I grandi pensatori sono stati filosofi-educatori: pedagogia e filosofia sono un corpo speculativo unico, pertanto filosofare significa educarsi ed educare, i processi sono sincretici. Nessun pensatore potrebbe definirsi solo in rapporto alla filosofia, poiché i sistemi, l’arte di inventare concetti e problematizzarli sono già di per sé attività educative. Il motto del criticismo kantiano è “aude sapere”, ma potrebbe essere la legge del filosofare. Non si tratta di un’attività al singolare, ma comunitaria, e specialmente la forma specifica del sapere filosofico è il suo rapportarsi al potere in modo dialettico, a volte conflittuale, al fine di difendere l’autonomia del filosofo e delle genti contro le ipostasi artificiose ed ideologiche del potere. La filosofia è esigente, senza il rischio della solitudine non è che conformismo da salotto.
Immanuel Kant (Königsberg 1724 – 1804) si occupò di pedagogia, tale aspetto è spesso sconosciuto, fu un suo allievo, Theodor Rink, a pubblicare le sue osservazioni pedagogiche nel 1803. Nella prima parte dell’opera “Pedagogia” al paragrafo sette afferma che i principi spesso trattano il popolo come se fosse appartenente al “regno animale”. Il potere spesso strumentalizza i popoli e ne fa carne da macello. L’educazione deve avere come scopo non l’utile, ma la formazione umana e dev’essere rivolta a tutti. Una simile osservazione, oggi, è più vera che mai: le istituzioni scolastiche sono curvate sull’utile del mercato, pertanto la formazione è solo un percorso per diventare strumento dell’ipostasi economia a cui tutto si deve. Un essere umano, invece, ha bisogno di una pluralità di attività, affinché il suo sviluppo sia armonico: cure fisiche, disciplina ed istruzione. Il percorso che conduce all’autonomia è lungo e complesso. L’adolescente, come l’infante, per poter imparare “il libero pensiero” deve sperimentare l’autorità senza autoritarismo. E’ necessario che vi siano figure educative che contengano e modellino le pulsioni e gli istinti, i quali se lasciati liberi finiscono per dominare la persona, e limitare anche l’altrui libertà. Senza disciplina non si può vivere la libertà, è una verità eterna. Oggi si assiste ovunque alla distruzione della figura paterna per poter consegnare le nuove generazioni al mercato ed al consumo. Il pedagogismo contemporaneo demonizza l’autorità, ma non riflette sulle conseguenze della sua assenza, e specialmente sulla solitudine di bimbi ed adolescenti senza punti di riferimento:
“L’uomo è la sola creatura capace di essere educata. Per educazione, in senso largo, s’intende la cura (il trattamento, la conservazione) che richiede l’infanzia di lui, la disciplina che lo fa uomo, infine la istruzione con la cultura. Sotto questi tre rispetti, egli è infante, allievo e scolare. Appena gli animali cominciano a sentire le proprie forze, le usano regolarmente, cioè in maniera tale da non recar danno a sè stessi. È curioso il vedere, per esempio, come le giovani rondinelle, appena uscite dal loro uovo e tuttora cieche, sappiano disporsi per modo da far cadere i loro escrementi fuori del nido. Gli animali non hanno dunque bisogno d’essere curati, sviluppati, riscaldati e guidati, o protetti. Vero è che la più parte di essi domandano nutrimento, ma non cure. Per cure bisogna intendere le precauzioni che prendono i genitori per impedire ai loro nati di far uso nocivo delle loro forze. Se, per esempio, un animale venendo al mondo gridasse come fanno i bambini, diverrebbe certamente preda dei lupi e di altre bestie selvagge attirate dalle sue grida. La disciplina o educazione ci fa passare dallo stato di animale a quello d’uomo. Un animale è pel suo istinto medesimo tutto ciò che può essere; una ragione a lui superiore ha preso anticipatamente per esso tutte le cure necessarie. Ma l’uomo ha bisogno della sua propria ragione. Costui non ha istinto, e conviene che formi da se stesso il disegno della sua condotta. Ma, siccome non ne possiede la immediata capacità e viene al mondo nello stato selvaggio, ha bisogno dell’aiuto altrui. La specie umana è obbligata a cavare a grado a grado da sè stessa colle proprie sue forze tutte le qualità naturali che appartengono all’umanità, una generazione educa l’altra. Se ne può cercare il primo principio in uno stato selvaggio o in uno stato perfetto di civiltà; ma nel secondo caso, bisogna pure, ammettere che l’uomo sia poi ricaduto nello stato selvaggio e nella barbari[1]”.
L’universale fine dell’educazione
L’educazione è un processo di responsabilità collettiva, è un’ardua impresa, perché le generazioni tramandano la loro esperienza alle nuove generazioni, le quali hanno il compito di migliorarla e vagliarla. Continuità e discontinuità coesistono, si trasmette un’identità culturale non solo per conservarla, ma specialmente per ripensarla. L’autonomia si attua nel confronto critico con l’identità di provenienza. Senza “appartenenza” non vi è umanità, perché non vi è identità. Non è possibile non svolgere una comparazione con il presente, in cui vige la distruzione di ogni tradizione linguistica e politica, al punto che non vi è più conflitto, senza confronto non si formano personalità, non si strutturano autocoscienze, vi è solo la solitudine dell’adolescente a cui è permesso tutto, in tal modo perde se stesso. Il conflitto, se non è distruttivo, consente di conoscere se stessi, ed invita le parti in dialogo ad argomentare su valori e scelte sclerotizzate dall’abitudine, o a giudicarne la loro validità etica e razionale:
“25. L’uomo deve innanzi tutto svolgere le sue attitudini per il bene; la Provvidenza non le ha messe in lui bell’e formate, ma come semplici disposizioni, e però non vi è ancora distinzione di moralità. Render sè stesso migliore, educare sè medesimo, e, s’egli è cattivo, svolgere in sè la moralità, ecco il dovere dell’uomo. Quando vi si rifletta consideratamente, si vede quanto ciò sia difficile. L’educazione, pertanto, è il più grande e il più arduo problema che ci possa esser proposto. Difatti le cognizioni dipendono dall’educazione, e questa dipende alla sua volta da. quelle. Onde non potrebbe l’educazione progredire che di mano in mano; e noi possiamo arrivare a farcene un’idea esatta solo in quanto ciascuna generazione trasmette le sue sperienze e le sue cognizioni alla generazione posteriore, che vi aggiunge qualcosa di suo e le tramanda così aumentate a quella che le succede. Qual cultura e quale sperienza dunque non suppone questa idea? E però essa non poteva sorgere che tardi, e noi stessi non l’abbiamo ancora innalzata al suo più alto grado di purezza. Si tratta di sapere se l’educazione nell’uomo singolo debba imitare la cultura che l’umanità in generale riceve dalle sue diverse generazioni[2]”.
Educazione privata e pubblica
All’educazione privata è preferibile l’educazione pubblica, poiché si apprende la libertà nelle relazioni plurali, in cui non solo si impara ad ascoltare (competenza difficilissima), ma specialmente si trascende il naturale egocentrismo di ogni essere umano in formazione. In famiglia si è il centro di ogni attenzione, prevale l’interesse personale. Nello spazio pubblico si impara ad essere cittadini capaci di rispettare regole e doveri comuni a tutti,” il mondo” si configura nello spazio pubblico nella sua problematicità:
“L’educazione privata è data dai genitori stessi, o, se per caso non ne abbiano il tempo, la capacità o il gusto, da altre persone che li aiutano in ciò, mediante una ricompensa. Ma questa educazione data così da persone ausiliarie ha il gravissimo difetto di dividere l’autorità fra i genitori ed il precettore. Il fanciullo deve regolarsi secondo i precetti dei suoi maestri, e deve in pari tempo seguire i capricci dei suoi genitori. È necessario che in questo genere di educazione i genitori depongano tutta la loro autorità in mano dei maestri. Ma fin dove l’educazione privata è preferibile alla educazione pubblica, o questa a quella? L’educazione pubblica, in generale, sembra più vantaggiosa dell’educazione domestica, non solamente in rispetto alla abilità, sì anche in rispetto al vero carattere di cittadino. L’educazione domestica, oltre non correggere i difetti appresi in famiglia, li aumenta[1]”.
Responsabilità e formazione
Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro: i genitori solitamente si occupano del presente senza porsi il problema del valore qualitativo ed etico del tempo immediato, mentre i potenti utilizzano i loro popoli come strumenti per soddisfare i loro disegni di grandezza. Le nuove generazioni hanno bisogno di educatori che insegnino loro non solo la responsabilità verso il futuro, ma specialmente che si è parte di un’unica umanità. Solo in questo modo il percorso educativo di generazione in generazione può trarre dalle persone “il bene” ed avere la sua teleologia:
“6. Un principio di Pedagogia, al quale dovrebbero mirare segnatamente gli uomini che propongono norme di arte educativa, è questo: Che non devesi educare i fanciulli secondo lo stato presente nella specie umana, ma secondo uno stato migliore, possibile nell’avvenire, cioè secondo l’idea dell’umanità e della sua intera. destinazione. Questo principio è d’una importanza tragrande. I genitori educano per lo più i loro figli per la società presente, sia pure corrotta. Dovrebbero, al contrario, dar loro una educazione migliore, perché un migliore stato ne possa venir fuori nell’avvenire. Ma qui si parano dinanzi due ostacoli: 1° I genitori non si curano per ordinario che di una cosa sola, ed è che i loro figli facciano buona figura nel mondo; 2° I principi risguardano i propri sudditi come strumenti nei loro disegni. I genitori pensano alla casa, i principi allo Stato. Gli uni e gli altri non si propongono per fine ultimo il bene generale e la perfezione a cui è destinata l’umanità. Le basi fondamentali d’un disegno d’educazione fa d’uopo che abbiano un carattere mondiale. Ma il bene generale è un’idea che possa tornar dannosa al nostro bene particolare? Niente affatto! Imperocché, quantunque sembri che gli si debba sacrificare qualcosa, veniamo così a lavorar meglio pel bene del nostro stato presente. E allora quante nobili conseguenze! Una buona educazione è proprio la sorgente d’ogni bene nel mondo. I germi che sono riposti nell’uomo debbono svilupparsi ognor di vantaggio; imperocché nelle disposizioni naturali dell’uomo non v’ha principio di male. La sola causa del male sta nel sottoporre a norme la natura. Nell’uomo non vi sono che i germi per il bene. Da chi dee provenire il miglioramento dello stato sociale? Dai principi o dai sudditi? Conviene che questi si migliorino prima da sè stessi, e facciano la metà di strada per andare incontro a governi buoni? Se, invece, deve partire dai principi questo miglioramento, si cominci dunque a riformare la loro educazione; poiché si è commesso per lungo tempo questo grave sbaglio, di non resistere mai agli stessi principi nella loro gioventù. Un albero che resta isolato in mezzo ad un campo perde la sua dirittura nel crescere e stende lungi i suoi rami; al contrario, quello che cresce nel mezzo di una foresta si mantiene diritto, per la resistenza che gli oppongono gli alberi vicini, e cerca al disopra l’aria ed il sole. Avviene lo stesso nei principi. Ma vale ancor meglio siano educati da qualcuno dei loro sudditi che dai loro pari. Non si può attendere il bene dall’alto se prima non vi sarà migliorata l’educazione! Qui bisogna dunque contare più sugli sforzi dei privati che sul concorso dei principi, come hanno giudicato Basedow ed altri; dacchè l’esperienza c’insegna che i principi nell’educazione badano meno al bene del mondo che a quello dello Stato, e vi scorgono solo un mezzo per giungere ai loro fini. Se col denaro soccorrono la educazione, si riservano il diritto di stabilire le norme che loro convengono. Lo stesso va detto per tutto ciò che risguarda la cultura dello spirito umano e l’incremento delle umane conoscenze. Questi due risultamenti non sono procurati dal potere e dal denaro, ma solo facilitati; bensì potrebbero procurarli ove lo Stato non prelevasse le imposte unicamente nell’interesse del suo erario. Neppur le Accademie li hanno dati finora, ed oggi più che mai non si scorge alcun segno ch’esse comincino a darli[1]”.
I germi del bene sono in ogni essere umano, ma senza educatori, strutture e spazi pubblici la predisposizione al bene non resta che una possibilità senza atto. La comunità deve essere educante, ogni adolescente ed infante è parte di una totalità comunitaria che deve responsabilizzarsi verso di essi: l’alternativa è la barbarie.
Libertà
L’equilibrio tra autorità ed autorevolezza non è certo semplice, in quanto il fine di ogni educazione è lo sviluppo delle naturali potenzialità comunitarie e soggettive dell’educando, le quali confliggono con le sue pulsioni individualiste. E’ necessario guidare l’adolescente, insegnargli la libertà con gradualità. La libertà si deve sperimentare sotto l’occhio vigile dell’educatore, al fine di incoraggiare esperienze di autonomia, dalle quali l’adolescente deve educarsi a gestire il senso del limite ed a contenere i suoi fini, perché anche gli altri li possano concretizzare. Ogni vita nel suo sviluppo deve lasciare spazio alle altre esistenze. La libertà non è finalizzata alla soddisfazione del proprio incontenibile piacere, ma primariamente a conoscersi mediante il rapporto dialettico con le alterità:
“Qui devesi por mente alle infrascritte regole. 1° Bisogna lasciar libero il fanciullo fino dalla sua prima età e in tutti i suoi movimenti (salvo in quelle occasioni in cui può farsi del male come, per esempio, se prendesse in mano uno strumento tagliente), a patto bensì di non impedire la libertà altrui, come quando grida, o manifesta il suo brio in modo troppo rumoroso e da recar disturbo agli altri. 2° Gli si deve mostrare ch’ei può conseguire i suoi fini, a patto bensì ch’egli permetta agli altri di conseguire i loro propri; ad esempio, non si farà niente di piacevole per lui s’ei non fa ciò che desideriamo, come d’imparare ciò che gli viene insegnato, e via dicendo. 3° Bisogna provargli che l’autorità, il costringimento a cui si sottopone, ha per fine d’insegnargli ad usar bene della sua libertà, che lo educhiamo ed istruiamo affinché possa un giorno esser libero, cioè fare a meno del soccorso altrui. Questo pensiero sorge assai tardi nella mente dei fanciulli, poichè non riflettono nei primi anni che dovranno un giorno provvedere da sè stessi al loro mantenimento. Credono che la cosa andrà sempre come nella casa paterna, cioè ch’essi avranno da mangiare e da bere senza darsene alcun pensiero. Ora senza questa idea, i fanciulli, segnatamente quelli dei ricchi ed i figli dei principi, restano per tutta la vita come gli abitanti di Otahiti. L’educazione pubblica ha qui manifestamente i più grandi vantaggi: vi s’impara a conoscere la misura delle proprie forze ed i limiti che c’impone il diritto altrui. Non vi si gode alcun privilegio, poiché vi sentiamo dovunque la resistenza, e ci eleviamo sopra gli altri solo per merito proprio. Questa educazione pubblica è la migliore immagine della vita del cittadino. Resta ancora una difficoltà che non vuol essere qui dimenticata, e risguarda la cognizione anticipata del sesso, a fine di preservare i giovinetti dal vizio prima dell’età matura[1]”.
Si impara a diventare cittadini con esperienze formative che esulano il successo e la competizione, a tal fine è indispensabile l’educazione pubblica con la quale si apprende la condivisione e la responsabilità.
Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito che dal passato ci esorta a pensare alle conseguenze dei processi di privatizzazione ed atomizzazione dell’educazione: non vi è comunità che in presenza di cittadinanza attiva e consapevole, ma ciò può avvenire solo mediante un percorso di formazione che riponga al centro la persona nella comunità e non certo il mercato globale. Il cosmopolitismo kantiano spesso citato a sostegno della globalizzazione ha come fine la formazione del cittadino libero e razionale e non certo del suddito globale.
[1] Immanuel Kant Pedagogia Liber Liber pag. 9
[2] Ibidem pag. 11
[3] Ibidem pag. 14
[4] Ibidem pag. 12
[5] Ibidem pag. 15