Le rivolte fiscali sono state
fondamentali ai fini della formazione dello Stato moderno e in particolare
Liberale. Esse hanno caratterizzato il mondo occidentale a partire dalle
rivendicazioni dei baroni inglesi contro re Giovanni Senza Terra fino alla
Rivoluzione francese per ritornare nell’ultimo mezzo secolo sotto forme meno
violenti ma non meno influenti nella definizioni delle politiche dei governi di
molti Stati Occidentali. Il prelievo fiscale è determinante ai fini della
definizione dei compiti dello Stato fissando nel contempo il confine tra sfera pubblica
e sfera privata. Lo Stato moderno nasce a partire dal 400 – 500 per acquisire strada
assumendo l’attuale fisionomia. Attraverso la tassazione lo Stato acquisisce le
risorse necessarie che gli consentono l’esercizio della Sovranità su un
determinato territorio e su coloro che lo abitano. La costruzione di un sistema
fiscale adeguato è stato uno dei fattori determinanti ai fini dell’affermazione
dello Stato moderno. Il gettito tributario conferisce le risorse finanziarie
che consente al Sovrano di difendere lo Stato sia dai nemici interni che
esterni. Attraverso il prelievo fiscale lo Stato si rende autonomo dalla
Società, diventa un corpo a se capace di regolamentare la Società ma di difendersi anche da quella stessa
Società che regolamenta e difende dagli attacchi esterni.
Dicevo che la questione fiscale è
talmente rilevante da essere stata la causa principale che ha determinato le
rivoluzioni che hanno caratterizzato il mondo moderno fino al punto da poter
essere considerata il fondamento dello Stato Liberale. La Gran Bretagna è stata
la culla di questo tipo di rivoluzioni nel senso che è il primo Stato dove la
questione fiscale è diventata fondamentale ai fini della definizione delle
sfere privata e pubblica, fissando appunto i confini tra i due mondi e nel
contempo definendo la fisionomia dello Stato Liberale. La sfera privata pur
ricadendo sotto la Sovranità dello Stato è da questa distinta. Le rivolte che
interessano la società inglese del ‘600 che vedono il Parlamento contrapposto
al Monarca ruotano intorno alla questione fiscale. Nell’Inghilterra dell’epoca
i Puritani volevano l’abrogazione della decima utile a finanziare la Chiesa
ufficiale da sostituire con contributi volontari. Questo dato è particolarmente
rilevante perché è strettamente legato alla libertà di culto. Abrogare la
decima e introdurre il contributo volontario significava lasciare gli individui
liberi di praticare il culto ritenuto consono alla propria coscienza. Una tale
rivendicazione si interseca con la libertà di coscienza e quindi di pensiero.
Nel 600 viene ribadito con forza il
principio del “no taxtion without rapresentation” che
ha il suo fondamento nell’art. 12 della Magna Charta Liberatum il quale recita “ no scutage not aid shall be imposed on
our Kingdom, unless by common counsel of our Kingdom”, tradotto nessuna
imposta può essere applicata dal re se non è approvata dal concilio del regno, norma
ripresa in tutte le Costituzioni Liberali ed ereditata dalle Costituzioni
Democratiche e Sociali del ‘900. Come dicevo, questo è il principio sul quale si fonda lo
Stato Liberale dove per “ Liberale” deve intendersi una sola cosa: libertà da
parte dell’individuo di disporre della proprietà privata e obbligo dello Stato
a difendere un tale diritto.
Il primo bene del quale
l’individuo è proprietario è il proprio corpo quindi la vita. Diritto di
proprietà e diritto alla vita sono strettamente connessi. Sono l’essenza dell’Individualismo
moderno. Da questa simbiosi tra i due aspetti scaturiscono i diritti di libertà
individuale. Il diritto di libertà di parola, ossia il diritto a dissentire, è
fondamentale ai fini della manifestazione del proprio pensiero rispetto
all’utilizzo delle risorse private sottratte con i tributi da parte dello
Stato. In un contesto come quello tardo medievale e moderno l’essere critici
rispetto al prelievo tributario da parte dello Stato poteva essere interpretato
come tradimento con sanzioni che prevedevano la morte del riottoso. Sul piano
delle relazioni tra privati il furto, quindi una sottrazione illegittima di
parte o tutta la proprietà altrui era un illecito penale sanzionato con la pena
capitale. Le questioni religiose sono parte integrante del dibattito politico
di quel secolo circa il diritto di proprietà e il prelievo fiscale. I
presupposti di quanto accadeva nell’Inghilterra del XVII secolo sono da ricercare
nella Riforma Protestante. Lutero trova facile sponda e protezione da parte dei
Principi tedeschi perché non era critico solo verso la vendita delle indulgenze
ma contro la riscossione della decima. La decima riscossa a favore della Chiesa
Cattolica scaturiva dal fatto che essa era proprietaria di grandi proprietà
terriere. Lottare contro l’autorità ecclesiastica rappresentata da Roma Sede
del Pontefice liberava risorse utili ai Principi tedeschi dell’epoca ma anche
alla nascente borghesia e quindi per gli scambi commerciali. L’essere cittadini
e non semplici sudditi era una condizione determinata dall’essere o meno
proprietari e quindi contribuenti. Per comprendere fino in fondo questo
passaggio bisogna fare riferimento alle teorie politiche sia del ‘500 che del ‘600.
Ad esempio Pufendorf, filosofo, giurista e teologo del ‘600, ritenuto il fondatore
del Giusnaturalismo, nel primo volume
della sua opera più importante “
Il diritto della natura e delle genti” tra gli Enti morali considera come
fondamentali lo Stato e la proprietà privata. Il diritto di proprietà viene
considerato un diritto naturale che precede il diritto positivo. La genesi di
una tale concezione risale alla speculazione teologica, filosofica e canonista
del XIII e XIV secolo a partire da Duns Scoto, Ockam, Enrico di Gand solo per
citarne alcuni. E’ Papa Giovanni XXII a porre fine al dibattito circa “ la vessata quaestio se Cristo fosse o meno
proprietario delle sue vesti” sancendo la legittimità del diritto di
proprietà privata minacciando di scomunicare coloro che avessero messo in
discussione un tale diritto come non “naturale”. Il ‘500 è anche il secolo che vede
strutturata l’idea del contratto sociale grazie al giurista e filosofo Mario
Salamonio degli Alberteschi. Ha scritto lo storico delle dottrine politiche
Mario D’Addio che il fondamento contrattualista dello Stato è antico, risale ai
Sofisti, vi è traccia in Cicerone, in S. Agostino passando per il pensiero
giuridico e teologico del Basso Medio Evo come prova la teorica di Tommaso di
Aquino, ma è solo con degli Alberteschi che l’idea appare strutturata e
definita nei suoi vari aspetti, da qui l’avere
influenzato il pensiero del gesuita spagnolo di F. Suarez, la teologia politica calvinista tanto
francese quanto tedesca e lo stesso J. Althusius. L’idea del “ contratto
sociale” come espressa da degli Alberteschi verrà utilizzata per sostenere il
principio della sovranità popolare
contro l’origine Teocratica del potere politico. Tra le clausole contrattuali
poste a fondamento dello Stato vi è la tutela della proprietà privata. La
difesa dell’individuo e della proprietà, anche se con accenni diversi, è
centrale nell’opera tanto di Hobbes quanto di Locke. Per Hobbes il diritto di
proprietà non è un diritto naturale, perché tutti sono proprietari di tutto, ma
frutto del riconoscimento da parte dello Stato. Per Locke il diritto di
proprietà precede la sottoscrizione del contratto sociale che da origine allo
Stato. Per entrambi la tutela della proprietà privata è fondamentale ai fini
della definizione dello Stato Moderno. Le Costituzioni Liberali riconosceranno
i diritti politici attivi e passivi solo ai cittadini proprietari. Di tale
avviso sono anche i teologi, filosofi e giuristi della Seconda Scolastica. Il
dato dell’individuo proprietario e del limite dello Stato nell’imporre tributi
ai propri sudditi attraversa tanto il campo Protestante quanto quello Cattolico
come prova l’importanza della Seconda Scolastica nella definizione del diritto
di proprietà.
A riprova di quanto sostengo è la
guerra di Indipendenza americana. La rivolta degli abitanti delle tredici
colonie nate nel Nord America contro la Monarchia britannica è uno passaggio
fondamentale circa la nascita dello Stato moderno e di come esso prenda spunto
dalla questione fiscale. La guerra dei
sette anni, combattuta anche nel nord America tra Britannici e Francesi come è
possibile verificare guardando il film “L’ultimo
dei Mohicani” o leggendo il romanzo dal quale è liberamente tratto, fece
crescere il debito pubblico. Per fare fronte a tale debito il Governo britannico
dell’epoca impose ai coloni americani una serie di tributi, tra questi uno
particolarmente inviso, la tassa del bollo. I sudditi delle colonie nord
americane, memori dei principi ispiratori del sistema costituzionale britannico
si rifiutarono di pagare i nuovo tributi, da qui quella che è passata alla
Storia come guerra di Indipendenza Americana, di fatto semplicemente una
rivolta fiscale. Il contemporaneo movimento statunitense del “ Tea Party”, che
si pone come obiettivo la riduzione delle tasse, si ispira al primo episodio di
rivolta dei coloni americani contro la madre patria britannica, quando a Boston
alcuni cittadini, travestiti da nativi buttarono a mare carichi di te. La
stessa rivoluzione francese dell’89 è da considerare una rivolta fiscale. Il
popolo parigino si ribellò alle politiche di austerità imposte dal governo
francese dell’epoca al fine di ridurre il debito pubblico. Gli Stati Generali,
istituto parlamentare di origine medievale, venne convocato, a distanza di
oltre un secolo e mezzo dall’ultima volta, con lo scopo di far approvare nuovi
tributi. Di rivolte contro la pressione fiscale la storia è ricca. Fatti spesso
derubricati come questioni di ordine pubblico o di semplice criminalità come quello del contrabbandiere Louis Mandrin
aiutano a capire anche le modalità di riscossione dei tributi dell’epoca. Il
sistema di riscossione veniva dato in appalto e vere e proprie società finanziarie.
Il contrabbando praticato da Louis Mandrin è da ascrivere a forme di ribellione contro un
fisco esoso dove una parte dei tributi riscossi non andavano nelle casse dello Stato
ma servivano ad arricchire gli appaltatori. La rivolta contro l’esosità del
sistema di riscossione dei dazi trovava consensi non solo tra le masse popolari
ma tra la stessa aristocrazia, questo per dire come la pressione fiscale ha
sempre rappresentato un fattore di criticità in qualsiasi epoca. Tra le riforme
propugnate durante l’Età dei Lumi c’è ad esempio l’eliminazione dei dazi
interni presenti negli Stati dell’epoca. Le Monarchie settecentesche iniziano
ad essere consapevoli che per aumentare il gettito fiscale bisognava creare le
condizioni favorevoli agli investimenti e agli scambi all’interno del proprio
Stato. Esempi particolarmente significativi in tal senso sono i provvedimenti
adottati nei domini degli Absgurgo – Lorena. In sostanza le classi dirigenti
dell’epoca si rendono conto che la leva fiscale poteva essere uno strumento per
far crescere la ricchezza nazionale e quindi, appunto, il gettito fiscale per
far fronte ai sempre maggiori compiti
che lo Stato aveva. Il ‘700 è un secolo di guerre: Guerra di Successione
Spagnola, Guerra di Successione Polacca, Guerra di Successione Austriaca,
Guerra dei sette anni, queste sono solo alcune delle guerre combattute in quel
secolo. I conflitti bellici dati i costi per il mantenimento degli eserciti richiedono
risorse, da qui la necessità di creare un sistema di prelievo fiscale stabile,
costante e razionale. Dalla necessità di procurarsi sempre nuove e maggiori
risorse l’esigenza di approntare politiche economiche e finanziarie adeguate
capaci di far crescere la ricchezza dello Stato. Al nuovo approccio contribuì
la nascita delle Scienze Camerali, da questo corso di studi iniziarono ad
uscire i burocrati che diedero forma allo Stato moderno.
Con la Rivoluzione lo Stato
moderno acquisisce la qualità di Liberale e Costituzionale. A dare una scorsa
alle Costituzioni ottriate dei primi dell’’800 si evince come il diritto di
proprietà e quindi il pagamento dei tributi sono fondamentali per vedersi
riconosciuti i diritti politici, ossia di potere essere eletto al Parlamento e
di poter votare. In Italia il primo Parlamento dell’allora Regno d’Italia venne
votato dai soli cittadini maschi che avevano 25 anni di età e pagavano non meno
di 40 lire l’anno di tasse. De Pretis nel 1881 abbassò l’età portandola a 21
anni purchè sapesse leggere e scrivere o che pagasse almeno 19,80 lire di
imposte annue. Il passaggio dallo Stato Liberale, legato alla proprietà e alla
possibilità di pagare un certo livello di imposte fiscali; allo Stato Democratico
avviene con il suffragio universale, prima riservato solo agli uomini
successivamente anche alle donne. Con il suffragio universale il godimento dei
diritti politici non è più legato alla proprietà posseduta e alle tasse pagate
ma al semplice avere la Cittadinanza dello Stato di appartenenza. La differenza
di fondo tra Liberali e Democratici rispetto all’esercizio del diritto di voto
è che per i primi l’elettorato attivo dovesse spettare solo a coloro che in
quanto proprietari sono interessati alla conduzione dello Stato il quale, tra i
vari compiti, deve avere come principale la difesa della proprietà privata. Per
i Democratici il diritto di voto e la possibilità di essere candidato non
dipende più dalla ricchezza e dalla quantità di tasse pagate ma dall’essere
riconosciuti come cittadini appartenenti a quello Stato, è la nazionalità come
il sesso e l’età gli unici requisiti per poter godere dei diritti politici. Il
salto è enorme e segna anche la trasformazione dello Stato da Liberale in
Democratico, anche con l’ampliamento delle funzioni di Stato Sociale.
Questo processo si arresta negli
anni ‘70 del ‘900 quando la crisi economica di quegli anni pone fine alle
politiche economiche e finanziarie attuate fino ad allora. Sono gli anni della
stagflazione, della “crescita a somma zero”, della crisi petrolifera, della
fine degli accordi di Bretton Woods, della “crisi fiscale dello Stato”. Fino a
quegli anni le politiche economiche ispirate da Keynes avevano reso accettabile
il combinato spesa pubblica in deficit, ampliamento della funzione sociale
dello Stato, aumento della pressione fiscale ai fini dello sviluppo e della
piena occupazione. In quegli anni il sistema si rompe, la spesa pubblica in
deficit non favorisce la crescita e in più la crescita dei prezzi alimenta l’inflazione.
Si verifica qualcosa di inedito,
l’economia è in stagnazione e nel contempo cresce l’inflazione, da cui
il termine stagflazione.
L’aumento della pressione fiscale
da parte dello Stato a fronte della persistente inflazione e stagnazione porta
in auge il Liberalismo delle origini. Lo Stato deve ridurre le sue funzioni,
privatizzazione degli asset pubblici e riduzione della pressione fiscale
diventano gli argomenti principali della campagne elettorali. A partire da Thatcher
e da Reagan la pressione fiscale inizia ridursi. Ad ispirare le politiche
economiche sono le teorie economiche monetariste e marginaliste. Tra le varie
teorie economiche che ispirano il nuovo corso c’è la supply – side
economics. Esponenti di tale teoria
economica sono Robert Mundell, Jude Wanniski
e Arthur Laffer. La supplì – side economic elaborata negli anni ‘70 diventata il
mantra che domina le scelte politiche a partire dagli anni ‘80. In particolare
è la “ curva di Laffer” a rappresentare la supply – side economics. L’idea di
fondo di tale teoria è che esiste un livello di tassazione oltre il quale si è
disincentivati a produrre e a lavorare
di più. Per cui la soluzione alla crisi è ridurre la pressione fiscale a carico
dei cittadini, in modo da liberare risorse utili alla crescita e all’occupazione.
Nonostante le critiche tale teoria continua ad ispirare le politiche economiche
dei governi attuali. Le rivendicazioni della Lega circa la richiesta di una maggiore autonomia rispetto allo Stato
centrale si inserisce nel percorso avviato negli ‘70 con il ritorno in auge del
Liberalismo che si coniuga, data la sua duttilità, con istanze localiste e
nazionaliste. Il Liberalismo finisce con il coniugarsi alla perfezione con
l’idea delle “Piccole Patrie” teorizzata dalla “Nouvelle Droit” francese. La
Globalizzazione da una parte e la nascita dell’Unione Europea dall’altra finiscono
con l’assecondare le istanze autonomiste e indipendentiste. La Globalizzazione
richiede nuove risorse finanziarie per poter competere sui mercati
internazionali, l’U.E. nascendo come “
Europa delle Regioni” in funzione del superamento degli Stati nazionali
asseconda le istanze localiste. In questo quadro la Padania, parte più
sviluppata dell’Italia, per fare fronte alle esigenze del mondo imprenditoriale
pone con forza la questione autonomista. Inizialmente per bocca del suo teorico,
il politologo Gianfranco Miglio, più che autonomia si parlava di indipendenza
della Padania. Le regioni del nord, essendo quelle più ricche e sviluppate,
sono quelle che contribuiscono maggiormente alle entrate fiscali dello Stato.
Come si evince dalle dichiarazioni degli esponenti politici della Lega, più in
generale del Nord, le rivendicazioni di maggiore autonomia ruotano attorno al
cosiddetto “ residuo fiscale”, ossia la differenza tra tutte le entrate fiscali
che le amministrazioni pubbliche prelevano da un determinato territorio e le
risorse che in quel territorio vengono spese. Nel caso delle regioni esso è
dato dalla differenza tra i tributi pagati e le spesa pubblica ricevuta sotto
forma di trasferimenti e/o servizi pubblici.
La Lega e le regioni del Nord rivendicano che le risorse finanziarie
legate alla riscossione dei tributi rimangano a loro. E’ difficile non
considerare le rivendicazioni autonomiste concretizzatesi nell’attuazione del
Titolo V della Costituzione con la legge
26/06/2024 n. 86 come una sorta
di “rivolta fiscale”. Ad avere introdotto il concetto di residuo fiscale è
stato l’economista americano J.M. Buchanan, tale concetto è stato ripreso dal
sociologo Luca Ricolfi il quale ha calcolato che il residuo fiscale positivo
delle regioni del nord fosse tra i 50 e gli 80 miliardi, quello delle regioni
meridionali negativo si attesti tra i 41 e i 79 miliardi di euro. In merito ci
sono diversi studi in aggiunta a quello di Ricolfi, studi elaborati dalla CGIA
di Mestre, dall’istituto Eupolis, dalla Fondazione Agnelli. Interessante sul
tema è lo studio pubblicato da Gianfranco Viesti sulla rivista EyesReg. Vol. 9
N. 1 gennaio 2019 dal quale appare chiaro la difficoltà nel definire in
concreto l’ammontare del “residuo fiscale”. Al netto delle questioni economiche
e dei dati statistici , le rivendicazioni autonomiste delle regioni
settentrionali sono da ascrivere ad un ritorno tout court allo Stato Liberale
delle origini reinterpretato alla luce della Globalizzazione. Il contesto
culturale dell’epoca vede il ritorno in auge delle teorie contrattuali dello
Stato, penso a Rawls, Scanlon, Nozick, in Italia gli studi del filosofo Veca
con la riscoperta del contrattualismo kantiano sulla scia della teorica di
Rawls. In economia è il ritorno alla legge dell’offerta di Say, l’idea del
mercato capace di autoregolarsi. Gli anni ‘70 segnano l’inizio di un percorso
che rappresenta un salto indietro nella Storia che, come auspicato da von
Hayeck, ci riporta a prima del 1848.
Ho cercato di evidenziare, in modo sintetico per cui non esaustivo, come le rivoluzioni che hanno determinato la nascita del moderno sono fondamentalmente rivolte fiscale a difesa del diritto di proprietà privata. Le teorie contrattuali dello Stato hanno dato un contributo fondamentale ai fini della definizione delle relazioni tra Stato e Sudditi fornendo il supporto per la definizione dello Stato Liberale. La trasformazione dello Stato da Liberale in Democratico avviene scindendo l’essere cittadino che gode dei diritti politici attivi e passivi dallo status di proprietario. La crisi fiscale dello Stato porta con se la crisi della Democrazia fondata sul principio di uguaglianza e il ritorno al Liberalismo delle origini. Concludendo sul tema del Regionalismo differenziato la soluzione è di ordine politico ed implica necessariamente il superamento del modello Liberale egemone con il ritorno allo Stato Nazionale come solo ed unico garante della Democrazia fondata sull’Uguaglianza dei Cittadini.