La bella introduzione di Luca Doninelli ai capolavori di Fëdor Dostoevskij non è solo una riflessione sull’abbandono della letteratura d’impegno e di tradizione da parte dei giovani. È una riflessione sulla nostra realtà sociale che ha scelto l’integralismo della pianificazione e del narcisismo consumistico all’interiorità quale luogo dove scoprire la propria umanità con i suoi conflitti e con le contraddizioni che la caratterizzano.
La letteratura favorisce il disporsi verso il tempo cairologico per conoscersi e fondare legami politici e di senso, il suo abbandono ha innumerevoli conseguenze, è la spia della crisi di identità e progetto in cui siamo. Non si possono coltivare legami, annodare relazioni col mondo in direzione orizzontale e verticale senza toccare la profondità oscura dell’essere umano. Nel buio del conflitto interiore l’essere umano ritrova la propria luce: è segnato dal legame con l’alterità, pone domande per trovare fondamenti metafisici senza i quali qualsiasi esistenza è insopportabile. Senza fondamento metafisico l’essere umano vive la tragedia di un ego che può tutto, è apparentemente onnipotente, ma in realtà si disfa nella disperazione della propria solitudine fino al gesto estremo: omicidio e suicidio sono due volti della disperazione che non trova le ragioni per ribaltarsi in speranza, senso e significato.
Per generazioni l’adolescenza e la giovinezza sono stati archi temporali fondamentali per ritrovarsi. Il viaggio interiore alla scoperta del “Chi sono?” era sostenuto dalla buona letteratura, essa parlava con l’io interiore: i personaggi e protagonisti della letteratura classica erano parti della complessità umana alla ricerca di unità e senso. La letteratura era parte di un’educazione sentimentale capace di umanizzare, era un rito di passaggio verso l’età adulta. La letteratura continuava ad essere parte del proprio paesaggio esistenziale anche in età adulta, mutava il significato che si attribuiva ai suoi personaggi, ma la parola continuava a rendere fecondi i dubbi.
Ora tutto tace, la letteratura in media è rigettata per il fanatismo digitale. L’integralismo crematistico ha sostituito le grandi domande. Le nuove generazioni sono mosse non più dalle grandi domande, ma da un movimento eterodiretto che le guida verso la società dello spettacolo. Le grandi domande mutile e rimosse restano, ma la spinta verso una realtà che li vuole abitatori di un esterno senza i grammatica emotiva pone le condizioni per un individualismo efferato capace di ogni violenza:
“Eppure qualcosa si sta smantellando, e lo dimostra il fatto che uno scrittore come Dostoevskij conosce, oggi, anni difficili. È luogo comune non infondato che una cultura conosca i suoi classici anche senza averli letti. Quando ero ragazzo i vari Proust, Joyce, Dostoevskij, Kafka erano presenti nei nostri discorsi anche quando la loro effettiva lettura non era mai stata intrapresa (quanti tra coloro che usavano l’aggettivo “proustiano” avevano letto effettivamente la Recherche?). Ora, Dostoevskij – e con lui, purtroppo, molti altri, tra cui quelli sopra citati – sembra essere scivolato fuori da questa conoscenza pregressa. Oggi i giovani lo coltivano talora personalmente, ma lo stanno abbandonando come lettura comune, condivisa, come vademecum generazionale – e questo è particolarmente strano, più strano rispetto ad altri scrittori, se si pensa che i protagonisti dei romanzi di Dostoevskij sono quasi tutti giovani, e che la gioventù come tale, con la sua capacità di far emergere le domande più essenziali, e poi di soffocare, di fraintendere, di prendere troppo di petto quelle domande, è al centro del suo struggimento[1]”.
Passioni tristi e governo digitale
L’epoca delle passioni tristi è caratterizzata da spazi governati dal solo digitale, da tali spazi è espulsa la coscienza e la metafisica umanistica. Il centro è la pianificazione a cui bisogna fatalmente pronunciare il proprio tragico “sì”. Non l’essere umano al centro dell’agire e della programmazione, ma una pianificazione dettata dal mercato e dalle plutocrazie.
Il silenzio interiore ottenuto è il dramma in cui sono avvolte le nuove generazioni e gli adulti. Siamo pastori dell’economia, ovvero gregge guidato dalle superiori ragioni della pianificazione, pertanto gli stessi pastori sono i servi del sistema dal cuore di plastica:
“È come se una linea divisoria si fosse scavata tra una gioventù che cavalcò i secoli sul filo degli ideali, una gioventù gettata prevalentemente sul parapetto del futuro, sempre nell’atto di immaginarne i paesaggi – e dunque una gioventù nutrita di sacri fuochi (o anche di astratti furori), talvolta colorati di politica, spesso utopici, sempre carichi di sogni –; e una gioventù per lo più placata, impegnata a immaginare il futuro in termini di programmazione, amministrazione, pianificazione[2]”.
Dopo la caduta del muro di Berlino la storia ha accelerato la sua corsa verso l’omologazione planetaria: ad Ovest e ad Est governa la stessa logica produttiva. Le differenze si sono assottigliate fino ad essere differenze di parata ma non sostanziali. I tipi fisici e i gusti si sono orientati verso un unico modello: l’apparire.
La visibilità globale è il mito-desiderio che muove giovani e adulti, le grandi domande sono state seppellite dal crollo del muro. Vi è stato un esodo globale verso la letteratura quale prodotto da vendere in milioni di copie da incasso, ma che non lascia traccia nella storia e nell’anima. Non si deve pensare ma consumare a ritmo della produzione. La letteratura è solo un prodotto da vetrina, la politica si è ritirata dalla vita materiale per essere visibile solo nei canali digitali. Un mondo impalpabile e nebuloso prepara le sue tempeste nel vuoto del concetto.
L’essere umano può solo adattarsi, deve diventare veicolo di diffusione delle merci. Il pensiero è ricacciato in un passato mitico che la cultura della cancellazione vuole eliminare.
Si colgono le “occasioni storiche” per eliminare la letteratura e con essa l’essere umano. In non poche università anglosassoni opere letterarie fondanti sono cancellate, perché offensive e discriminatorie per le persone LGBT+ o le persone di colore, i grandi della letteratura russa, in Italia, in alcune facoltà sono motivo di imbarazzo, in quanto i russi muovono guerra all’Ucraina. Squallide scusanti ideologiche per obliterare la coscienza come un prodotto obsolescente, in quanto la coscienza e il lavoro dello spirito sono variabili incontenibili e rivoluzionarie:
“La Russia ci è meno vicina oggi di ieri. La sua illibertà, le sue città chiuse, gli echi degli orrori staliniani alimentavano a loro modo il mito della sua grande letteratura, che appariva, contrapposta alla cappa del dispotismo, come un unico grido di libertà. Un Occidente molto più ricco di ideologie ma anche di ideali guardava all’Urss con paura e con speranza, con odio ma anche (grazie soprattutto alla disinformazione) con amore. La letteratura nata in quel mondo, prima di quel mondo ma prigioniera di quel mondo, ci apparteneva, apparteneva a noi in quanto uomini, per un diritto quasi naturale. L’ideale cercava l’ideale, la resistenza cercava la resistenza, la grandezza sperata cercava quella raggiunta[3]”.
La cancellazione della cultura è colonizzazione della memoria: lo spirito è coscienza collettiva e individuale in interazione. La lingua italiana gradualmente è sostituita dall’inglese commerciale, per cui si guarda agli Stati Uniti quale orizzonte e modello per il proprio successo personale. Si recidono i legami con se stessi, con il proprio ambiente storico e architettonico: creature senza profondità e appartenenza non hanno futuro e non vivono il presente, vivono nella reificazione quotidiana. Il simbolico con cui ci si confronta è sostituito dal calcolo, l’astratto scaccia la concretezza delle domande che esigono il confronto critico con la grande tradizione che ci ha preceduti e di cui siamo, volenti o nolenti, parte. La colonizzazione produce violenza, l’essere umano per sua natura necessita di conoscere la sua storia, recisi i legami con essa, è un nulla nel mondo, continua a recare con sé le domande, ma le soffoca tra eccessi e narcotici dolorosi:
“C’è stata, in questi anni, una sorta di colonizzazione della memoria, sulla quale è necessario riflettere di continuo. Noi sappiamo bene quello che mangiavano i soldati americani che sbarcarono in Sicilia, ma non sappiamo più quello che mangiavano i siciliani di allora. La colonizzazione della memoria si è compiuta in questi anni, ma comincia da lontano[4]”.
Siamo dinanzi ad una mutazione dolorosa, nulle è irreversibile nell’essere umano, ma abbiamo il compito di attraversare il deserto dello spirito nella forma della pianificazione e del narcisismo della società dello spettacolo. Stiamo assistendo ad una mutazione radicale: il silenzio interiore, che non sarà mai totale, si sta riflettendo nei corpi di plastica inchiodati in una impossibile giovinezza eterna, miseramente seduttivi, a cui corrisponde una interiorità tormentata da miti distopici e menzogne. In questo vuoto siderale abbiamo il compito di riprendere il cammino della storia e di riaprire gli scenari della politica. Sarà utopistico, ma ricominciare nelle nostre scuole e nelle facoltà universitarie, disobbedendo “al politicamente corretto”, a leggere ciò che il sistema vuole cancellare, è un gesto di resistenza civile, il quale può essere l’incipit per una nuova stagione della politica. Senza concetti e riflessioni onto-assiologiche non vi è politica, non vi è progetto, ma solo l’eterno ritorno del niente, un tritacarne nel quale le nuove generazioni sono sacrificate col corpo e con lo spirito nella complicità generale:
“E se i non-contemporanei fossimo noi? Se fossimo noi a esserci trasferiti in massa in un mondo assolutamente parallelo e non comunicante con quello vero? Un mondo completamente privo di qualunque destino, dove l’uomo è prodotto in fabbrica e dove risulta perciò leggibile e visibile solo ciò che si produce da questa parte – opere nuove, o classici riveduti in versioni domestiche, Iliadi e Odissee senza dèi, Divine Commedie tutte Paoli e Francesche, Amleti e Otelli perennemente in love? Croci da indossare come indumenti dark senza più il disturbo di quel Corpo appeso, inchiodato?[5]”.
[1]Fëdor Dostoevskij, I capolavori, Garzanti, pp.5 6
[2] Ibidem pag. 6
[3] Ibidem pag. 8
[4] Ibidem pag. 9
[5] Ibidem pag. 19