La libertà è la forza immanente della storia

La storia vissuta umanizza

La libertà è “la forza immanente della storia”, alla serrata chiamata orwellianamente lockdown, è necessario contrapporre dialetticamente la libertà. Si sperimenta l’addomesticamento del gregge, le parole sono sostituite dai belati mediatici con cui ottenere il depotenziamento concettuale generalizzato. La facilità con cui tali provvedimenti penetrano denuncia che il pirronismo nichilistico omnicomprensivo favorisce forme di illibertà inedite.  La “psicomachia[1]” del potere ha utilizzato il relativismo nichilistico per debellare ogni resistenza e proclamare la “fine della storia”. Solo in questo contesto è possibile proporre uno scudo penale per le eventuali colpe dei dirigenti sanitari che hanno commesso  “errori” in tale urgenza sanitaria covid-19: la gerarchia è tutto, la vita è nulla. Senza fondamento veritativo l’essere umano è cosalizzato, reso ente senza memoria e pertanto dominabile.  Il relativismo penetra nella psiche, la destabilizza, rende il soggetto oscuro a se stesso con la conseguenza che si ritira nel privato e non crede a verità alcuna, e dunque “tutto accade” secondo automatismi che offendono la dignità delle persone. Senza fondamento veritativo la resistenza diviene difficile, ma non impossibile. Dinanzi a tali circostanze è necessario ripensare la libertà nella storia. La forza plastica per pensare il presente può provenire dalla storia e dai suoi eroi.

Gramsci (Ales22 gennaio 1891 – Roma27 aprile 1937) ci insegna che la storia è un atto di libertà e resistenza. Gramsci resta fedele al suo destino, alla sua formazione marxiana, per cui la storia non è fatalmente iscritta secondo leggi scientifiche, ma in essa opera il possibile storico, ovvero gli esseri umani possono cambiare la storia nelle circostanze e nelle potenzialità del periodo storico vissuto.  La storia umanizza, poiché il soggetto della storia, l’umanità, impara a mediare le circostanze con il progetto ideologico nel partito, per Gramsci agorà dell’incontro dialettico e motore della storia. La libertà emancipatrice è nell’atto di porre la storia, nella decisione collettiva che dinamizza le potenzialità e  le contraddizioni storiche per rimettersi in cammino[2] :

L’utopia consiste infatti nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti. L’utopia è il filisteismo, quale lo sbeffeggia Enrico Heine: i riformisti sono i filistei e gli utopisti del socialismo, come i protezionisti e i nazionalisti sono i filistei e gli utopisti della borghesia capitalistica. Enrico von Treitschke è l’esponente massimo del filisteismo tedesco (gli statolatri tedeschi ne sono i figli spirituali), come Augusto Comte e Ippolito Taine rappresentano il filisteismo francese, e Vincenzo Gioberti quello italiano. Sono quelli che predicano le missioni storiche nazionali, o credono alle vocazioni individuali, sono tutti quelli che ipotecano il futuro e credono imprigionarlo nei loro schemi prestabiliti, che non concepiscono la divina libertà, e gemono continuamente sul passato perché gli avvenimenti si sono svolti male. Non concepiscono la storia come sviluppo libero — di energie libere, che nascono e si integrano liberamente — diverso dall’evoluzione naturale, come l’uomo e le associazioni umane sono diversi dalle molecole e dagli aggregati di molecole. Non hanno imparato che la libertà è la forza immanente della storia, che fa scoppiare ogni schema prestabilito. I filistei del socialismo hanno ridotto la dottrina socialista a uno strofinaccio del pensiero, l’hanno insozzata e s’infuriano buffamente contro chi, a loro parere, non la rispetta”.

 

Agire e credere

La storia non è scritta per sempre, non è terminata come affermano i cantori della fine della storia. Il capitalismo assoluto vorrebbe convincerci che la storia termina con il trionfo indiscusso dell’essere umano valutato dal mercato. E’ la tragedia del tempo presente: gli esseri umani sono parte integrante del mercato, sono sul mercato che in quanto divinità terrena li valuta secondo i soli parametri economici. Gramsci  ci invita a riflettere sul valore dei nostri pensieri che si mutano in azioni. Se si valuta il mercato come intrascendibile è inevitabile che la storia diventi luogo e tempo senza alternative,  ma se si pensa al mercato con le sue contraddizioni, se lo si giudica in modo assiologico convinti che il presente non è tutto le alternative sono percorsi potenzialmente percorribili. In tal modo nel quotidiano  entra la resistenza civile e politica senza le quali ogni prassi è impossibile. Le nostre decisioni divengono azioni, hanno un impatto sul reale, mettono in moto processi di cambiamento o conservazione. “La fine della storia” con la sua propaganda ideologica, di difesa degli interessi di pochi contro i molti precarizzati, cela il timore di questa consapevolezza. Le tecnologie sempre più invasive ed invisibili hanno il fine di inibire processi decisionali critici e collettivi, poiché essi possono deviare dal cammino prestabilito dell’economicismo dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche nella Gaia Scienza (aforisma 125). L’ultimo uomo non urla nel mercato, ma è abitato dal mercato, Gramsci nei suoi scritti e con la sua vita testimonia che l’ultimo uomo non è tutto, l’essere umano può ancora resistere e proporre un altro modo di vivere ed esserci. Gli avvenimenti della storia dipendono dalla decisione dei molti, le circostanze offrono possibilità progettuali e non necessità uniche ed iscritte nel tessuto nella storia:[1]

Chi non aspetta, ma vuol subito fissare un giudizio definitivo, si propone altri scopi: scopi politici attuali, da raggiungere tra gli uomini ai quali si rivolge la sua propaganda. L’affermare che Lenin è un utopista non è un fatto di cultura, non è un giudizio storico: è un atto politico attuale. L’affermare, cosí seccamente, che le Costituzioni politiche, ecc., ecc., non è un fatto dottrinario, è il tentativo di suscitare una certa mentalità, perché l’azione si diriga in un modo piuttosto che in un altro. Nessun atto rimane senza risultati nella vita, e il credere in una piuttosto che in un’altra teoria ha i suoi particolari riflessi sull’azione: anche l’errore lascia tracce di sé, in quanto divulgato e accettato può ritardare (non certo impedire) il raggiungimento di un fine. È questa una prova che non la struttura economica determina direttamente l’azione politica, ma l’interpretazione che si dà di essa e delle cosí dette leggi che ne governano lo svolgimento. Queste leggi non hanno niente di comune con le leggi naturali, sebbene anche queste non siano obiettivi dati di fatto, ma solo costruzioni del nostro pensiero, schemi utili praticamente per comodità di studio e di insegnamento. Gli avvenimenti non dipendono dall’arbitrio di un singolo, e neppure da quello di un gruppo anche numeroso: dipendono dalle volontà di molti, le quali si rivelano dal fare o non fare certi atti dagli atteggiamenti spirituali corrispondenti, e dipendono dalla consapevolezza che una minoranza ha di queste volontà, e dal saperli piú o meno rivolgere a un fine comune dopo averle inquadrate nei poteri dello Stato. Perché gli individui, nella loro maggioranza, compiono solo determinati atti? Perché essi non hanno altro fine sociale che la conservazione della  propria integrità fisiologica e morale: cosí è che si adattano alle circostanze, ripetono meccanicamente alcuni gesti i quali, per la esperienza propria o per l’educazione ricevuta (risultato delle esperienze altrui), si sono dimostrati idonei a raggiungere il fine voluto: poter vivere”.

 

A scuola di atomismo

La scuola è uno dei luoghi in cui la coscienza si forma, essa è pertanto deputata alla prassi. Gli esseri umani sono esseri pensanti, se li si forma alla loro verità di persone pensanti comprendono pienamente la loro natura veritativa e le circostanze materiali e strutturali che li vogliono fruitori passivi della storia, oggetti delle circostanze senza voce e senza intelletto. A scuola si impara a dare forma alla propria natura nella storia, ad essere comunità. L’attacco a cui è sottoposta la scuola denuncia il timore che la scuola possa essere luogo istituzionale, in cui si pensa il presente per immaginare e teorizzare un futuro differente. Negli ultimi anni l’odio del capitalismo assoluto verso la comunità si è trasformato in proposte didattiche per trascendere la classe scolastica. Le classi itineranti ed oggi le piattoforme a sostegno della Dad  sono l’ultimo espediente didattico per educare alla globalizzazione, non vi dev’essere luogo alcuno dove incontrarsi, conoscersi e parlarsi, ma gli alunni devono essere “formati” ed all’atomizzazione ed  al movimento continuo su cui fondare la normalità del suddito globale e del precario globalizzato, dove vi è atomismo non vi è storia[1]:

E abbiamo visto intorno a noi, affollati, stretti l’uno all’altro nei banchi scomodi e nello spazio angusto, questi allievi insoliti, per la maggior parte non piú giovani, fuori quindi dell’età in cui l’apprendere è cosa semplice e naturale, tutti poi affaticati da una giornata di officina o di ufficio, seguire con l’attenzione piú intensa il corso della lezione, sforzarsi di segnarlo sulla carta, far sentire in modo concreto che tra chi parla e chi ascolta si è stabilita una corrente vivace di intelligenza e di simpatia. Ciò non sarebbe possibile se in questi operai il desiderio di apprendere non sorgesse da una concezione del mondo che la vita stessa ha loro insegnato e ch’essi sentono il bisogno di chiarire, per possederla completamente, per poterla pienamente attuare. È una unità che preesiste e che l’insegnamento vuole rinsaldare, è una vivente unità che nelle scuole borghesi invano si cerca di creare. La nostra scuola è viva perché voi, operai, portate in essa la miglior parte di voi, quella che la fatica della officina non può fiaccare: la volontà di rendervi migliori. Tutta la superiorità della vostra classe in questo torbido e tempestoso momento, noi la vediamo espressa in questo desiderio che anima una parte sempre piú grande di voi, desiderio di acquistar conoscenza, di diventare capaci, padroni del vostro pensiero e dell’azione vostra, artefici diretti della storia della vostra classe”.

 

A scuola di antiumanesimo

L’alienazione è ciò che persegue il capitalismo assoluto. Le scuole sono divenute simili alle fabbriche descritte da Gramsci, in cui si impara con la ripetizione del gesto a subire la storia, a normalizzare la quotidiana mortificazione dell’alienazione. Nelle fabbriche è il mezzo ad essere il protagonista, nelle scuole il didatticismo ha posto la centralità dell’uso e non dei fini formativi. Le scuole all’epoca del capitalismo assoluto insegnano a percepire e pensare il mondo secondo la forma del mercato mediante la ripetizione ossessiva e continua di parole che divengono azione: competizione, successo formativo, credito e debito. Al gesto ripetitivo della fabbrica si è sostituito un mondo di parole ripetute in modo automatico al fine di omologare  e ridurre ogni prospettiva al solo mercato globale e precario. Ci si autopercepisce come enti da mettere sul mercato. Esso  decreta il valore monetario di ciascuno. Si attacca la scuola come ogni luogo in cui si può radicare la comunità. La lotta ha la sua genetica materiale nella condivisione dello spazio e del tempo. L’introduzione del lavoro generalizzato e della scuola a casa smantella le condizioni per l’incontro e la condivisione politica[1]:

La classe operaia si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente. La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale? Quanto piú il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto piú sente l’indispensabilità dei compagni, tanto piú sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto piú sente la necessità dell’ordine, del metodo, della precisione, tanto piú sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora; tanto piú sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema di rapporti che lega una fabbrica a un’altra, una città a un’altra, una nazione a un’altra nazione”.

                                         

La solitudine del cittadino globale

Gramsci dinanzi all’alienazione planetaria propone come modello alternativo: i consigli di fabbrica, i soviet, poiché solo partendo da un’organizzazione e da un’associazione dal basso è possibile stabilire finalità che non siano esclusivamente monetarie. I consigli di fabbrica con cui la Rivoluzione russa è iniziata sono per Gramsci il luogo dove riorganizzare il vivere sociale secondo finalità veritative, umane e disalienanti. Gramsci oppone al consiglio di fabbrica il sindacato che invece ha una funzione conservatrice, di mediazione tra il capitale ed i lavoratori, in tal modo è parte del sistema di conservazione ed alienazione. Il sindacato è parte della forma mentis del capitalismo, poiché riduce le tensioni tra il capitale ad i lavoratori al solo aspetto salariale[2]:

“Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la società comunista. Poiché il Consiglio nasce dipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un cozzo tra le due istituzioni. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa sua attività. Alla vita del sindacato partecipa un numero ristrettissimo di organizzati; la forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche una debolezza che non può essere messa alla prova senza gravissimi pericoli. Se d’altronde il sindacato poggiasse direttamente sui Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire in ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l’azione risolutiva della guerra di classe. Il sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia. Se gli organizzati stabiliscono nel sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della rivoluzione operaia e non come una servitú verso il capitale, questa disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio, diverrà la forma naturale dell’azione svolta dal Consiglio”

La cultura dell’astratto è l’essenza del capitalismo, le persone  sono trasformate in atomi abitate dal pensiero computazionale. Alla cultura dell’astratto è necessario opporre la concretezza della comunicazione, della messa in comune di idee ed esperienze. Nella storia non vige la linearità causale, ma in essa si esplicano i possibili. La scommessa su un futuro altro rispetto al presente implica, in questo momento, la scommessa che l’impegno di ciascuno possa avere effetti non calcolabili. L’impegno dei singoli in comunione di intenti può mettere in moto energie sopite e sconosciute agli stessi, in un periodo storico caratterizzato da un’apparente “palude storica”, è fondamentale testimoniare un altro modo di “esserci” dinanzi alla barbarie dello spirito che sembra avanzare.

                                          

[1] Psicomachia dal greco al greco ψυχή anima e μαχή lotta

[2] Antonio Gramsci Scritti politivi Liber Liber volume I 2008 pag. 101

[3] Ibidem pp. 99 100

[4] Antonio Gramsci Scritti politici Liber Liber volume II 2008 pag. 47

[5] Ibidem pp 55 56

[6] Antonio Gramsci Liber Liber volume III 2009 pag. 76

Universale inganno e verità

1 commento per “La libertà è la forza immanente della storia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.