismo dipendeva dalla selezione della
classe dirigente. Nelle parole di Lenin vi è l’inquietudine che derivava dalla
consapevolezza dell’inadeguatezza della classe dirigente. Il compito di
edificare il comunismo era immenso e terribile; il contesto storico era tra i
più complessi e pericolosi immaginabili. In una tale cornice solo una classe
dirigente esperta, competente e motivata avrebbe potuto condurre l’Unione
Sovietica fuori dalle acque tempestose dell’assedio:
“Parallelamente
bisognerà nominare una commissione che proceda alla scelta dei candidati a
membri della Commissione centrale di controllo. Spero che per queste mansioni
troveremo un numero più che sufficiente di candidati, sia fra gli impiegati
esperti di tutte le amministrazioni che fra gli studenti delle nostre scuole
sovietiche. Non credo sarebbe giusto escludere a priori l’una o l’altra
categoria. Probabilmente dovremo dare la preferenza a una composizione
eterogenea per questo organismo, che deve assommare in sé molte qualità e
requisiti diversi, sicché la compilazione dell’elenco dei candidati richiederà
un lavoro molto serio. Per esempio, non sarebbe soprattutto desiderabile che il
nuovo Commissariato del popolo fosse composto di gente di un solo tipo, di
funzionari, diciamo, o ne fossero esclusi uomini con qualità di agitatori, o
altri il cui tratto caratteristico è la socievolezza o la capacità di penetrare
in ambienti che funzionari di questo tipo abitualmente non frequentano, ecc.[4]”.
La Russia comunista era stata capace di audacia teorica che
spesso era stata applicata in modo improprio. Contadini e operai non erano nelle condizioni culturali e
politiche per sostenere il processo che dal socialismo conduceva al comunismo,
a tale limite si aggiungeva la contraddizione tra burocrazia e audacia rivoluzionaria. All’interno della
macchina rivoluzionaria contraddizioni e freni operativi erano gli ostacoli entro cui la Rivoluzione “inciampava”. Tali problematiche non potevano che
rafforzare il fronte controrivoluzionario.
Lo sforzo era stato immenso, ma Lenin constatava che la Rivoluzione era
ad un bivio e la vittoria sul fronte capitalistico non era garantito. La solitudine di Lenin era
nella consapevolezza cruda e realistica
che la Rivoluzione poteva essere vinta dall’assedio e che solo una classe
dirigente diffusa e politicamente preparata poteva oltrepassare le difficoltà e
le tensioni che lo lo Stato sovietico subiva:
“E ciò è comprensibile,
perché i più audaci passi in avanti sono stati fatti su un terreno che da lungo
tempo era riservato alla teoria, su un terreno che era stato coltivato
principalmente e persino quasi esclusivamente in modo teorico. Il russo si
sfogava in casa contro l’odiosa condizione di impiegatuccio, si sfogava con
elucubrazioni teoriche estremamente ardite, e queste elucubrazioni teoriche
estremamente ardite acquistavano quindi un carattere eccezionalmente
unilaterale. Nel nostro paese vivevano l’una accanto all’altra, in buona
armonia, l’audacia teorica nelle costruzioni generali e una sorprendente
timidezza per la più insignificante delle riforme burocratiche. Una grandiosa rivoluzione
agraria mondiale è stata elaborata con un’audacia sconosciuta in altri Stati, e
in pari tempo mancava la fantasia per una riforma burocratica di infimo ordine;
mancava la fantasia o la pazienza per applicare a questa riforma le tesi
generali che davano risultati così “brillanti” quando erano applicate
a questioni di carattere generale[5]”.
Assedio e guerra
La guerra imperialista aveva destabilizzato il debole sistema
produttivo russo. Il capitalismo sviluppava le sue industrie, e la sua macchina
da guerra, con l’acciaio a ritmi incontenibili, per cui la minaccia era nella
contraddizione tra il sistema produttivo occidentale e l’embrionale sistema
industriale sovietico. L’Unione Sovietica aveva respinto la Guerra civile
finanziata dalle nazioni capitalistiche, ma la sua vittoria era stata pagata
col dissanguamento delle sue risorse e delle potenzialità di sviluppo.
L’assedio e la guerra erano state utilizzate dai capitalisti per indurre
l’Unione Sovietica a dilapidare energie e produzione. Il risultato finale
vedeva l’Unione Sovietica vittoriosa, ma isolata e tormentata dalla bassa
produzione. Allora come oggi assediare e costringere ad una lunga guerra è
l’arma per erodere lentamente le potenzialità del nemico:
“Il tratto generale
della nostra vita odierna è il seguente: noi abbiamo distrutto l’industria
capitalistica, ci siamo sforzati di distruggere dalle fondamenta gli istituti
medioevali, la grande proprietà fondiaria, e al suo posto abbiamo creato la
piccola e piccolissima proprietà dei contadini, che seguono il proletariato per
la fiducia che hanno riposto nei risultati della sua opera rivoluzionaria. E’
tuttavia difficile reggersi su questa fiducia fino alla vittoria della
rivoluzione socialista nei paesi più progrediti, perché la classe dei piccoli e
piccolissimi contadini, specialmente durante la Nep, si mantiene per necessità
economica a un livello estremamente basso di rendimento del lavoro. Inoltre, la
situazione internazionale ha fatto sì che oggi la Russia è stata respinta
indietro, e che, in generale, il rendimento del lavoro è ora considerevolmente
inferiore a quello dell’anteguerra. Le potenze capitalistiche dell’Europa
occidentale, in parte consapevolmente, in parte spontaneamente, hanno fatto tutto
il possibile per respingerci indietro, per utilizzare gli elementi di guerra
civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il nostro paese. Appunto
una soluzione simile della guerra imperialistica si presentava, naturalmente,
come cosa che offriva considerevoli vantaggi: se non rovesceremo il regime
rivoluzionario in Russia ne renderemo in ogni caso difficile lo sviluppo verso
il socialismo. Cosi press’a poco ragionavano quelle potenze, e, secondo il loro
modo di vedere, non potevano ragionare diversamente. Il risultato che hanno
ottenuto è che il compito che si erano prefisso è stato risolto a metà. Non
rovesciarono il nuovo regime creato dalla rivoluzione, ma non gli permisero di
fare subito un passo in avanti tale da giustificare le previsioni dei
socialisti e da permettergli di sviluppare con grandissima rapidità le forze
produttive, di sviluppare tutte quelle possibilità, che messe assieme,
avrebbero dato il socialismo, di dimostrare a tutti in modo evidente, lampante,
che il socialismo racchiude in sé forze gigantesche e che l’umanità è ora
passata in una nuova fase di sviluppo, che racchiude in sé possibilità
magnifiche[6]”.
Non solo elettrificazione, guardare ad Oriente
Per L’Unione Sovietica vi era la possibilità di volgersi ad
Oriente. I capitalisti con la complicità di sindacati e partiti avevano
economicizzato il conflitto, per cui la sinistra occidentale non era l’alleata con
cui costruire l’alternativa e da essa non sarebbe giunto nessun sostegno
rilevante. Le sinistre occidentali si accalcavano verso i compromesso con il
capitale. La partita si giocava ad
Oriente: Cina e India erano, e sono, un
potenziale prodigioso per risorse e per popolazione. La decolonizzazione che
già si profilava non poteva che rafforzare la lotta e la coscienza comunista in
Oriente. Per l’Unione Sovietica la porta d’Oriente era l’ancora di salvezza,
poiché con l’Oriente si poteva costruire non solo un’alleanza su principi comunisti
comuni, ma anche sviluppare potenzialità produttive che avrebbero potuto condurre
verso la rottura dell’isolamento. L’alleanza era potenzialmente possibile e ciò
non avrebbe potuto, in futuro, che rafforzare il comunismo sovietico, la sua
espansione difensiva e liberatrice degli oppressi:
“Nello stesso tempo,
una serie di paesi, Oriente, India, Cina, ecc., a causa appunto dell’ultima
guerra imperialistica, sono stati definitivamente gettati fuori dai loro
binari. Il loro sviluppo si è adeguato definitivamente allo sviluppo del
capitalismo europeo. È incominciato in essi un fermento simile a quello che si
ha in Europa. È ormai chiaro per il mondo intero che essi sono stati trascinati
su una vita di sviluppo che non può non portare a una crisi del capitalismo
mondiale nel suo insieme. Dalla nostra parte c’è il vantaggio che tutto il
mondo sta già passando a un movimento da cui dovrà nascere la rivoluzione
socialista mondiale. Ma vi è anche lo svantaggio che gli imperialisti sono
riusciti a scindere tutto il mondo in due campi, e che inoltre questa scissione
si complica per il fatto che la Germania, paese capitalistico effettivamente
sviluppato e colto, incontra estreme difficoltà per rimettersi in piedi. Tutte
le potenze capitalistiche del cosiddetto Occidente la beccano e non le
permettono di rialzarsi. E d’altra parte tutto l’Oriente, con le sue centinaia
di milioni di lavoratori sfruttati e ridotti all’estremo limite della
sopportazione, è messo in condizioni tali che le sue forze fisiche e materiali
non possono essere messe a confronto con le forze fisiche materiali e militari
di uno qualsiasi degli Stati più piccoli dell’Europa occidentale[7]”.
I popoli d’Oriente avevano iniziato la lotta per la
liberazione e in un futuro neanche troppo lontano, L’Unione Sovietica, la Cina,
l’India ecc. sarebbero diventate alleate e avrebbero potuto ribaltare gli
equilibri geopolitici per diventare gli assedianti che avrebbero premuto sui
confini occidentali. Unione Sovietica e grandi stati orientali sarebbero potuti
diventare le potenze socialiste che avrebbero condotto alla realizzazione del
comunismo ed emancipare i popoli oppressi dalle oligarchie. Il numero della
popolazione e le risorse materiali rendevano l’Oriente un’area geopolitica che
avrebbe potuto ribaltare la storia. Il colonialismo sarebbe stato rovesciato
solo se l’Oriente, compatto nella progettualità, avesse condotto una lunga
lotta espansiva, non per colonizzare, ma per liberare::
“L’esito della lotta
dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina, ecc.
costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione. Ed è appunto questa
maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, è entrata in
lotta per la propria liberazione, sicché in questo senso non può sorgere ombra
di dubbio sul risultato finale della lotta mondiale. In questo senso la
vittoria definitiva del socialismo è senza dubbio pienamente assicurata[8]”.
Cultura, elettrificazione e alleanze erano la speranza
dell’Unione Sovietica e dei popoli. Per l’Unione Sovietica del tempo la
priorità era l’economia e la produzione,
ma il futuro non si fondava solo sul presente, poiché ra necessario costruire
prospettive. L’Oriente era il futuro dell’Unione Sovietica. L’obiettivo primo è stato superare la carestia;
essa è stata il risultato della guerra di conquista dell’Occidente, il cui
obiettivo non era la restaurazione del vecchio regime, ma il saccheggio delle
risorse nazionali. Il colonialismo era il paradigma capitalistico che i
sovietici avrebbero vinto e avrebbero pagato con la carestia:
“Questa e solo questa è
la nostra speranza. Solo allora, per dirla con una metafora, saremo in grado di
passare da un cavallo all’altro, e precisamente dalla povera rozza contadina
del mugik, dal ronzino dell’economia, adatto a un paese contadino rovinato, al
cavallo che il proletariato cerca e non può non cercare per sé, al cavallo
della grande industria meccanica, dell’elettrificazione, della centrale
elettrica del Volkhov, ecc.[9]”.
L’Unione Sovietica è caduta, ma l’analisi di Lenin ci offre
ipotesi geopolitiche che sembrano valide nel presente per il futuro della
Russia e per l’incipit di una nuova
storia del pensiero politico. In Lenin duttilità e progettualità si fondevano
in un rigoroso realismo che aveva nella lotta la sua “quotidiana sostanza”. Il
tempo attuale ancora una volta pone prospettive storiche che guardano ad
Oriente. Cento anni dalla morte di Lenin, tutto sembra essere cambiato,
l’Oriente ha iniziato a compattarsi e a diventare l’antagonista dell’Occidente
che ha perso, ma non ne è consapevole, il primato. La speranza è un pianeta
senza “primati”, in cui all’omologazione soffocante del totalitarismo liberista
possano succedere la “speranza e la
prassi” dell’antagonismo dialettico senza il quale non vi è che l’inarrestabile
declino dell’umanità.
[1]Vladimir
Lenin, Meglio meno, ma meglio, 1923, Archivio Lenin, https://www.marxists.org/italiano/lenin/index.htm
[2]Ibidem
[3]Ibidem
[4]Ibidem
[5]Ibidem
[6]Ibidem
[7]Ibidem
[8]Ibidem
[9]Ibidem