La favolosa poesia di Mario Martone.

Della traduzione cinematografica di Giacomo Leopardi.

 L’impresa tentata era ardua: può la sintassi cinematografica “complessamente poetica” affrontare e mettere in immagini la sofferta poesia (“gelida e acosmica” secondo la stroncatura di don Benedetto Croce) di Giacomo Leopardi? Può quella evitare un “discorso sopra Leopardi”, un’interpretazione, ovvero una “meta-poesia”, una poetica impropria?

Il giovane favoloso” è un capolavoro: perché riesce in questo intento di accompagnarci nella poesia e perché rinnova un modo realista di avvicinamento alla storia -biografica e collettiva-, con il rispetto sapiente del detto da altri.

Segnalo, per onestà, che ho un grande pregiudizio positivo nei confronti di Martone, del suo cinema che si confronta con la storia difficile d’Italia –via Napoli e ben dentro la “quistione  meridionale”- ma che sa maneggiare strumenti “filologici” e “tecnici” in grado di avvicinarlo alla narrazione realista di Luchino Visconti e alla ricerca attorno all’ottocento dei fratelli Taviani. Insomma il cinema alto e civico, quello che pone prima l’oggetto che le smanie narcisistiche del regista, quello che ha la fissazione mistica del presente-reale da filmare e non la prospettiva filistea del botteghino, del premio, della benevolenza della corporazione. Questo spirito di servizio, questa posizione morale, d’altra parte è il presupposto affine che spiega l’empatia di Martone nell’accostarsi al delicato universo leopardiano.

 Traduzione

“Il giovane favoloso” è un’attenta “traduzione” da una lingua ad un’altra. Traduzione arte decisiva e fondamento del concetto di umanità, come continuità, come eterno possibile rileggere se stessa,  come autocoscienza pubblica. Boccaccio e Petrarca completano la traduzione latina dei poemi omerici e Vincenzo Monti quella in italiano, gli uni e l’altro avvieranno momenti di rinascita. Ancora nel 900 quando Cesare Pavese traduce “Moby Dick”, Achab ci viene incontro, ci investe della sua follia teologica. Il traduttore si pone in un dialogo di alienazione verso l’autore e di donazione verso il pubblico, in mezzo deve esserci la sua sapienza nutrita di conoscenze “storiche” e sensibilità – sensualità diremmo con il gran recanatese – “sociali”.  Ad un certo punto del film c’è Giacomo che traduce versi omerici dell’Iliade e con decisione propone una soluzione semantica contro le cautele del padre Monaldo; più avanti sfida, da sensista qual è, l’insufficienza della pura filologia, come liturgia, a cui lo si voleva condannare nella carriera ecclesiastica.

 

Martone traduttore filmico di Leopardi che, a sua volta, è traduttore poetico della sua gabbia-biblioteca, cioè traduttore di una civiltà intera. Traduzioni, davanti la finestra aperta e assolata sull’angusto banco dove lo straordinario Elio Germano si arrotola nella sofferenza di far baciare la piazza del “Sabato” e del “dì di festa” e la finestra di Silvia con le cose eterne che andava leggendo. Sequenze iniziali, queste, di intenso contrasto connotativo tra la splendida biblioteca di Palazzo Leopardi dove sono ordinati i monumenti letterari e il deformarsi del corpo di Giacomo, traduttore verso l’esterno. Una foto forte del film è Giacomo accucciato su di un quaderno sul tavolo con lo sguardo fisso sulla penna (strumento traduttivo), schiacciato quasi da questo suo tentativo titanico di far dialogare la vita “bifolca” che passava “al di là” della finestra con l’erudizione “al di qua”, rappresentata, con ripetute sequenze, dal quieto e ortopedicamente composto leggere dei fratelli.    

 Dialettica paterna

 Dunque la fedeltà filologica al personaggio parte dal riconoscimento della specifica “prassi” – il fare e lo scegliere – del ragazzo de “lo studio matto e disperatissimo”, che si consuma in quella Biblioteca e nel rapporto con Monaldo. Nell’affrontare il fondamentale rapporto con il padre, Martone è perfetto e ciò permette l’apertura dialettica del “merito” del film, lo sguardo sulla poesia. Il padre non è il banale tiranno, il padre possessivo  ma è “l’autorità degli antichi, sopra i moderni”. Con Leopardi si dovrebbe sempre avere la decenza di abbandonare le formulette della psicologia dei rotocalchi e le giustificazioni della sociologia dei politicanti, la melma del politically correct. Monaldo avvia Giacomo alla biblioteca, ad un monumento che lo schiaccerà ma affascinandolo. In fondo Monaldo è un altro traduttore che Giacomo sceglierà e come dirà nella scena inquisitoria, amerà. Ma l’amore non è adulazione del tiranno e la traduzione non è feticizzazione della “parola” in definitiva serve per giungere alla “cosa”, alla ricerca della felicità. Per questo Giacomo si ribella, tenta di fuggire, non riesce, poi va senza più opposizione del padre. Tra i due c’è un legame forte, classico e “classicista”, un legame “polare” metafora dell’origine della polarità della filosofia leopardiana tra ragione e sentimento. Ci sarebbe da chiedersi come mai ora, invece, si preferiscano relazioni di dipendenza debole e di protezione giustificativa, di reciproca irrisolutezza ma è più importante il pensiero e le opere di Leopardi al centro del film.

 “Tensione all’infinito”

L’infinito è il cuore della filosofia anzi della “antropologia leopardiana” come, a ragione, sottolinea Cesare Luporini nel suo insuperato e magistrale  saggio Naufragio senza spettatore dedicato alla lirica cui rimando integralmente al link http://www.angolodelprof.altervista.org/materiali/Naufragio_senza_spettatore.pdf.

Come è reso – come è tradotto – da Martone?

Con tre momenti:

1) accenno, quasi all’inizio del film e poi ripresa introducendo la lettura dei versi di un movimento di macchina leggerissimo, una cenno di panoramica verticale (probabilmente con dolly) in soggettiva con il quale ci troviamo a sbirciare da “quest’ermo colle” superando in altezza “questa siepe, che tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Qui è la genesi della passione incontenibile, la “tensione all’infinito” (Cesare Luporoni). Questo è il momento specifico della poesia filmica, ciò che traduce il concetto leopardiano ed il suo pregio è l’ulteriore alleggerimento di parola. E’ un cenno!

2) la scena poi si sofferma, brevemente, sul “vento” – che “odo stormir tra queste piante”- che muove la boscaglia rumorosamente per poi sospendersi  silenziosa a rendere “quello infinito silenzio”. Come si ascolta l’infinito? Come si conosce l’infinito? Anche qui rinvio a Luporoni che vede nella enunciata esperienza sensoriale uditiva una superiorità rispetto alla visione, all’idein  platonico il “vedere idee” cioè “forme finite”. Questo secondo elemento filmico-poetico è didascalico indicando nell’ascolto il “modo di mediazione”  con il quale l’”io” può comparare le due voci: lo stormir\il silenzio.

3) Sospesi ad ascoltare, vengono ora declamati i versi ma con fuori campo sonoro. Alla sottrazione di parole, succede la poesia detta come sfondo e accompagnata dal primo piano su Germano, sugli occhi. Ai precedenti momenti di denotazione spaziale succede il tempo della lingua: ora gli occhi scrutano, cosicché  “mi sovvien l’eterno e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei”. Gli occhi e l’idea, l’ordine introdotto dal tempo, razionalmente, per suddivisione. Rimane inspiegabile, indivisibile “questa immensità” –“questa” appena “ascoltata” un esperienza di immensità non un concetto- e perciò “s’annega il pensier mio” ma l’annegare è esperienza “dolce”, sopravvivendo abbandonante la passione dell’ascolto.

 L’esperienza della morte

A A Silvia è completamente tradotto, il testo del Canto non è mai citato: il più struggente degli idilli giovanili è ricostruito in una successione di rapide sequenze, di cenni che conducono alla scena centrale. 1) Anzitutto, c’è la scena dove sbircia ne “le quiete stanze” che “sonavan” al canto di Silvia (nel film la giovanissima laureanda in scienze infermieristiche Gloria Gergo) una trasmissione sonora e udita di gioia. 2) In una successiva scena con  sguardo in soggettiva  al di la  della finestra la curiosità si precisa. Al di là dei “veroni del paterno ostello” il posarsi su di un essere umano della “tensione all’infinito” , con, anche qui, l’importanza preliminare dell’udire, “porgea gli orecchi al suon della tua voce”, ma ora precisato  dalla visione, dal gesto della tessitura, della “mano veloce che percorrea la faticosa tela” 3) Ciò conduce ad una scena in campo largo, ad una visione idilliaca d’assieme “il ciel sereno, le vie dorate…” dove il “Mirava” di Silvia diviene quello del poeta, condotto da canto + gesto della musa, alla interiorizzazione di questa armonia (“sentiva in seno”) di “pensieri soavi” e quindi di prospettiva (“che speranze, che cori, o Silvia mia!”) 4) a questo punto c’è il fugace, timidissimo, incontro tra i due nella piazza –a metà strada tra le due finestre \ due mondi- scena romanzata e introdotta dal plot filmico. Pochissime battute impacciate sugli impegni reciproci –il lavoro lo studio- che a mio avviso si ispirano ai versi “quale allora ci apparia la vita umana e il fato!” mentre il raccordo tra i due attraverso è “o Silvia mia!”. Giacomo voca il possesso della musa ma è lei termine e guida dello “acerbo e sconsolato” universo affettivo leopardiano.  Quella piazza-mediana regge una relazione “intra-umana” dove l’infinita passione (indefinita secondo Luporini) pare determinarsi nell’altro, nel volto soave della giovane interprete. 5) Ma quella possibilità è subito tolta e da quella finestra dove si udiva (attenzione sempre all’ascoltare) il canto ora si ode il tossire compulsivo di Silvia. Torna l’inumana fissità della natura ed evoca i celeberrimi versi “O natura, o natura perché non rendi più quel che prometti allor?”; quel volto, che nel film è ora trasfigurato dall’asfissia, interroga “perché di tanto inganni i figli tuoi?” 6) Silvia è morta, c’è lo strazio dei familiari e l’arcigna madre di Giacomo che con freddezza invita alla rassegnazione il padre della sventurata. Mentre la madre gira e ritorna nel palazzo,  Giacomo si slancia raggiungendo la misera stanza dove la ragazza viene deposta nella cassa. Qui si assiste ad un estremo rapporto tra i due: gli occhi impauriti di Giacomo dove “peria fra poco la speranza mia dolce”  incrociano un illusorio sbattito degli occhi di lei. Impaurito da questo gioco della sua immaginazione fugge. Quel movimento e quell’incontro estremo offrono a Giacomo la concreta esperienza umana della morte, il cui concetto aveva studiato in molte parole della sua biblioteca. Come potrebbe dire Heidegger, abbandonando il “si muore “ cioè il pubblico morire degli altri rappresentato dal saluto della madre, Giacomo tanto legato a Silvia può vedere anche la “propria morte”, o meglio essere spinto ad anticiparla.

 L’irrisolvibile dialogo con la natura

Mario Martone si è a lungo e di recente confrontato con la riduzione teatrale delle “Operette Morali”, con l’ambizione di volerle presentare tutte e 24 (ad esempio nell’occasione particolare della locandina). Nel film si rappresenta il Dialogo della Natura e di un Islandese, più precisamente un breve estratto verso la fine dell’operetta. Questo dialogo chiarisce prosaicamente le due precedenti esperienze poetiche attorno al limite e all’infinita passione e quella attorno alla morte umana. Germano sferzato dal vento pone l’interrogativo umano sulla felicità al gigante-leviatano della Natura che perde brandelli del suo corpo –il cui volto mi è sembrato assai somigliante a quello della madre: forse matrigna come la natura?- e dalla quale riceve la risposta celebre sull’indifferenza alle finalità degli umani [“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.”]. La drammatizzazione teatrale,  verbalizza   l’opposizione radicale dei due argomenti concettuali, mentre l’ambientazione filmica surreale di un lillipuziano umano che si impegna ad avanzare controvento di fronte ad un essere inumano, che pare non aver definizione disfacendosi indolentemente, rende corporea  l’antitesi tra volontà e meccanismo. Rispetto alla composizione soggettiva “idillica” –tutta nelle immagini del poeta- a cui giungono le due liriche, siamo ora di fronte ad una scissione tra due “oggetti”, ad un dialogo cercato ma irrisolvibile attraverso cui il giovane, che sta per lasciare Recanati, manifesta il suo dubbio lacerante. Verso la natura c’è un’attrazione conoscitiva ineliminabile (materialista-sensista) ma al contempo c’è la consapevolezza della sostanza differente del’umanità condizionata dal fine, dalla ricerca innaturale della felicità (romanticismo o idealismo?).

 Poema nostro

La ginestra conclude l’ardua impresa con un grande poema filmico. Certo, Martone sfrutta la sua “napoletanità” per costruire con sapienza l’ambientazione dell’epilogo, ma Napoli è anche il raccordo tra biografia e ottocento italiano, tra la sofferente ricerca di Leopardi e l’inizio del travaglio risorgimentale. Martone costruisce quasi tutti i passaggi della seconda parte del film come elementi per significare i giudizi contenuti nel canto e approdare alle sequenze conclusive, con lettura dei versi fuori campo.Di seguito si intende mostrare la corrispondenza tra la costruzione filmica e il testo del canto. 1) la scena dello scontro  al Gabinetto Vieusseux con l’ambiente letterario fiorentino, dove gli si preferisce il conformista Botta  e dove subisce la sprezzante stroncatura del Tommaseo  si ritrova nei versi tra 52 e 86. E’ introdotta, al verso 51, dal celebre “le magnifiche sorti e progressive” citazione ironica di un’espressione del  cugino Terenzio Mamiani appartenente proprio al  Gabinetto Vieusseux. 2) la critica della presunzione letteraria, della retorica giuliva che prosegue nei versi dall’87 al 125 si ritrova nella scena al caffè di piazza del Plebiscito quando Leopardi è accusato di pessimismo cronico derivante dalla sua deformità fisica. Con un contrappunto di poche scene successive Martone offre dello stesso caffè l’immagine desolata di un luogo abbandonato e sconvolto dal colera. 3) le  scene “manzoniane” del  colera, rinviano al lunga invettiva sulla cecità della natura versi 202/236 che contrapponendo il fatto della morte alla chiacchiera letteraria chiariscono la banalità della ricezione italiana dell’illuminismo.4) le stesse visioni notturne del degrado della plebe napoletana e l’avventura nel lupanario rinviano all’epigrafe giovannea del canto “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” denuncia del mancato impegno per la luce, per il rischiaramento, verso la nazione, verso il popolo tanto degli accademici fiorentini quanto dei perdigiorno napoletani.

5) tuttavia insieme alle tenebre Napoli offre la sua luce, il convivio fraterno con Ranieri e la di lui sorella  Paolina che nella cura come editori degli scritti di Giacomo mostrano di colmare in qualche modo il suo infinito desiderio d’affetto; questa fratellanza raccoglie quella enunciata nei versi 86/157 e simboleggiata nelle soleggiate scene sulla terrazza della villa di Torre del Greco dove, in piano “figura intera”, il poeta infermo è protetto da Ranieri, in campo medio, mentre, sul “campo lunghissimo”,  incombe “l’arida schiena del formidabil monte” (io-solo->noi-fratellanza->natura-ostile). 

Questo lungo preambolo costituisce lo sfondo, la larga veduta che conduce alle sequenze finali. In particolare articola l’allargamento della problematica leopardiana al piano storico: il confronto\scontro con i gruppi intellettuali italiani, la precisazione del suo illuminismo vicino al Voltaire del terremoto di Lisbona, il rapporto con la società complessa di Napoli allora una delle città più importanti d’Europa. Dalla coralità della scena sulla terrazza si  avanza sulla dorsale del Vesuvio e si giunge al particolare della pianta di ginestra. 1) I passi introduttivi (1/51) accompagnano lo sguardo sulla pianta e la pongono come simbolo di quella umanità umile capace di ricordare le sofferenze inferte dalla natura e tanto generosa da commiserare odorando quel deserto; tanto e dialetticamente opposta ai giulivi ottimisti  nei versi dal 37 al 51 di cui sopra. La narrazione filmica, guidata dai versi fuori campo, passa dagli intrecci umani, dalla descrizione dei caratteri, dalla presenza dei personaggi al lavoro su universali simbolizzati.  In altri termini, ai moduli melodrammatici, derivati dalla lezione di Visconti ed esplicitamente citati nella partecipazione ad un opera di Donizetti si passa ora all’intreccio sinfonico, al discorso magniloquente alla Terence Malik su elementi de-antropizzati  (ginestra\ cosmo\rovine). Dal punto di vista della poetica  in questo passaggio scompare l’io narrante umano -gli occhi di Germano- mentre ora narrante è la Ginestra, dal punto di osservazione della sua “favolosa” coscienza. Così Martone rende il carattere anti-idillico, anti soggettivo del canto.

2) Dall’obiettivo sul particolare del basso terrestre, dove sta la ginestra,  ci si sposta sulla visione aplissima, “magna”, cosmica e con progresso tendenzialmente infinito (dal globo->al sistema solare->alla galassia->alle stelle )  mentre vanno i celebri versi 161/201 aperti da “Seggo la notte”. Questo favoloso viaggio intergalattico richiama tre questioni: a) l’infinito “sentito”, ascoltato, nella lirica giovanile è ora ripreso ma con il tentativo di “oggettivarlo”. I versi come la fotografia del film, paiono richiamare il “De l’infinito universo et mundi” di Giordano Bruno, anche per il fine “relativizzante” del nostro mondo terrestre. b) “Il cielo stellato sopra di me” può evocare in noi anche l’intero epitaffio di Kant. ”la legge morale dentro di me”. Leopardi pur non conoscendo il filosofo pare condividere il giudizio sull’illuminismo come “aufklarung”, rischiaramento “stellare”, come dinamica critica inesauribile, piuttosto che sistema enciclopedico. Tuttavia la misura morale non cade in Leopardi interamente nell’io e il dovere non è un imperativo individualistico. c) il viaggio ci offre come in una dialettica istantanea la nostra ignoranza sulle stelle lontane e la loro indifferenza di “questo oscuro Granel di sabbia, il  qual di terra ha nome” dunque un reciproco limitarsi. C’è qualcosa dell’astronomia antica, della ricerca di un legge come proporzione limitante la presunzione umana. Soprattutto c’è il limite proporzionale del pensiero antico, il metron comunitario di Aristotele che è il modulo dell’Etica contro la Hybris, contro la sfrenata azione individualistica.

3) Dal cielo si torna alla terra dove il Vesuvio mostra tutta la sua forza nelle suggestive scene di eruzione (vv 202/236) e poi dei suoi effetti storici con la paura del “villanello” (vv237/268); infine con il discreto aggirarsi della camera tra le stanze delle rovine di Pompei (vv 269/296). La città distrutta pare non insegnare nulla, la Storia che gli uomini fanno non riesce ad essere intesa, perché parla solo di sconfitte inferte dalla natura; si direbbe ora è rimossa. Con meno presunzione il contadino che come la ginestra si aggira tra la terra pare ricordare e dunque prepararsi con umiltà alla nuova sconfitta. C’è una concezione della Storia naturalistica e ciclica, che conferma l’antiprogressismo, di contro al travisamento degli uomini che ritengono il loro pensiero “progredito” capace di farli fuggire alla forza della natura.

4) Adesso lo schermo si oscura, rimane la voce di Germano che declama gli ultimi 20 versi. Il buio, quel nulla dentro cui sta la “lenta ginestra”, la sua vita flessibile capace di donare ancor odore al deserto (nulla) capace di vivere fino alla fine e non di illudersi dell’immortalità, come l’uomo. Dunque “più saggia, ma tanto meno inferma dell’uomo” la ginestra nel suo stare umile è modello di conoscenza e di azione storica, cioè capace di dar senso al suo breve esistere circondata dalla lava nullificante. Nel buio si affoga ogni figura, ogni consolazione e si rimane con la parola purissima, che ci giunge. “Dentro di me” è tradotta e prodotta poesia come passione e ripenso, ora consapevole, al giudizio finale di Carlo Salinari, che tanto mi infiammò al Liceo: “Così si chiude la vicenda leopardiana. Così sul finire della sua vita, si rende esplicito quanto di nobile e di positivo si trovava al fondo del suo pessimismo e divine chiara la ragione per cui quel continuo negare i valori della vita produceva nel lettore l’effetto di rendergli quegli stessi valori sempre più cari. Non è un caso se i giovani che nel ’48 andranno sulle barricate per affermare la libertà e l’indipendenza dell’Italia lo considereranno un maestro; e non è un caso se FRANCESCO DE SANCTIS poteva essere sicuro che –qualora fosse vissuto fino al ’48- avrebbero avuto Leopardi al loro fianco, << confortatore e combattitore>>.       

3 commenti per “La favolosa poesia di Mario Martone.

  1. Fabrizio Marchi
    2 Dicembre 2014 at 21:42

    Ho visto ieri il film di Martone “Il giovane favoloso”.
    Non era facile realizzare un film su un personaggio della complessità e della grandezza di Giacomo Leopardi, e la mia opinione è che la (ottima) recensione scritta da Roberto sia di gran lunga superore al film, che comunque merita di essere visto.
    Non entro nel merito del film né tanto meno della straordinaria, bellissima e “terribile” poesia di Leopardi (cosa che sa fare sicuramente molto meglio d me, Roberto). Non ho il tempo materiale di farlo ora ma ci tornerò sicuramente anche perché sono sempre stato un suo grande estimatore gà quando ero sui banchi del liceo.
    Un punto solo vorrei sottolineare, e cioè la “inattualità” di Leopardi rispetto al suo tempo, o meglio allo spirito del suo tempo.
    Il film mostra come egli sia stato ostracizzato sia dai conservatori, cioè dalla Chiesa e dalle gerarchie cattoliche che lo osteggiavano per la sua “ideologia atea e materialista”, sia dagli ambienti liberali e progressisti emergenti dell’epoca che non vedevano di buon occhio la sua reiterata malinconia, il suo “pessimismo” radicale (concetti che gli vengono ripetuti fino allo sfinimento), la tragicità del suo pensiero, che ovviamente entravano in rotta di collisione con la loro concezione progressiva, progressista e “ottimista” del mondo, dell’umanità e delle sue “sorti magnifiche e progressive”.
    Questo è un aspetto, fra gli altri, che mi ha fatto riflettere e che ho voluto sottolineare; appunto l’ “inattualità” di Leopardi, il suo essere del tutto fuori dallo spirito (e dalle miserie e dagli spazi angusti) del suo tempo e l’aver pagato un prezzo molto alto per la sua coerenza.
    Naturalmente, come dicevo, bisognerebbe entrare nel merito, cioè nella immensa profondità del pensiero e della poesia leopardiana, il che è tutt’altro che facile.
    Proverò a tornarci con più tempo e calma.

  2. raffaella iannasso
    19 Marzo 2015 at 12:11

    Giovedi 12 marzo, in occasione di una conferenza sul film IL GIOVANE FAVOLOSO ad Arezzo, ho consegnato il uo bellissimo saggio sulfilm al regista Mario Martone che stamane mi ha contattato con queste testuali parole: “…ho letto con gioia il saggio sul mio film …la capacità di legare l’analisi della poesia di Leopardi al linguaggio del cinema è stupefacente , in particolare ho trovato stupenda la parte che riguarda La Ginestra, estesa con genio critico a tutta la parte napoletana.Conserverò con cura questo testo ele porgo i miei saluti affettuosi segnalandoti (dato il dialogo leopardiano)tra i riferimenti che per me sono stati importanti nella costruzione della parte che riguarda ‘ A Silvia’ , tutti da lei colti perfettamente , anche il canto ‘ IL Sogno’ i n cui c’è l’immagine della fanciulla morta che appare viva nel sonno del poeta, una poesia che lei certamente conoscerà, a mio avviso bellissima…”

    • Roberto Donini
      19 Marzo 2015 at 22:07

      Ti ringrazio pubblicamente per il lavoro di “comunicazione” che hai fatto con Martone che mi onora davvero tanto con le sue parole e di cui studierò i suggerimenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.