Le opinioni diventano dogmi nell’abitudine, il sistema capitale produce opinioni e materiali di consumo. La produzione di merci e delle opinioni sono poste sullo stesso livello. Sono sulla linea malinconica dell’irrilevanza. Se le opinioni sono merce da diffondere, vendere e consumare in funzione del dominio, il pensiero è solo merce, la res extensa è la legge che tutto guida ed appiattisce. L’abitudine alla società industriale necrotizza col pensiero critico la possibilità di immaginare una società alternativa, in cui la produzione si concretizzi in modo differente e specialmente il soggetto pensante sia “qualitativamente altro” rispetto alle merci. Per comprendere come si è materializzata l’omologazione tra merci e pensiero, non si può che analizzare la società industrializzata nella sua evidenza ed immediatezza. L’intera società è innervata dalla macchina, la fabbrica è diventata il paradigma con cui il dominio riduce le persone a cose, sottraendo l’autonomia soggettiva. Nel linguaggio comune le metafore macchinali sono diventate di uso comune: dare input, essere precisi come un computer, materiale umano, più veloce di una macchina ecc. Il linguaggio non è neutro, fonda rappresentazioni del mondo e specialmente costruisce l’autopercezione di sé. La comparazione introiettata con la macchina gradualmente ha portata il soggetto ad autopercepirsi come una macchina di carne che si distingue solo per il materiale dalle altre macchina. La medicina insegna che l’essere umano è una macchina, la natura è spiegabile secondo leggi macchinali prevedibili. L’intera società si è trasformata in un immenso opificio produttivo. La fabbrica non è gestita per gli esseri umani, ma essi sono parte dell’immenso apparato. Le oligarchie producono merci che trasformano in capitali con cui elaborare sistemi di controllo ed omogeneizzazione sempre più invisibili. La libera scienza è la costola dell’economia del controllo. Se il linguaggio è contaminato dal linguaggio macchinale al punto da impedire nella pratica quotidiana la distinzione tra il sé e la macchina che produce le merci, è inevitabile per il soggetto accettare la gestione della propria vita, la graduale e perversa sottrazione dell’autonomia e con essa della libertà. Quest’ultima è svuotata di ogni processo di autocoscienza, è solo meccanica capacità di operare, assenza di impedimento nello svolgere le proprie funzioni. La metariflessione sulle funzioni e sui fini è sostituita con la produzione, anzi il soggetto si autopercepisce come soggetto efficiente, se produce massimamente al pari delle macchine. Si compara con le macchine in una competizione che alla fine lo vedrà sconfitto e frustrato, ciò malgrado tale stato non è percepito nella sua chiarezza concettuale, poiché il soggetto come la macchina taglia il tempo in segmenti separati. Il disagio è vissuto in un tempo e in uno spazio astratto, cade la visione della totalità che permette allo scandaglio della ragione di individuare le ragioni ultime del disagio. Il dolore non è una breccia da cui si effonde la luce della ragione, non è ascoltato e vissuto fino a condurre al concetto, ma lo si affronta in modo macchinale. La falla viene riparata immediatamente con l’acquisto di nuove competenze sul mercato dell’educazione permanente, in modo da potersi nuovamente immettere nel mercato macchinale della produzione. Non a caso non vi è disprezzo più grande per la civiltà delle macchine che per gli improduttivi. Coloro che sono giudicati improduttivi: disoccupati, contemplativi, gli umanisti sono oggetto del pubblico disprezzo mascherato da tolleranza. Le relazioni umane e di coppia sono attraversate dal dogma della produttività ad ogni costo. Si immagini una coppia in cui a uno dei due per un accidente esistenziale sia impedita la produzione, normalmente il declino del legame si concretizza per il disprezzo verso l’improduttivo.
Comunismo e umanesimo
Tutto si perdona, ma non l’essere improduttivi, chi è improduttivo non accumula e consuma secondo il ciclo della macchina: una macchina inceppata è velocemente sostituita. La violenza corre lungo la linea del disprezzo che si esprime con la pubblica disapprovazione nel pubblico e con il linguaggio sprezzante coniugato dagli sguardi di rimprovero nel privato. Ancora oggi, gli uomini, sono oggetto molto più delle donne da tale violenza. Su tale violenza vi è una cortina di silenzio, poiché essa è la traccia con cui ricostruire la violenza implicita della contemporaneità. Tali pregiudizi sono tabu, perché essi potrebbero svelare che la ricostruzione mediatica attuale che ha quale causa di tutti i mali “il maschio violento”, è solo ideologia organica al potere. Il capitalismo produce vittime e carnefici, è intrinsecamente violento. La macchina è ovunque, siamo all’interno della prima società della storia umana che non usa le macchine per produrre beni per i bisogni autentici delle persone, ma il fare macchinale è diventato la sostanza che tutto guida. La soggettività in tale contesto è solo stereotipo omologato esattamente nello stesso modo con cui si omologano le macchine e le merci. Pensare ad un’alternativa è possibile e quasi eroico. La filosofia e la politica sono in una nuova fase eroica della loro storia: i resistenti non sono più bruciati come Giordano Bruno, ma sono ostracizzati e ridotti al silenzio, in più devono lottare interiormente contro il loro senso di inutilità e colpa nello svolgere attività gratuite, perché la macchina si è installata ovunque. Pensare ad un’altra temporalità storica è possibile: il primo gesto per uscire dalla fabbrica come prigione della mente e dell’anima è ritrovarsi negli autori, nei maestri che ci hanno preceduto, viaggiare tra le parole per impegnarsi a dare ad esse visibilità da cui rigenerare con nuova vita e forme di resistenza orizzontali e verticali. La politica per governare l’economia deve mettere in atto l’esodo dalla fabbrica come sistema per potersi riposizionare dinanzi ad essa. Il tempo presente, in tal senso, ci offre una miriade di possibilità con i mezzi mediatici. Si percepisce un disagio diffuso a cui bisogna dare le parole che il sistema ci ha sottratto. Siamo tutti chiamati a tale impegno quotidiano, ogni intervento anche minimo produce effetti che non possiamo valutare e che nell’insieme possono generare l’alternativa al sistema corrente. Il comunismo marxiano non è morto, perché esso è veicolo di riconciliazione ed emancipazione. Ripensare il comunismo senza dogmatismi e scuole di partito sclerotizzate nella religione “secondo Marx” è alternativa valida, poiché il comunismo ha quale centro l’essere umano e la liberazione dai rapporti di produzione che rendono la persona straniera a se stessa. Il comunismo del futuro ripensato collettivamente può essere la luce che ci guida fuori dall’oppressione della caverna del capitale nel cui buio tutto è eguale, tutto è irrilevante e ognuno è sostituibile come merce. Alla società della paura e dell’angoscia bisogna resistere non con l’oppio del consumo e dei tranquillanti, ma con la parola significante e progettante che porta a trascendere le cesure operate dal totalitarismo del capitale. Non più alienati, Entfremdung, stranieri a se stessi e alla storia (Fremd), ma nella storia. L’alienazione prima da superare è la scissione tra sè e la storia.
Fonte foto: Fabrizio Valenza (da Google)