Restaurazione politica della filosofia nella città dell’uomo
Come si fa a comprendere la radice della crisi antropologica, dello sradicamento attuale dell’uomo, trovandosi nel mutevole terreno della nuova città digitale, dove a corpi con idee si sostituiscono fluide identità plasmate da informazioni? Con un percorso storico e, al contempo, sperimentale Antonio Martone nelle 170 pagine del libro Ecity -Antropologia della tecnica riesce ad offrirci un prezioso filo conduttore nella dissoluzione dell’epoca moderna nella quale siamo immersi, fornendo “un lessico in grado di illustrarla” (p.12) e affrontando il “vuoto di senso” della vita politica con una serie di temi convergenti su “un fuoco unico” (p.20). I due piani argomentativi si concentrano intrecciandosi e offrendo un quadro chiarissimo nell’oscura “…agonia della società di massa” (p.87), Anzitutto si ricostruisce un discorso filosofico in grado “da un lato, di esplicitare il funzionamento dei movimenti antropologici, prima che politici, su cui si reggono le società a noi coeve. D’altra parte, occorrerebbe – una volta enucleati i presupposti di tali dinamiche – indicare delle strade teoriche percorribili al fine di tras-formare la visione del mondo contemporanea e i suoi contenuti simbolici profondi.” (p.101-102) Restituendo quindi la filosofia al suo nesso con la politica e togliendola dalla deriva relativistica del “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni” (p.102). Sull’altro piano, al di sotto, c’è invece il discorso sull’uomo, l’antropologia nella sua paradossale situazione “L’uomo è un enigma, ed è anche la cosa più ‘inquietante e terribile’ del mondo?…Tuttavia le condizioni strutturali della ricerca, piuttosto che scoraggiare l’intrapresa, costituiscono lo stimolo fondamentale alla sua nascita e al suo sviluppo.” (p.75). Se l’unico presupposto è “…la fragilità strutturale dell’uomo – il vuoto originario con cui esso costantemente si confronta, ciò che rappresenta nello stesso tempo la sua origine e il suo destino” (p.75) e cioè la coscienza della morte e quella del limite, allora la ecity è il terreno per verificare quali siano le attuali soluzioni (o dis-soluzioni) del “vuoto originario”.
Tocqueville spiega Hobbes: la democrazia completa la desacralizzazione
Il libro apre con i suoi 6 capitoli un sentiero dentro la città elettronica cui altri possono aggiungere fenomeni e autori ulteriori, dialogo a cui voglio unirmi. C’è un arco narrativo e temporale, aperto dall’alfa Tocqueville e chiuso con l’omega Heidegger, un’epoca di pensiero cui partecipano una serie di importanti critici della modernità. Il barone normanno è l’osservatore della contraddizione tra libertà e democrazia, al suo generarsi, nell’aurora americana, della società di massa, il processo che poi si è compiuto nella “tarda modernità” (p.39). Per Martone Tocqueville prevede con chiarezza l’antropologia moderna, dove l’uomo desacralizzato (“Dio è morto” di Nietzsche) si trova schiacciato sulla terra senza limiti come individuo isolato che vagabonda e come puro numero elettorale. Il capitolo 2 esplora vari aspetti del pensiero dell’autore francese come il conformismo o il servilismo ai nuovi despoti –secondo il tema dostoevskiano del Grande Inquisitore- per evidenziarne, soprattutto, la capacità “triste” in quanto “vinto” di cogliere “lo spirito della democrazia moderna, nei suoi dati strutturali e nella sua evoluzione storica.” (p.42-43), cioè l’approccio aperto, testimoniale e quindi sperimentale dove “Sul piano metafisico, non si può far altro. Sul piano politico, invece, si può far tutto” (p.43). Con questo approccio anti-sistematico e aporetico (libertà/democrazia) Tocqueville “ci protegge dalla retorica e svuota il formalismo presente in troppi studi sulla democrazia” (p.42) e qui vorrei segnalare un’affinità con il lavoro filologico e genealogico di Luciano Canfora su “La retorica democratica”. Un altro accostamento nel metodo anti-sistemico lo porrei con Machiavelli che, mutatis mutandis, non si converte, dopo la sconfitta politica, alla storia come piano provvidenziale consolatorio ma la propone sempre come paradigma prospettico, “esistenziale”; rispetto a comprendere (filosofia) predilige ancora fare (politica).
Il moderno è iniziato con la Pace di Westfalia del 1648, nella prassi, ispirando l’immediata profonda acquisizione teorica del 1651 da parte di Hobbes con Il Leviatano. E’ questa specifica fedele induzione di concetti dal laboratorio storico che offrirà, secondo Martone, quelle aporie che Tocqueville vedrà poi all’opera. Sul “Dio morto” Hobbes costruisce il grande mostro onni-politico, ma col residuo antico di voler salvare “l’intero sociale” (p.26), e la pax sociale della prima legge di natura, presuppone un animale statuale in grado di farla rispettare su tutto il campo della società. Tuttavia la crisi teologica operando la rottura della composizione gerarchica dei legami sociali li frantuma in individui-atomi eguali e isolati in comunicazione tra loro solo per l’energia fornita dal mostro sovrastante. Con il procedere del capitalismo e la Rivoluzione francese quest’organicismo entropico (nel senso che ha bisogno di apporti esterni di energia) si rompe e inizia il mondo “americano” di Tocqueville. Il paragrafo “Dalla cattedrale alla frontiera”, del capitolo 5, compendia suggestivamente il passaggio dall’ordine verticale della “cattedra vescovile” (p104) alla“orizzontalizzazione dei rapporti umani, distogliendo lo sguardo dal cielo, laddove, cioè era diretta la cupola della cattedrale, impone di puntare verso nuove terre e incessanti conquiste mondane. Nasce così lo spirito materialistico della modernità.” (p.105) La cattedrale è stato il simbolo della limitazione del singolo che ha significato dentro una struttura, la frontiera é l’illimitato spazialmente dove il singolo, svincolato dagli ordini corporativi, è divenuto individuo (uno tra i tanti atomi) che intesse alleanze momentanee -”per ragioni performative e funzionali” (p.106) – con altri atomi, attraverso lo sforzo prometeico, il lavoro totale “che occupa l’intero spazio dell’esistenza e lo stare insieme…” (p.106). E’ la situazione che Martone definisce “nichilismo della prassi lavorativa” (p.107) e poi è stato scritta sul cancello di Auschwitz “Arbeit macht frei”.
Fenomenologia senza spirito nella città democratica
Questi due passaggi aprono la modernità e la città si apre, si articola ed estende, per divenire il luogo dove accogliere l’uomo moderno (homo aequalis e democraticus) seguendolo nella sua evoluzione attraverso il rapporto con la tecnica e con la nuova immagine di sé, con la produzione simbolica. Da borgo artigiano raccolto attorno alla piazza, a città energivora costellata dalle fabbriche e dai suoi quartieri operai, infine alla ecity smisurata e posteriore a qualsiasi organicità sociale popolata da vaganti “masse vuote”. Su questo approdo, della “tarda modernità”, si concentra la ricerca antropolologica del libro. La democrazia giunge al suo sballo (cap. 3 Sballo-democrazia) producendo una spoliticizzazione totale, cioè l’opposto dell’ideologia democratica; nella ecity si vengono a contrapporre due masse incomunicanti, le elites e i subalterni, spinte all’illimitato consumo. “La fenomenologia del quotidiano mostra una ecity abitata da soggettività globalizzate che guardano verso un unico spazio/tempo astratto e impersonale. Nella ecity i desideri sono costruiti e vogliono essere soddisfatti qui e ora” (p.73) e qualsiasi incursione in questo non-luogo lo conferma. La città non è più abitata dai residenti e perde i caratteri di “autenticità”: percorsa da turisti distratti viene modellata ai loro desideri e finisce nella “plastificazione commercializzata” (p.119). Scomparso il centro topografico e politico (l’agorà) gli abitanti si rifugiano “Nei centri commerciali, non luoghi per definizione, la ecity raggiunge il massimo dell’astrazione sradicata e spersonalizzata….” (p.160) Al panottico controllo della “direzione del centro commerciale” si contrappone lo spaesamento dei frequentatori che produce la miscela perfetta “Nella ecity, nessuno si cura veramente della vostra felicità, perché sappiamo bene che se foste felici, non consumereste affatto.” (p162). Infine la comunicazione veloce digitale dei social dissolve le posizioni, il permanere nel tempo di idee, “…dagli abitanti della ecity non si esercitano più, pertanto, in quanto logica facoltà capace di strutturare il tempo – ponendo cioè, in sequenza il passato con il futuro attraverso il presente-, ma in quanto “estasi” emozionali che rispondono producendo un messaggio dettato esclusivamente dall’hic et nunc del proprio desiderio immediato” (p.154). L’alienazione umana è passata dall’uomo massa “democratico”, per il marcusiano “uomo a una dimensione” fino a giungere a questa situazione “de-simbolizzata”, dove ai simboli, cioè alla produzione di significanti, di segni, verbali e rituali, ancor prima che significati, “Per sopportare la condizione di solitudine intergalattica nel quale è imprigionato.”(p.78), subentra “Il denaro e la tecnica [che] occupano l’intero spazio creativo dell’uomo” (p.66). Qualsiasi ricerca di senso è sostituita dal moltiplicarsi indefinito finanziario e dal moto illimitato della macchina tecnologica (quella che ha gradualmente sostituito il mostro di Hobbes). Anche qui Martone propone, con pertinenza, la riflessione di un grande autore “profetico” come George Simmel che nella sua Filosofia del denaro individua come “L’economia monetaria nella sua astrattezza e volatilità” ha ridotto le relazioni umane a pure operazioni monetarie, finendo il mezzo per assorbire ogni qualità umana, o , che è lo stesso, la finalità sociale.
La città antica dell’essere, misura del nichilismo attuale.
La città nata come circoscrizione di territorio e di sovranità si va annichilendo nel suo contrario: nella illimitatezza. “Ciò che vediamo è una città immensa, dai confini imprecisati: davanti a noi si colloca una ecity composta da milioni di microchip: bytes e lucine lampeggianti a intermittenza punteggiano un traffico caotico e inestricabile di email, ebook, ecommerce, elove, efamily, ework, ecc.” (p135) Dopo la distruzione di ogni finalità da parte del denaro la tecnica è stata insediata come ultima metafisica, ultimo dominio sovrumano sull’uomo diventato mezzo assoluto. La parabola aperta dall’osservazione storica e dicotomica (libertà/democrazia) di Tocqueville giunge a sintesi con Heidegger con la sua critica alla “Questione della Tecnica” che ispira il capitolo finale “Ecity. Tecnica senza storia”. “La soggettività non soltanto non può essere in alcun modo considerata autonoma rispetto alla tecnica, ma bisogna ammettere che essa stessa è costruita tecnicamente…Del resto, soprattutto in un’ immagine notturna, una metropoli del post-industriale occidentale, vista dall’alto, appare sempre più somigliante a una gigantesca scheda-madre di un computer” (p.135). Questo suggestivo paragone ha un corrispettivo reale esemplare nella Los Angeles fotografata dalla collina di Hollywood: dove nella dissipazione di linee luminescenti si dissolve una città senza centro e grande come il Lazio (istruttivo il libro oramai storico di Mike Davis La città di quarzo, indagine sul futuro a Los Angeles). La città – occidentale- che è stata luogo di composizione della parte socievole della problematica (“generica”, dice Karl Marx) natura umana ci offre in compendio il destino dell’uomo tecnologico, modulato ad agire come protesi di una macchina cibernetica. Heidegger, il più grande filosofo del ‘900, intendeva oltrepassare il “velo” della metafisica per scorgere l’essere nella sua origine. Il termine essere è introdotto nella filosofia dai frammenti del breve poema “Sulla Natura” di Parmenide. Soprattutto i primi 31 versi, dove non si parla di essere, sono di difficile interpretazione, presentandosi come una visone immaginifica; nel 1964 Mario Napoli, insigne archeologo, scopre la Porta Rosa di Velia (presso Ascea Marina nel Cilento) cioè ad Elea l’antica città di Parmenide. Di lì deriva l’interpretazione molto discussa, di Antonio Capizzi per cui gli argomenti parmenidei a partire dai versi (10-13) “Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, / con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra / e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti”, si riferiscono alla politica della città e alla composizione nell’Essere dei conflitti tra la parte settentrionale e meridionale della città ( la notte e il giorno). Questo sostanziare l’essere nella polis, politicizzarlo, è probabilmente una forzatura ermeneutica ma è certo che i filosofi di allora fossero politici o consiglieri dei politici. Forse non è tutto l’essere cercato da Heidegger, che poi si rassegnò a non trovarlo o meglio a “perderlo sempre”: scoprendo che l’attività tecnica era illimitatamente dedita alla suo seppellimento. Ma è una suggestione, funzionale, che ci riporta al fiat, al momento originario della polis reale e alla sua immagine ideale quale luogo di mediazione dell’uomo, di incontro con l’altro, di dialogo socratico, cioè di filosofia. Può essere termine di riferimento per l’odissea dell’uomo post-cittadino nel quale il libro di Antonio Martone ci ha guidato come “Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere, /mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose” (vv 1-2 Della Natura Parmenide)