Per scrivere il Romanzo di “questa” Nazione, bisognava trovare il filo complesso che unisce il lavoro e l’Utopia, la realtà e i sogni. Maurizio Maggiani c’è riuscito.
Spezia di nonno Luigi
Luigi, mio nonno materno, aveva fatto il marinaio a “Spezia”, come diceva lui. Contadino così tanto legato alla terra che quando arrivò al mare gli si aprì un’altra prospettiva. Me ne parlava incantato, “Spezia” per lui era il posto più bello del mondo e a me pareva di vedere le navi allineate in porto. Mi parlava delle sue gare di immersione: sul molo i graduati lanciavano in acqua delle monete e tra i marinai, per raccoglierle, ci si tuffava, con spavalderia. Aggiungeva “le pijavo sempre io ma me so rotto li timpani”. Al lago di Vico, dove andavamo raramente, ricordava le sue traversate, da una riva all’altra, i contadini terrorizzati dal detto “Lo laco de Vico ogni anno se fa n’amico”, ammiravano il coraggio di nonno e lui – “l’è fanatico” diceva con spregio di concretezza mia nonna Teresa, “adoratrice del fato”- “a Spezia ho ‘mparato be’ e nun c’haio più paura”. Scoppiata la guerra a “Spezia” reincontrò un eroe marinaro, il capitano Romeo Romei, che aveva sposato una certa benestante del mio paese, Caprarola, e divenne per qualche mese suo attendente. Romei stava per portarlo con lui sul mitico sommergibile “Pier Capponi” ma si ruppe “i timpani”. Meno male “me ffucavo sotto li sommergibili, nun ce la cacciavo proprio”. Il capitano lo raccomandò invece per il corso di “nocchiero” a La Maddalena e gli salvò la vita, perché mentre era lì nacque mio zio Pietro, il terzo figlio, e per tale motivo fu congedato. Fu un gran contadino, ancora, molto generoso e cuor contento, mia nonna lo accusava di essere rimasto a “sogna’ Spezia”. Quando lo assistetti con affetto nella sua complicata agonia, nel 1983 all’ospedale, mi raccontò tante volte della sua avventura in Marina e un giorno mi parlò anche della “Dandolo”, della “nave più grossa e bella che ce fusse, dicevano l’ufficiali e a Spezia tutti se la ricordavano ancora. La prima nave de ferro c’avevono paura che se ‘ffonnasse!”. Avevo dimenticato, avevo perso il canto di mio nonno, l’avevo perso quale “costruttore di nazioni” ma Maurizio Maggiani me l’ha rammemorato cantando l’avventura della costruzione di una magnifica nave e ritrovando uno dei misteri della mia infanzia: come facessero le navi di ferro a non “ffonnare”.
Far cantare il popolo
Già dal “Coraggio del Pettirosso”, l’opera che vince lo “Strega” e lo rende noto, ho avvertito una spontanea empatia per la sua opera. Sarà la sua attenzione al territorio, alle storie ascoltate e ricordate, alla bici di “Maurì, Maurì” e sarà che la sua capacità di intendere la fine delle comunità, di una civiltà, e compassionevolmente cantarla per mantenerla viva, tanto da rievocare la mia fondamentale esperienza di aver assistito alla fine della civiltà contadina, proprio sulle ginocchia di mio nonno contadino che sognava “Spezia”. Accantonando la mia intima, quindi indicibile, emozione per Maurizio che “la sa cantare” vorrei invece dire de le ragioni che vi ho scorto. In tal senso è molto utile il video della suggestiva presentazione del libro che l’autore tiene sulla nave “Scirocco” nella rada di La Spezia, anche per apprezzare la radice orale della sua scrittura (qui I parte https://www.youtube.com/watch?v=OVycPduqujk e II parte https://www.youtube.com/watch?v=_GXMc1885n8 ). Dandolo e Scirocco, uno degli intrecci e dei rovesci storici –fuori testo- di Maggiani: la formidabile corrazzata che non sparò mai un colpo dai suoi spaventosi obici di 450 mm e concluse il suo servizio davanti Messina nel 1908 soccorrendo i terremotati e la fregata lanciamissili una delle unità più impegnate nel soccorso in mare dei migranti dal 2014.
L’autore, sulla Scirocco, definisce il libro “Un incipit”, “uno tra i tanti possibili avvii” del Romanzo della Nazione. Romanzo e Nazione: come si scrive il romanzo? Come si fa una nazione? I due modi del libro per arrivare al popolo, anzi “nel” Popolo e farlo cantare (raccontare) per farlo vivere. Questa è la ricerca del suo “romanzo” e forse il “tarlo” di Maurizio subito chiarito nella citazione d’apertura “Questa è una storia di gente viva, / viva davvero, intendo / E è la storia di una Nazione che è morta,/ morta sul serio voglio dire.”, nell’incipit dell’incipit. Per ognuno dei lettori un metodo per trovare il proprio romanzo della nazione.
Lavoro
Il libro è la risultante della tensione tra il vissuto di Maurizio scrittore e Maggiani membro cosciente della nazione.
Il romanzo si avvia esplorando la figura paterna, come effettivo e potenziale “costruttore di nazione”; il risultato, la summa è nella cornice “da due soldi che si comprano all’Ikea. E’ un foglio di bloc-notes intestato ASL N.3 Progetto Kronos” (p.90) . Il padre nel romanzo non è mai chiamato per nome (proprio) è “figura”, la “figura paterna”. Figura come compendio della sua esistenza di lavoro, quindi, prefigurazione di un modello storico fondato sul lavoro. Lavoro declinato in tutte i suoi aspetti da radiotelegrafista ad El Alamein a elettricista, all’inaspettato e segreto poeta. La poesia di un operaio, 13 canti che danno voce al silenzioso amore per la moglie e senso al silenzio della sua mente attuale. Il lavoro paterno divenuto traccia che alimenta la ricerca di Maurizio; la sua ricognizione attorno alle radici, gli incontri e il lavoro di storico, per giungere all’uscita affettiva dal suo mondo familiare ed alla sua effettiva, “storica”, comprensione. La figura “virgiliana” che accompagna Maurizio ad affacciarsi sul bordo di quell’inferno-purgatorio-paradiso che è la Storia. Avvio al Lavoro che l’io narrante, Maggiani, ha fatto sulla sua ansia patologica incontrando il “lavoro sociale”; nelle sue potenzialità e nelle sue realizzazioni. Questo motore “sottostante”, quest’energia presupposta è cantata, in particolare, nell’epopea della costruzione della corazzata Dandolo nel capitolo 18 (p 231-252). Ponendosi in una posizione semi-trascendente come dall’altura collinare di Napoleone “Me li vedo tutti” (p231) si ha una visione d’assieme ma con la possibilità di distinguere l’arte e l’avventura, tra loro, dei singoli: pp.236-240 Bezzi Cristoforo (ex tamburino napoleonico, ralmigatore), pp.240-42 Chiribiri Carmela da Venezia (sopravvive al colera, ricamatrice), pp.242-46 Francesco Giuseppe Aviglione (ingegnere ex-borbonico inventore di sottomarini), pp.244 Farnocchia Onelio (ex ergastolano rappezzatore), p246-49 Edward Clarke (predicatore evangelico sovversivo e benefattore), pp.249-250 Faraut Michele di val Pelice (mozzo, garibaldino, valdese); pp250-51 Priffi Davide (disperato artista, stipettiere) . La narrazione di un campo visivo (lungo ma non lunghissimo) , dove si mantiene l’azione del lavoro individuale senza perdere la prospettiva corale comunitaria, “Le migliaia, le moltitudini che qui nella scatola dei documenti non ci sono. Non perché non siano mai venuti al mondo, ma perché ci vuole sempre troppo tempo per tirare su una vita via l’altra, bisogna stare troppo a cercare, si fa troppa fatica. E una pazienza che non ha mai avuto nessuno.” Li sotto la nazione sta prima di essere cantata, quindi spiritualizzata; occorre quel lavoro, fatica e pazienza, preliminare altrimenti non ci sarebbe nulla da cantare.
Utopia
Maggiani tiene sulla scrivania il foglietto della ASL dove ci sono le ultime parole lucide del padre “VIVERE DI SOGNI È UN UTOPIA”. Il padre come figura è tutto in questo ermetico riassunto biografico. Speranzoso desiderio o rassegnata stroncatura dell’uomo “che ha lavorato per cinquant’anni dodici ore al giorno senza recupero festivi” (p.95)? Quell’aforisma problematico, che per Maurizio è sacro ricordo del padre, interroga noi sull’Utopia. Chissà se Maggiani abbia tra le sue letture Ernst Bloch, grande filosofo dell’ Utopia (lo “Spirito dell’Utopia” e “Il principio di Speranza”) ? Bloch intende l’Utopia come progettualità socievole e sociale. Non ricerca e ricorda isole fantasiose al modo degli utopisti rinascimentali o progetta città come gli illuministi socialisti, né, infine, accede ad una progettualità esistenziale come estensione del proprio “privato” essere (esserci). Utopia è sinonimo di Speranza, con l’accento sulla ragionevolezza, sul pensare collettivo ad un cammino e non sul solipsismo filosofico-poetico di oltremari e falansteri o dello stretto sentiero di Heidegger. Come ben riassume in un passo Remo Bodei, commentando”Il principio di Speranza” “l’ideale utopico per eccellenza è di ritrovare noi stessi, di ritrovare il senso di noi stessi in una collettività, non un senso solitario”. Allora c’è da verificare se questo stesso “ritrovamento” sia presente nel romanzo di Maggiani. Nel testo non c’è forse fortissima la presenza di Giuseppe Mazzini (lo stesso istituto per anziani dove è ricoverato il padre di Maggiani è intitolato al patriota), del più grande utopista italiano? E il concetto di “Patria dell’identità”, itinerario per approdare ad umanità matura e libera di Bloch non somiglia all’ideale repubblicano mazziniano? Certo tra i due c’è divergenza su Marx e il comunismo ma c’è un affinità importante a proposito di “speranza” nel popolo che è cosa assai differente e più ricca della economicistica “classe” marxiana. In ogni caso Mazzini articola passi fondamentali del romanzo: 1) il confronto con Cavour; 2) le storie di mazziniani; 3) la repubblica romana e il concetto costituzionale di “Dio e Popolo”. Mazzini è la coscienza del romanzo anzi è paragonabile all’appercezione trascendentale di Kant nel senso che si presenta allo stesso momento come ricognizione critica dei limiti dell’oggetto (nell’esergo la gente viva\la nazione morta) e come categoria-progetto del soggetto (l’ideale misura del fato \ Dio e popolo). Mazzini è universale, concretato nello scontro con Cavour, nell’eroismo dei mazziniani, nella battaglia di Roma, e non privata opinione, così Maggiani fa “cantare la storia” con diverse tonalità di fatti– la memoria, il racconto locale, ma anche i documenti e i destini di nazioni e suoi costruttori- proponendoci contrappunti “riflessivi”, tanto sulla “quistione risorgimentale” quanto sulla filosofia della storia.
Storia
La stroncatura dei Savoia è fulminante e tutta nel breve giudizio attribuito a Cavour “Maestà, lei è una merda, disse al re Vittorio ne’58 quando diede ai francesi Nizza e la savoia per avere Milano” (p 228), così come la grettezza dello stesso Cavour tutta nella frase “ Mah, Camillo Benso non pensava che ci fossero delle idee. Ne aveva una lui e questo era quanto” (p 228-29). In generale, sul piano della Storia degli avvenimenti politici (quella con la S maiuscola) Maggiani assume la critica gramsciana, di derivazione meridionalista, dell’ottusità dei gruppi egemonici risorgimentali e, pertinente al romanzo, della loro incapacità a costruire una nazione, cioè ad assumere la reale direzione di un popolo. Tuttavia rispetto a questa sentenza, a mio avviso oramai inappellabile viste le conferme del tempo, Maggiani, mazzinianamente, mantiene vivo un altro piano, quello della spontaneità popolare come altra temporalità formativa di altra storia. Storie, fatte della somma delle casualità biografiche, come nell’episodio di vita familiare della morte struggente di Cesarino o dall’infiammarsi improvviso in avventure collettive, come nel caso tragico e sublime della Repubblica Romana o di quello lirico della costruzione della Dandolo. La Storia lineare (S) che si confronta con la storia ondulatoria (s), celebrata da Lev Tolstoj, in “Guerra e Pace”, con la superiorità di Kutuzov, “che pensa al ritmo della sua terra” e sa affrontare il fato, su Napoleone figlio della razionalità astratta illuminista che ne viene travolto. Allo stesso modo “Camillo Benso era ossessionato dal Fato” p.229, avendo come unica fede il suo ego.
La Grande Contraddizione Motrice
Invece Adorna, la madre di Maurizio, era “un’adoratrice del fato” (p 20) e perciò “di notevole intralcio al mio progetto….del Romanzo della Nazione” alla sua ambizione intelltuale. Tuttavia nella carnalità materna “incistata nelle interiora più profonde, nelle terminazioni nervose, nel midollo delle ossa, nei coni e nei bastoncelli della retina” (p.21) è la sensibilità dell’autore, l’elemento realistico (lessico familiare + legame al territorio), che compensa “un padre all’antica maniera, compiutamente giudaico cristiano…inseguitore, l’occhio di Dio che insegue la sua creatura prediletta fino in capo al mondo”(p.21). Compensa i “sogni”, cioè la teoria, la linea per inseguire.
C’è uno spunto familiare, una dialettica di tipi esistenziali a formare una filosofia della storia, cui corrisponde l’importante passaggio su Hegel in apertura del 19 cap. da studiare articolatamente .
Cavour “si sta grattando un porro sul naso con la guarnizione di pelle di un cannocchiale” (p 164) in una mattina primaverile del 1852 mentre poi osserva, anche, il golfo di La Spezia su cui ha intenzione di avviare l’Arsenale Navale e di lì la Dandolo. Bellissimo questo paradosso poetico: il naso, il porro (non guarda più in la del proprio naso \ la grettezza fobica) e poi il cannocchiale (dal “belvedere…dell’antica chiesa pievana di San Venerio”\ lungimiranza involontaria) che racchiude il senso della considerazione hegeliana, sviluppata nel cap.19. Infatti “Peccato che Camillo Benso sia morto troppo presto per vedere con i suoi occhi cosa aveva messo in moto” (p 253) avrebbe potuto vedere “Anche se aveva questo vizio di non guardare in faccia nessuno e magari non avrebbe visto niente lo stesso” in questo incipit si riprende il paradosso del porro sviluppandone il lato gnoseologico: se non sapeva vedere prima (1852) non aveva idee-visione, ora (1878), a consuntivo, avrebbe continuato a guardare il naso. Questo strabismo caraterizza il fare cavouriano che come la figura dell’eroe nella filosofia della storia di Hegel è preso dai suoi progetti da non accorgersi di essere strumento di altri “provvidenziali” disegni. Peggio di lui, che almeno fa, sono i suoi successori “delle calcine che non ce la facevano neanche a guardare fin giù alla patta delle loro braghe”, ottusi tanto da non vedere il fervore dell’Arsenale, incapaci “…di guardare bene cosa stavano facendo e come lo facevano, avrebbero visto qualcosa di strabiliante.” Ed ecco il cuore dell’argomentazione “Avrebbero visto con i loro occhi la Grande Contraddizione Motrice. Avrebbero visto Hegel la tesi, l’antitesi e la sintesi. E tutto il resto” Avrebbero ma non hanno potuto perché il loro occhi non vedono, non producono “idein”, visioni cioè idee, in quanto non conoscono la dialettica di Hegel (tesi-antitesi-sintesi) e non sanno quindi come contraddittoriamente va la Storia (GCM). Così perdono la sostanza, il contrappunto, “tutto il resto”. Se avessero avuto una mentalità dialettica, e non retorica, allora “Si, avrebbero visto farsi una Nazione”, farsi che altro non è che il lavoro delle migliaia di sbandati arrivati a costruire la Dandolo “Facevano ognuno il suo, erano arrivati lì per questo, per se stessi, ma tutti quanti si sentivano la forza di potersi affrancare da quello che c’era stato prima e che c’è ancora, che c’era tutto intorno ma non c’è lì. Perché lì c’era una cosa nuova. La vittoria dell’opportunità sul destino”. Ed il resto del capitolo celebra questo lavoro liberato: la Dandolo come “cristallizzazione” di lavoro libero, il concretizzarsi della fluida Utopia come affrancamento dai vincoli del fato. Qui c’è davvero molto, perché la potenza lirica dei “lavoratori”, sottolineo caratterizzati come artigiani-artisti e non come operaio-massa-alienato, è il grande contrappunto (la grande contraddizione) a fronte della tesi “ottusa” e retorica del potere, della guerra. Tanto potente il lavoro utopico della contraddizione, che costruisce una nave formidabile ma pacifista: sintesi ironica e luogo liberato dal fato.
Umana provvidenza
Queste pagine, con la tonalità data dalla presenza di Hegel, permettono di chiarire tre concetti che attraversano il romanzo. 1) La storia contro fattuale “Una complessità. Nell’unicità. Avrebbe potuto. Sarebbe stato. Invece le cose sono andate come sono andate Cioè per un altro verso.”(p.255) che, si è già accennato, è l’archeologica ricerca delle memorie dei perdenti; la repubblica romana, come le peripezie di Mazzini le biografie dei sovversivi sbandati, scavo di eventi sotterranei riportati alla vista, all’idein, divenuti fatti da misurare al cospetto della Storia degli avvenimenti vincenti; 2) per contraddizione, il metodo hegeliano e di Maggiani, dell’eterogenesi dei fini (o ironia della Storia) è la “contraddizione motrice” costruttrice degli intrecci e degli scioglimenti paradossali del romanzo: la laboriosa biografia del padre->conclude nell’Utopia, ebrei aiutati a sfuggire dall’olocausto-> opprimono palestinesi; sbandati al lavoro -> costruiscono una nave da guerra pacifica; dio e popolo di Mazzini; la fuga di Maurizio in Romagna per ritrovare la sua Lunigiana; la civiltà italiana e la Cina; insomma una “provvidenza” che pare dirigere gli avvenimenti dal di sopra 3) infine la dissonante, all’apparenza, riflessione sul fato e la volontà come trazione teleologica, il fine del romanzo: la costruzione della nazione. Come detto, Maurizio fuoriesce dalla biografia privata dominata dal fato e attraverso il padre incontra la volontà; tuttavia nazione e utopia, memoria e sogno, evocano una trama provvidenziale. C’è, allora, un’affinità sottile con la riflessione manzoniana, polifonica, sulla Divina Provvidenza che domina il romanzo italiano per definizione. La grandezza “hegeliana” del presente romanzo è riuscire a darne un’altra e nuova sistemazione: la volontà è, come intendeva Antonio Labriola un hegeliano realista, le tante volizioni moventi l’arte semplice dei lavoratori dell’arsenale, così come le grandi mani del padre, è il lavoro all’opera. Solo dopo, e perché ci torniamo su, le pensiamo per riunirle con il filo del racconto quelle tante volizioni e le tante mani appaiono dominate da un disegno. Nel lavoro quotidiano i fini appaiono ben chiari: orlare, ralmigare, stipettare, rattoppare, poi nella composizione si rischia di schiacciare con una grande finalità oscura (il fato) “una complessità”. In fondo la provvidenza (hegeliana) è la coscienza di questa posteriorità e relativa astrattezza dalla vita degli uomini, mentre il lavoro è la dimensione presente degli uomini con la quale possono partecipare ad un’impresa collettiva.
La pazienza del romanzo e la vastità del mondo
Come Manzoni e Tolstoj, Maggiani ha intenzione di scrivere, e scrive, il romanzo, cioè un “sistema” letterario e per questo nelle sue pagine c’è l’eco di altre soluzioni “nobili” che parlano della sua nazione e di come canta il popolo. Tuttavia Maggiani ha una condizione “epocale”, cioè trascendentale, specifica e ciò è riflesso nella sua teoria del romanzo, proposta ed esemplificata nel cap. 13. “La gran parte dei romanzieri difetta in generosità, pensano di avere una limitata disponibilità di tempo e di pagine, pensano di dover fare in fretta. Così consumano il loro genio ad architettare meccanismi di straordinaria complicazione perché tutto fili liscio e in fretta fin dove vogliono arrivare. Mai abbastanza lontano in verità. Mai abbastanza per render giustizia di come vanno davvero le cose del mondo degli uomini. Il mondo degli uomini non è un orologio che uno si mette in tasca e sta lì a sentire che gira, gira, gira. Il mondo degli uomini è un po’ più grande e inaspettato. Qualunque singola vita è infinitamente più vasta di un romanzo scritto senza generosità. E dura molto più a lungo. E a volte si muove così velocemente zizagando in modo così vertiginoso che non c’è maniera di poterle dare un appuntamento.” (p.178) L’incipit enuncia due principi: la complessità è diversa dalla complicatezza e lo scrittore deve essere generoso, ascoltare le vite altrui. Vi riecheggia il celebre artificio introduttivo di Manzoni, riguardo al tempo “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia” e all’ascolto della vita “solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione.” Per sopportare la complessità occorre tempo non riducibile a orologio, a meccanismo che “gira”; il tempo “kairologico” che intende Maggiani ha andamento irregolare ( dura più a lungo e a volte velocemente) e ci proietta in altri spazi non circolari “zizagando”. Invece la complicazione è un’architettura, artificio mentale per lisciare frettolosamente una materia ispida. Qui, rispetto a Manzoni abbiamo l’affrettarsi del tempo interiore conseguenza della frenesia moderna e la complessità di qualsiasi vita anche di quelle persone “di piccolo affare” non più “gente meccaniche” ma ricche delle avventure “lavorative” con le quali sono state travolte dai due secoli di modernità. Insomma se il romanzo nazionale di Manzoni si svolge sulla lineare educabilità delle “gente meccaniche”, la vita dei lavoratori di Maggiani è infinitamente più vasta. La vastità, come probabilità, è ben esemplificata dal prosieguo del capitolo che “zizagando” narra le vicende dei rifugiati ebraici aiutati a La Spezia e di lì partiti per la Palestina; tra di loro l’immagine di un allora giovane profugo della repubblica di Weimar e ora giudice Eisner impegnato a giudicare un terrorista palestinese legato ad una ragazza anche lei proveniente dalla terra del Magra. Questi per esempio, come altri, intrecci di temporalità paiono costituire uno specifico “cronotopo” seguendo la celebre categoria di Michail Bachtin (Estetica e romanzo) , come variabili coordinate tra soggetti-agenti (tempo) e ambiente del racconto (spazio). La temporalità privata delle vicende familiari scorre parallela alla secolare estensione del tempo pubblico: le vicende che ruotano attorno soprattutto al padre e all’epopea della Dandolo e si allargano, di la verso i rigagnoli, in una cerchia parentale contraddittoria, di qua si confronta con momenti significativi della storia italiana (il mazzinianesimo della repubblica romana, la resistenza, il 68). D’altra parte la studio intenso dello spazio della comunità spezzina-magrese si allarga verso zone lontane: Roma, Palestina, Romagna, Cina. Questo respiro però ha sempre il suo centro nella costruzione della comunità nativa, di quella storia, di quella nazione possibile; anche quando Maurizio allontana la sua residenza verso la Romagna “repubblicana”. Con questa mossa trascendentale cerca una posizione dove rintracciare sopravvivenze di cultura mazziniana. Dunque l’unità spazio-temporale (cronotopo) che struttura il romanzo serve a sostenere ogni vicenda che tenda alla costruzione di una nazione, cioè un’autocoscienza di comunità. Di ciò Maggiani è l’aedo, cantore della Lunigiana e ricercatore di storie di nazioni, guidato dal dubbio paziente “Come facessero non lo so, ma era tutta gente che sognava mentre lavorava, e quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia.”(p.152 e sinossi di quarta di copertina). Così seguendo sogni e lavori, giunge a rovistare nello zaino di un giovane cinese dove trova tre libri: Dante, Machiavelli e Pisacane, le più importanti utopie italiane . Qui rimasti ideali di una nazione mai nata, parole stampate sui libri, per vie tortuose sono arrivati in un altro mondo (spazio-tempo) , ad ispirare lavoro per la nascita di una nazione.