Pubblichiamo il testo integrale della relazione del Prof. Antonio Martone, redattore de L’Interferenza, al convegno dal titolo “Una lettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo” promosso da L’Interferenza e dall’Associazione “Uomini e Donne in Movimento” e svoltosi a Roma sabato 15 marzo.
- Il femminismo di
Marcuse
Nel 1974, Herbert Marcuse formulava una
riflessione ambiziosa quanto al legame tra femminismo e trasformazione sociale:
“Io credo che
dobbiamo pagare per i peccati di una civiltà patriarcale e del suo potere
tirannico: la donna deve diventare libera di determinare la propria vita, non
come moglie, né come madre, né come amante o compagna di qualcuno, ma come un
essere umano individuale. Sarà una lotta fatta di scontri aspri, di tormento e
di sofferenza (psichica e fisica)”[1].
Perché Marcuse aveva scritto parole tanto
forti contro il patriarcato? Presto detto, per il filosofo tedesco il
femminismo non rappresentava soltanto un particolare movimento ma costituiva una
forza più generale, potenzialmente rivoluzionaria nella sua capacità di
contribuire alla liberazione dell’essere umano nella sua totalità. Nel fermento
politico degli anni Settanta, egli vedeva dunque nella lotta per l’emancipazione
femminile un elemento inscindibile da un più ampio processo di trasformazione
sociale.
Per rinforzare la sua tesi, egli infatti
aggiungeva:
“Le potenzialità, gli obiettivi del movimento di liberazione delle
donne si spingono però molto al di là di esso, in regioni impossibili da raggiungere
nel quadro del capitalismo, e di una società di classe. La loro realizzazione richiederebbe
un secondo livello, nel quale il movimento trascenderebbe il quadro nel quale
si trova ora ad operare. In questo stadio, ‘al di là dell’uguaglianza’, la
liberazione implica la costruzione di una società governata da un differente
principio di realtà, una società nella quale la dicotomia costituita tra il
maschile e il femminile è superata nei rapporti sociali e individuali tra
esseri umani”[2].
Secondo
questa prospettiva, pertanto, per la sua stessa dinamica, il femminismo non si
esauriva nelle lotte per l’uguaglianza formale, ma doveva mirare a una
ridefinizione radicale della società. Al di là del rapporto fra generi, vi era
l’essere umano nella sua essenza, ed era questa la vera posta in gioco della rivoluzione
femminista.
Tuttavia,
con il passaggio dagli anni Settanta ai decenni successivi, la realtà sociale
prese una traiettoria ben diversa da quella immaginata da Marcuse. Quando nel
1994 Christopher Lasch pubblicò il suo La
ribellione delle élite, il panorama socio-politico appariva ormai
chiaro: anziché opporsi alle logiche del capitalismo avanzato, il femminismo
aveva finito per legittimarle, contribuendo all’ascesa di una nuova élite perfettamente integrata nei
meccanismi di mercato. Mentre le lotte di classe erano progressivamente
marginalizzate, la dimensione comunitaria delle battaglie sociali si
dissolveva, sostituita da forme sempre più marcate d’individualizzazione.
Osservando
la società americana post-industriale, Lasch tracciava un quadro realistico
quanto disilluso:
“I nuovi movimenti – il femminismo, il movimento
per i diritti dei gay, quello per il diritto all’assistenza sociale e quello
contro la discriminazione razziale – non hanno nulla in comune tra loro, e la
loro unica rivendicazione coerente mira all’annessione nelle strutture
dominanti e non certo a una trasformazione rivoluzionaria delle relazioni
sociali”[3].
L’ideale
marcusiano di un femminismo rivoluzionario, parte essenziale di un cambiamento
sistemico, s’era dunque infranto, mostrando piuttosto una società atomizzata,
dominata dall’individualismo e dalla competizione. Ciò che Marcuse vedeva come
un passo verso la liberazione collettiva, per Lasch era diventato un ulteriore
strumento di frammentazione, funzionale alle logiche del capitale.
Chiediamoci allora come mai quello stesso femminismo che, nella prospettiva
di Marcuse, intendeva mettere in discussione il potere del capitale e della
tecnica, si sia trasformato in uno strumento di consolidamento del potere.
Espongo qui la mia tesi in maniera diretta e quasi brutale: il fallimento delle
speranze marcusiane era dipeso dal fatto che il francofortese aveva abbracciato
in modo
acritico la narrazione femminista, privandosi così della possibilità di
considerare le dinamiche concrete del sistema di potere del capitalismo. In
altre parole, prendendo posizione contro la “tirannia del patriarcato”, l’autore
di Eros e civiltà si era alienata la
possibilità di interrogarsi a fondo sulle ragioni dell’alienazione
capitalistica per venire a capo della quale è, non soltanto utile, ma
addirittura necessario, sottoporre a critica decostruttiva la stessa narrazione
femminista.
Vorrei
dunque delineare qualche schizzo di tale decostruzione.
- La narrazione storica del femminismo:
una visione monodimensionale
Come abbiamo
visto anche in Marcuse, uno degli assunti fondamentali della narrazione
femminista è l’idea che le società preindustriali e moderne fossero dominate dall’oppressione
del “patriarcato”. Tale resoconto storico, che non esito a definire ideologico,
ha finito per diventare un dogma che ha chiuso gli occhi su una realtà ben più
complessa, impedendo una lettura dialettica e sistemica delle dinamiche
storico-sociali. La
riduzione della disuguaglianza alla sola dicotomia tra maschile e femminile ha
oscurato il fatto che il dominio non è unidirezionale e che le dinamiche di
oppressione e privilegio si distribuiscono in modo articolato, intrecciandosi
con fattori economici, politici e culturali. Una lettura più attenta ed
equilibrata della vicenda storica, peraltro, potrebbe essere sostenuta dallo
stesso Foucault il quale, nella
sua riflessione sul potere, insiste su una definizione di esso che lo consideri
come un sistema diffuso – sorta di rete complessa che si sviluppa in tutte le
dimensioni della vita.
In
questa prospettiva, il femminismo ignora il ruolo che il femminile ha
esercitato nelle sfere della vita quotidiana, della cura, della riproduzione e
dell’educazione, ambiti essenziali nella formazione dell’individuo e nella
riproduzione delle strutture sociali. Così facendo, il femminismo stesso ha
finito per proporre una lettura semplificata che ha assolto le donne da
qualsiasi responsabilità strutturale e trasformato la questione dell’emancipazione
in un conflitto tra i sessi, anziché in una riflessione più ampia sulla natura
complessa del potere in ambito premoderno e moderno.
A una lettura più
attenta, risulta invece che, se è vero che molte società storiche sono state
segnate da strutture patriarcali, è altrettanto vero che il potere e le
opportunità di uomini e donne non dipendevano esclusivamente dal loro sesso, ma
erano fortemente influenzati dalla classe sociale, dallo status economico e dalle condizioni storiche specifiche. In molte
di queste società, le donne di alto rango (dapprima aristocratiche, poi
borghesi) condividevano i privilegi dei loro uomini, mentre gli individui di
sesso maschile appartenenti alle classi subalterne erano vittime della medesima
oppressione economica e sociale che toccava alle loro donne.
In un qualunque sistema
sociale, la divisione dei sessi non è altro che uno degli strumenti attraverso
i quali l’ordine sociale viene mantenuto, ma non è l’unico. La falsa visione
del patriarcato come nemico ha precluso alle femministe e ai loro sostenitori
uno sguardo sistemico sul potere di classe. La lotta contro il patriarcato, in
altre parole, ha finito per distogliere l’attenzione dalle strutture autentiche
di verità/potere che hanno modellato la condizione di subalternità degli
oppressi dal sistema.
- L’inconsistenza dei concetti di
privilegio e di oppressione
Il
concetto di “privilegio maschile” è ormai un tema centrale nelle teorie
femministe, ma un “patriarcato” fonte
di mero privilegio per gli uomini e
di mera oppressione per le donne, in
fondo, non è mai esistito. Oggi, tali elementi ideologici sono frequentemente
utilizzati per giustificare politiche discriminatorie come le “quote rosa” o
altre normative di favore per le donne. In realtà, lo stigma dell’oppressione
impresso sulla storia degli uomini è molto problematica e
del tutto antistorica. La moderna concezione di giustizia fondata sull’uguaglianza
non può essere applicata a strutture sociali che operavano secondo logiche profondamente
diverse, nelle quali la distribuzione
dei ruoli non era intesa come oppressiva, ma come parte di un ordine
funzionale di complementarietà. La divisione
sessuale del lavoro, piuttosto che riflettere una dinamica capitalistica
di sfruttamento, rispondeva in effetti a esigenze pratiche legate a quello che,
con termine moderno improprio potremmo definire, divisione del lavoro.
In un contesto storico in cui la gerarchia sociale era la norma, non
possiamo interpretare la subordinazione dei sessi attraverso la lente del
moderno concetto di dominio. Peraltro,
se ci rifacciamo al diritto romano e ad altre tradizioni antiche, la giustizia
non era sinonimo di uguaglianza
ma di equilibrio funzionale tra
le varie posizioni sociali. A ciascuno spettava il suo posto in una struttura
che, pur presentando asimmetrie evidenti, garantiva comunque un ordine sociale
che si basava sul rispetto di doveri reciproci. La donna, pur essendo
legalmente subordinata, non viveva necessariamente in una condizione di totale
impotenza, ma era parte di una rete di
doveri che prevedeva la protezione, l’assistenza e non era scevra dall’esercitare
un’importante influenza all’interno della dinamica familiare e sociale. Ogni ruolo, sia quello
dell’uomo sia quello della donna, aveva un’importanza vitale per la stabilità
sociale. La donna si occupava della casa, dell’educazione dei figli, della cura
degli anziani, contribuendo a mantenere il tessuto sociale e culturale, mentre
l’uomo si assumeva compiti che richiedevano una maggiore forza fisica e una
certa esposizione al rischio.
Quanto
poi all’altro concetto, ossia quello di privilegio maschile, vorrei dire subito
che esso è del tutto fuorviante quando non si considerino i costi di un qualsiasi
equilibrio sociale. La pratica femminista di applicare la logica del privilegioal contesto storico patriarcale rischia di escludere il sacrificio
che ha caratterizzato la vita storica degli uomini di tutte le epoche.
Nel
nostro contemporaneo, la continua invocazione del patriarcato come causa
principale della disparità di genere crea una cultura di colpevolizzazione
collettiva che minaccia il principio di uguaglianza reale. Questo approccio,
anziché promuovere una vera e propria emancipazione sociale, non fa che
rinforzare divisioni e conflitti funzionali alla conservazione e al
potenziamento delle strutture di potere esistenti.
Nel
contesto del capitalismo moderno, gli uomini e anche le donne sono stati ingabbiati
in una logica economica che li ha ridotti a ingranaggi del sistema. Il loro
valore è stato commisurato esclusivamente in base alla loro produttività, spesso
espletata in settori fisicamente e psicologicamente estenuanti. Da parte loro,
gli uomini, non solo nel lavoro, ma anche nella guerra, sono stati (e sono) storicamente
sacrificati come “carne da cannone”, mandati a combattere in conflitti orditi
anche da donne di potere.
A
queste difficoltà si aggiunge la repressione delle emozioni, imposta da una
cultura che insegnava agli uomini a non mostrare vulnerabilità. Essere “uomini”
implica non esprimere paura, tristezza, dolore. Inoltre, la società ha posto sul
genere maschile il peso di una definizione di sé basata sul successo economico
e sociale. Il valore di un uomo, che significava spesso anche il suo livello di
desiderabilità per l’altro sesso, veniva (e viene) commisurato al suo successo.
Ciò ha spinto molti uomini a vivere sotto la costante pressione di dover
raggiungere obiettivi mossi dal desiderio femminile che, a sua volta,
concretizzava le aspettative di una determinata società, non ultima quella
capitalistica attuale. Non meno importante è la questione della famiglia e dei
ruoli domestici. Storicamente, agli uomini è stato negato l’accesso a una
pienezza affettiva nei confronti dei propri figli, poiché erano esclusi dai
compiti di cura. Infine, la sessualità maschile è stata (ed è) altrettanto
controllata e ridotta a svolgersi in condizioni performative e ipercompetitive.
Ciò ha alimentato talvolta un circolo vizioso di frustrazione e inadeguatezza,
che non ha fatto altro che rinforzare gli stereotipi di virilità dannosi per gli
uomini ma certamente vantaggiosi per il mantenimento del sistema capitalistico.
In
definitiva, se guardiamo alla storia degli uomini, non vediamo né oppressione
né privilegi. Scorgiamo piuttosto una gabbia sistemica che si esercita sul
maggior numero di essi.
- Le conseguenze politiche: il
femminismo come arma del capitalismo
Piuttosto
che costituire una vera e propria lotta per l’emancipazione delle donne, si può
dunque ipotizzare che il femminismo sia stato cooptato e utilizzato come
strumento per rafforzare il capitalismo. L’indirizzamento delle lotte sociali
verso il conflitto di genere ha avuto l’effetto collaterale di dissolvere la
capacità di organizzazione collettiva contro le disuguaglianze economiche e
sociali, portando alla frammentazione del movimento di classe e alla
distrazione da quelle che sono le reali dinamiche di potere. Il capitalismo, inoltre,
nella sua capacità di adattamento, ha riconosciuto nel femminismo una risorsa
per migliorare l’efficienza del sistema stesso[4].
L’integrazione delle donne nel mercato del lavoro, che storicamente è stato
visto come una conquista femminista, ha finito per alimentare il sistema
capitalista piuttosto che minacciarlo. L’abolizione delle barriere di genere
nel lavoro ha non solo aumentato la forza lavoro, ma ha anche facilitato una
maggiore flessibilità lavorativa, un elemento fondamentale per il capitalismo
globale. La “liberazione” delle donne, in quest’ottica, non è altro che l’assorbimento
di una parte della popolazione lavoratrice, utile per aumentare la produttività
e il consumo senza alterare i fondamenti del sistema economico.
La
maggiore mobilità lavorativa delle donne ha contribuito, inoltre, a una
trasformazione nelle dinamiche familiari, spingendo verso un modello di “famiglia
atomizzata” in cui i legami di solidarietà e coesione sociale sono sostituiti
dalla competizione individuale.
Il fatto che le donne siano entrate nel
mercato del lavoro (soprattutto terziario) non è dovuto affatto (o, meglio, non
è dovuto strutturalmente) alle lotte femministe, a mio parere, quanto piuttosto
a necessità legate alla mutazione delle condizioni materiali del lavoro – in
altre parole, forse più chiare, al lavoro muscolare si è affiancata la
necessità d’un lavoro che metta le risorse tecnico-cognitive al centro delle nuove
necessità lavorative. Inoltre,
il conflitto tra generi è stato strumentalizzato come un mezzo per disinnescare
le critiche relative ai tagli al welfare, perfino le giuste rivendicazioni
delle donne lavoratrici, ossia quelle che riguardano servizi essenziali come
gli asili nido. Invece di riconoscere che la mancanza di un sistema di welfare
robusto colpisce trasversalmente entrambe le parti, la discussione si è
polarizzata, creando una divisione fra generi che ha impedito una risposta
collettiva. Tale approccio ha distratto dall’urgenza di costruire un mercato
del lavoro che fosse veramente inclusivo, capace di garantire pari opportunità
per tutti, attraverso politiche che sostenessero l’accesso al lavoro senza
esporre gli individui a frustrazioni legate all’ineguaglianza e alla
precarietà. La mancanza di politiche adeguate nel supportare la conciliazione
tra vita familiare e lavoro ha avuto un impatto negativo su entrambi i sessi,
ma la sua gestione è stata ideologicamente disgiunta.
Infine, la società contemporanea è
caratterizzata dalla cancellazione delle identità fino alla tendenziale
fluidità di genere. Tutto ciò, ancora, serve al capitalismo per destrutturare
ulteriormente la società e le possibili resistenze rispetto al marketing universale che lo
caratterizza.
- La controrivoluzione femminista
Negli
anni ‘70, la progressiva perdita di credito della lezione marxiana e della
tradizione socialista-comunista comportò una diminuzione dell’attenzione alla
dimensione strutturale e collettiva dei fenomeni sociali. Le lotte precedenti,
sebbene non prive di dogmatismi e astrattezze ideologiche, si muovevano all’interno
di una prospettiva trasformativa. Questa prassi, connotata da una visione unitaria,
svanì gradualmente in concomitanza con l’affermarsi del neoliberismo. Al suo
posto emerse un approccio individualistico e frammentato rispetto alla visione
collettiva che aveva animato i movimenti precedenti.
Con
il tramonto delle grandi narrazioni e dei progetti collettivi, l’orizzonte
storico si frantuma, dando spazio a un appiattimento
della realtà sociale. Il movimento storico non è più visto come
una progressione teleologica verso un futuro migliore, ma come un insieme di
dinamiche disordinate e rivendicazioniste.
La
frammentazione dell’identità collettiva in un mosaico di individualismi, spesso
in contraddizione fra loro, diventa, quindi, un riflesso della condizione
sociale contemporanea, dove il soggetto è sempre più isolato e la collettività
appare come un concetto obsoleto, laddove l’individuo è spinto a confrontarsi
con un presente privo di finalità storiche e a cercare risposte nella sfera
personale.
È
proprio in questo scenario d’individualismo
crescente che si radica il fenomeno del femminismo dell’ultima ondata. Esso
si sviluppa, infatti, come una rivendicazione individuale di spazio e
riconoscimento, spesso centrato sull’autodeterminazione.
Non più una visione unitaria della storia come movimento verso un futuro
comune, ma una molteplicità di voci e di lotte che rispecchiano l’incertezza e
la competizione che contraddistinguono l’era neoliberale.
Si percepisce oggi il progressismo come
naturalmente femminista perché emancipatorio: non c’è ancora la capacità e il
linguaggio per comprendere che, in realtà, quando si pone la lotta sul piano
del genere, non è verso l’emancipazione che si sta andando. Per esempio, e
venendo agli ultimi sviluppi del femminismo teorico, la cosiddetta “intersezionalità”
femminista non è capace – né potrà mai esserlo – di assumere l’idea che non
tutte le donne sono uguali e non tutti gli uomini sono uguali e che, dunque, prius non è affatto il genere.
In una realtà ormai sempre più
costruita a tavolino, in un mondo che rende impotente qualsiasi sforzo di
trasformazione del reale, ossia storico-filosofico, pertanto, il femminismo è stato convocato dal potere dominante a
rappresentare una vera e propria controrivoluzione. Bisognerebbe aver ben
presente questo punto di sutura che si colloca fra logica sistemica del
capitale, struttura antropologica dell’uomo contemporaneo e movimentismo
immanentistico fintamente progressista.
Esistono donne povere e donne ricche,
così come esistono uomini sfruttati e uomini sfruttatori. Il potere
contemporaneo è legato oggi, strutturalmente, al capitale finanziario e alla
tecnica di cui l’ideologia femminista costituisce una delle punte di diamante.
Nella sua capacità di coinvolgere gli individui sul piano della
colpevolizzazione morale e di frammentare il tessuto sociale (non c’è nulla che
provochi reazioni emotive quanto le faccende di sesso e di genere), il
femminismo costituisce evidentemente una risorsa importante del sistema
capitalistico. È in questa maniera,
infatti, che quest’ultimo mostra quella capacità, assolutamente senza
precedenti storici, di appiattimento e di formazione della psico-sfera al di
fuori della cara e vecchia dialettica, ma in stretto rapporto con l’emotivismo del qui ed ora che ho cercato
di evidenziare in alcuni miei libri recenti[5].
Propugnare
un’emancipazione delle donne “contro” gli uomini, pertanto, significa far
ruotare il discorso intorno a un conflitto di genere che, in ultima analisi, è
solo una distrazione dal vero problema: il sistema di potere e sfruttamento che
opprime entrambi.
In
altre parole, una critica veramente radicale non si limita a invertire le
posizioni degli oppressi e degli oppressori, ma cerca di demolire le strutture
di potere che definiscono le gerarchie socio-economiche in generale. La vera
emancipazione non può essere quella di una parte della società contro un’altra,
ma quella di tutti gli esseri umani contro il potere del capitale.
[1] H. Marcuse, Marxismo e
femminismo, in Marxismo e nuova sinistra,
manifesto libri,
Roma 2007, ebook.
[2] Idem
[3] C. Lasch, La rivolta delle élite, Neri Pozza,
Milano 2017, ebook.
[4] Un autore come de Benoist critica soprattutto
un certo tipo di femminismo proprio per il fatto che esso si sia integrato
nelle logiche del mercato e del neoliberismo, favorendo la scalata di una nuova
élite femminile senza mettere in discussione le strutture di potere esistenti.
Invece di opporsi al capitalismo, lo avrebbe rafforzato, trasformando l’emancipazione
in una questione di successo individuale e di accesso al potere, A. de Benoist,
I demoni del Bene. Dal nuovo ordine
morale all’ideologia del genere, Controcorrente, Napoli 2015, ebook.
[5] A.
Martone, ECity. Antropologia della
tecnica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018; id., NoCity. Paura e democrazia nell’età globale, Castelvecchi, Roma
2021.