Le classi sociali non sono scomparse. Un bel libro di Pier Giorgio Ardeni


Le classi non sono scomparse ma sono proprio le vecchie divisioni di classe a caratterizzare i nostri giorni..

Un gran ben libro di Pier Giorgio Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi edito da Il Mulino, meriterebbe di essere letto, studiato e discusso in ambito sindacale e politico.

La fine delle classi non è stata solo una operazione ideologica dettata dal rifiuto del conflitto e della contraddizione tra capitale e lavoro ma anche il risultato di una lunga campagna ideologica rinnovatasi nel corso del tempo per criminalizzare il conflitto dei subalterni.

Quando si parla di ceto medizzazione  ossia il progressivo indebolimento, in termini numerici, della classe operaia a favore di una classe media rafforzata, incontriamo analisi e teorie assai diverse tra loro: Ad esempio i contributi del Censis, tra  la fine degli anni ottanta e il decennio successivo, nascevano dall’idea, errata, che il futuro della classe operaia fosse rappresentato dall’evoluzione verso un ceto tecnologico, al contrario il socialismo (rabbrividiamo a definirlo tale) alla Blair si prefiggeva un obiettivo diverso e sostanzialmente reazionario, di  totale adesione ai precetti neo liberisti.

Molte teorie sociologiche, alcune particolarmente in voga anche in ambito antagonista, hanno disarticolato la tradizionale analisi delle classi sostituendola con  un insieme di ceti e sotto ceti non riconducibili al modo di produzione.

L’ appartenenza a una classe sociale non va ridotta alla adozione di stili di vita o a identità culturali che giocano tuttavia un ruolo importante da sempre analizzato dai sociologi.

Se parliamo di ceto medio non possiamo che guardare all’aumento delle fasce impiegatizie e tecniche, alle dinamiche proprie della distribuzione del reddito e a tutte le caratteristiche proprie della società dei consumi che modificarono i tradizionali stili di vita soprattutto nelle aree urbane e metropolitane.

L’equivoco di fondo è stato quello di pensare che un semplice stile di vita diverso dal passato, e riconducibile ad una classe sociale superiore, la disponibilità di redditi maggiori e anche l’accrescimento del potere di acquisto salariale, la presenza di un welfare ancora funzionante e costruito in funzione di famiglie monoreddito, determinassero la inesorabile e definitiva crisi della classe operaia.

A distanza di quasi 50 anni il welfare è ridotto ai minimi termini e senza dubbio andrebbe ripensato, con risorse adeguate, in funzione di famiglie nelle quali i genitori sono entrambi al lavoro (magari part time), il potere di acquisto è in caduta libera anche per dinamiche proprie della contrattazione nazionale costruite al fine di affermare l’austerità salariale, gli stili di vita sono invece assai diversificati e il riferimento al paniere Istat risulta inefficace.

La classe operaia non  si è trasformata in ceto medio per la incapacità di  acquisire una cultura borghese, la borghesia a sua volta ha subito grandi trasformazioni e crisi, alla fine è venuta meno quella idea di società non riconducibil alle classi sociali ma frutto di svariate stratificazioni. Chi pensava al sogno di una grande classe media dominante oggi dovrà prendere atto di avere sbagliato l’analisi. Nel corso degli anni si sono accentuate invece le differenze economiche e salariali (la forbice sociale si è allargata sempre più), gli stili di vita di ricchi e poveri (perdonateci la semplificazione) sono molto più diversificati rispetto al passato.

La precarietà lavorativa, contrattuale, è divenuta esistenziale, essere precari con 4 mila euro al mese è ben diverso dalla condizione vissuta con salari da 1300. La divisione del lavoro ha interessato tanto la classe media quanto quella operaia ma ogni qual volta si fa riferimento alle classi si perde di vista questo dirimente punto di partenza.

Le partite iva, che oggi beneficiano di sistemi fiscali assai vantaggiosi (e socialmente iniqui)  hanno subito, senza generalizzare, un deciso impoverimento in alcune fasce di reddito (il che non autorizza a costruire un sistema di tassazione ad hoc per loro) e rispetto a 40 o 50 anni fa sono in condizioni economiche decisamente peggiori. 

Ma in questo caso anche le teorie del lavoro autonomo di seconda generazione (intuizione di oltre 20 anni fa) hanno sbagliato analisi guardando essenzialmente all’aspetto sociologico e non produttivo.

La promessa di una società nella quale saremmo divenuti tutti borghesi (e la distinzione tra borghesia e classe media è ben analizzata nel libro di Ardeni) è presto tramontata come anche l’idea che con la automatizzazione sarebbe scomparsa la classe operaia.

La stessa mobilità sociale è in forte crisi, se oggi il ceto medio è numericamente maggiore del passato è pur vero che sta vivendo da tempo un progressivo impoverimento con stili di vita identici alla classe più bassa. Molte attività lavorative sono caratterizzate da bassi salari, da contratti sfavorevoli o part time, se frequenti un istituto tecnico professionale molto probabilmente anche i tuoi figli si iscriveranno alla stessa tipologia di scuola, avranno i medesimi consumi e stili di vita, l’ascensore sociale è decisamente rallentato negli anni neo liberisti.

Negli Usa si parla di classe media in termini spesso generici includendo fasce sociali assai diverse e con redditi disparati e posizioni professionali molteplici. 

Eventuali equiparazioni tra l’Italia e altri paesi, ad esempio gli Usa, non sono lecite per la profonda diversità economica e sociale tra i due paesi.

Non solo la classe operaia ma anche il ceto medio  negli anni novanta entrano in crisi e questa crisi scaturisce dall’economia, dai cambiamenti strutturali, dallo stato leggero, dall’indebolimento dei corpi intermedi dello Stato, dalla involuzione del welfare, dal crollo del potere di acquisto di salari e pensioni.

Ci fermiamo qui per non svelare altri contenuti pregnanti del libro ripromettendoci uno sviluppo ulteriore delle tante argomentazioni lette e analizzate.

2 commenti per “Le classi sociali non sono scomparse. Un bel libro di Pier Giorgio Ardeni

  1. Ros* lux
    4 Ottobre 2024 at 18:01

    Definire i lavoratori di fatto subordinati con retribuzione a cottimo ,come lavoratori autonomi di seconda generazione non è sociologia ,ma solo un’espressione degna della propaganda orwelliana ,che capovolge la realtà.
    Basta leggere gli articoli. 2094 e 2222 del Codice Civile per rendersene conto.

    N.B. La locuzione “di seconda generazione”, poi è solo una supercazzola,che a quanto pare è ancora efficace nel confondere il lettore, nonostante coniata nel lontano1997 .

    Citato dall’articolo “Ma in questo caso anche le teorie del lavoro autonomo di seconda generazione (intuizione di oltre 20 anni fa) hanno sbagliato analisi guardando essenzialmente all’aspetto sociologico e non produttivo.”

  2. Franco Trane
    4 Ottobre 2024 at 19:08

    dalla Globalizzazione alla GlEbalizzazione

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