Il taverniere di Jena


Maggio è solitamente fresco e piovoso nell’est della Turingia, ma quell’anno stava regalando agli abitanti della città e dei dintorni fulgide giornate di sole che erano un inatteso preludio d’estate. Negli angusti vicoli del centro, tuttavia, i raggi tiepidi faticavano a calarsi, e ristagnavano umidità e il puzzo esalato da rifiuti di ogni genere.

Era ormai pomeriggio inoltrato: l’orologio della cattedrale di san Michele batté in lontananza cinque rintocchi. Nel locale semibuio si avvertiva un lezzo di stantio e di muffa che non invogliava a lunghe permanenze, ma l’avventore – un uomo ancor giovane e dalla corporatura robusta – aveva parecchia sete, e rivolto un cenno del capo al cantiniere ordinò a bassa voce una seconda birra. L’oste, un sessantenne dal ventre prominente e l’aria sveglia, afferrò il boccale dimenticato semivuoto sul banco da un cocchiere già alticcio, lo sciacquò, immergendolo nel liquido torbido e limoso contenuto in un mastello, per spillare infine con maestria da un’enorme botte alle sue spalle la bevanda ambrata.

Accaldato com’era il bevitore tuffò il lungo naso nella schiuma bianchiccia prima di ingurgitare una generosa sorsata; in quel mentre fecero il loro ingresso nella bettola un paio di ragazzi neanche ventenni, ma dal piglio spavaldo e agghindati come damerini. Uno dei due, incipriato e con una vistosa parrucca in testa, sfiorò con il bastone da passeggio il braccio sinistro dell’uomo appoggiato al bancone, scambiandolo per un garzone o servitore: «Due bicchieri di birra anche per noi, buonuomo, stiamo morendo di caldo!»

Il cliente si girò verso i nuovi arrivati, più stupefatto che offeso da quell’approccio, ma il pronto intervento del birraio rimise subito le cose a posto: «Sarò ben lieto di servirvi, miei giovani signori, ma vi prego di non disturbare Herr Professor, che di questa modesta taverna è ospite onorato e graditissimo!»

Sia pur garbatamente ripreso, il giovanotto imparruccato non denotò alcun imbarazzo (era probabilmente avvezzo a trattare la gente dall’alto in basso: un blasone sbiadito o le sostanze paterne gliene davano la possibilità, se non il diritto), ma il compagno – un efebo esile e biondiccio, dalle iridi di un azzurro innaturalmente chiaro – mormorò fra i denti una richiesta di scuse.

«Non fa nulla», sospirò il professore senza guardare in faccia gli importuni, e tenendosi ben stretto il suo Krug[1] tornò a sedersi a un tavolinetto situato all’angolo opposto della piccola sala. In effetti sembro proprio un poveraccio – riconobbe tra sé, constatando lo stato miserando della sua marsina nera fuori moda e la tinta grigiastra del fazzoletto che portava al collo. Neppure un abito sgargiante – si rese però mestamente conto – sarebbe bastato a nobilitare il suo aspetto contadinesco e la rozzezza dei lineamenti, quel volto squadrato e appesantito dalla pappagorgia in cui si perdevano, sotto una foresta di capelli crespi, i malinconici e penetranti occhi bruni.

Delle sue umili origini egli andava in verità piuttosto orgoglioso (vero che a scoprirne i talenti e ad avviarlo agli studi era stato un munifico gentiluomo di campagna e che la consacrazione era giunta assieme alle lodi del Maestro, ma il successo che iniziava ad arridergli era merito anzitutto della sua abnegazione e di un intelletto brillante), anche se spesso si lamentava della meschina condizione economica che lo aveva forzato ad accettare, in passato, impieghi che reputava umilianti e gli impediva di mantenere adeguatamente la meravigliosa fanciulla che aveva sposato un anno prima. Adesso però la chiamata di una prestigiosa università gli prospettava un futuro di relativa agiatezza: di lì a un mese avrebbe tenuto la sua prima lezione pubblica e non dubitava che i dettami della nuova scienza sarebbero stati accolti con entusiasmo dagli studenti, e non solamente da loro.

Sul piano del tavolo erano sparsi i fogli delle sue dispense, predisposte con cura: non se ne separava mai e continuamente ne limava il testo, aggiungendo, togliendo, modificando frasi e singole parole. Una copia del lavoro era già stata consegnata all’editore, con la preghiera di non mandarla in stampa fino all’approntamento della redazione finale riveduta e corretta: il tempo però stringeva, doveva sbrigarsi. Concetto e Fondamenti sarebbero confluiti in un’opera unitaria, l’aveva deciso da un pezzo: il suo assillo era la chiarezza espositiva, l’esigenza che concetti a lungo meditati non venissero fraintesi e stravolti. Il mio ragionamento è immune da vizi logici – si ripeté – non si presta ad equivoci, eppure… eppure quando l’aveva esposto per sommi capi, a mo’ di esperimento, a colui che giudicava il meno preparato fra i prossimi colleghi docenti questi aveva commentato, accennando dopo una breve riflessione un sorriso sardonico: «E così siete stato voi a creare il mondo, Meister Johann! Buono a sapersi… e tante grazie per avermi inserito nel vostro progetto semidivino!» Bella facezia davvero… l’accusa di soggettivismo era però assai insidiosa per un filosofo, anche se Herr Schulz non era più ritornato sull’argomento, e all’incontro successivo aveva cianciato di dame e cavalli.

Forse l’ostacolo da superare sta proprio nel linguaggio che, ad onta dell’alto grado di sviluppo raggiunto, rimane uno strumento imperfetto: al termine “idea”, per esempio, quasi ciascun sapiente assegna un peculiare significato, e ciò ingenera confusione e diatribe. Ah, potessimo comunicare mediante il pensiero! – si strugge– quante incomprensioni eviteremmo, pure nell’esistenza quotidiana…prima o dopo ci arriveremo: ci conta, poiché sconfinata è la sua fiducia nelle capacità umane.

Estrae dal taschino uno stilo e incomincia a scorrere una delle pagine introduttive, a caccia di ambiguità e manchevolezze, e per l’ennesima volta si imbatte in quella considerazione paradossale che gli è uscita spontanea dalla penna:“Se qualcuno costruisse su di una proposizione infondata e indimostrabile (ad es. quella per cui vi sono nell’aria creature con fattezze umane, passioni, concetti e corpi eterei) una storia naturale affatto sistematica di questi spiriti eterei, cosa in sé anche possibile, potremmo noi riconoscere per scienza un tale sistema, per quanto rigorosamente in esso si deduca…” Ne sorride: absurdum, certo…ma perché gli è venuta in mente un’esemplificazione tanto bislacca? Lui intendeva dimostrare – e ci è riuscito–che ogni scienza degna di questo nome è un articolato sistema di conoscenze fondate però su solidi, incontrovertibili principi… eppure non gli sfugge il fatto che moltissime persone… tra le quali il buon vecchio Franz dietro il banco, che serve dell’ottima birra ed è tutt’altro che sciocco… ebbene, moltissime persone credono sul serio che boschi, giardini e cantine pullulino di creature fatate o demoniache, in grado di influenzare le nostre risoluzioni e di arrecarci, a piacimento, danni o vantaggi. Scempiaggini, naturalmente… butta giù un altro sorso, rilegge e si concentra sul testo che oramai sa quasi a memoria. L’impresa cui sta dedicando tutte le sue energie fisiche e psichiche – ne è ben consapevole – è oltremodo ambiziosa: lui si è proposto nientedimeno che di portare a compimento l’opera impareggiabile del Maestro, individuando uno o più principi supremi che permettano di fondere le tre Critiche, per l’appunto, in un unico e coerente sistema… una dottrina scientifica che costituisca, a sua volta, il basamento di ogni altra scienza. Quella chiave segreta è persuaso di averla trovata in una… trinità (ride fra sé dell’espressione blasfema) o piuttosto in una triade di principi indimostrabili e indeducibili, ma attingibili per via di intuizione.

Come presentare ai discenti questa sua scoperta? Invitandoli anzitutto a ragionare, si dice: donde ricaviamo il principio di identità “A=A” che è stato elaborato dalla scienza nota come logica? Riflettiamo: qualsiasi cosa sia “A” – un oggetto, un animale, una persona viva – deve per forza esistere, ma da che cosa desumiamo questa sua esistenza? Potremmo affidarci alle sensazioni, che sovente però si rivelano ingannevoli, o semplicemente postulare, come farebbe il buon birraio, che la panchetta su cui sto seduto… o qualunque altra panca sia un dato di fatto indiscutibile. C’è e basta… ma allora la filosofia non serve a niente, meglio occuparsi di faccende pratiche, nevvero? Quell’illustre francese, Descartes, si avvede dell’unica possibile soluzione: al netto delle apparenze ciò di cui posso dirmi certo è che io mi sto arrovellando su un determinato problema, vale a dire che penso, ho coscienza del mio pensare e quindi sono. Subito però si riaffacciano i dubbi su tutto il resto, su ciò che mi circonda, e per trovare conforto il nostro sceglie di ricorrere a chi dubbi non può averne, cioè a Dio, invocato affinché crei il mondo sensibile… una seconda volta, in copia conforme. L’io, appena rintracciato, viene subito perso di vista, si rincantuccia nell’ombra, svanisce… la sua comparsata è stata nient’altro che un espediente scenico. Quest’io negletto desta l’interesse del Maestro, che lo riconosce e ne fa il perno della sua indagine: l’essere umano ritrova un ruolo da protagonista, come osservatore e giudice della realtà, la cui essenza ultima permane tuttavia insondabile, poiché a scrutarla da lungi è un io finito, individuale… una singola persona: il dotto, l’ulano, il carrettiere.

Quid igitur se, anziché il passeggero che incrociamo per strada, prendessimo in considerazione un Io con la maiuscola, infinito e universale? A svelarcene la presenza… l’onnipresenza è l’intuito, messe finalmente da parte convinzioni tralatizie e false credenze. L’intuito, ribadisco, dal momento che dimostrare quanto propongo, anzi affermo, è impossibile. Ecco il cardine di ogni scienza, e della dottrina su cui le varie discipline settoriali si fondano: un Io che non si limita a pensare, ma pone se stesso, e che è quindi sia soggetto che predicato. Ma se Io=Io, allora la proposizione A=A di cui discutevamo risulta provata, giacché A è un qualcosa posto nell’Io. Cosa significa che l’Io pone se stesso, forse che si crea da sé? Niente affatto: che pone le premesse per riconoscersi, per acquisire l’autocoscienza. Qualcuno stracapirà, sostenendo che sto parlando del dio biblico: meglio così, se i profani la intendessero in questa maniera mi risparmierei un bel po’ di grattacapi e i sospetti dell’autorità… ma è palese che sto dicendo tutt’altro.

Se il primo principio, quello fondativo, è indimostrato, indeducibile e incondizionato, il secondo – e inferiore – è invece condizionato dal precedente, ma soltanto sotto il profilo del contenuto. Con il medesimo atto l’Io pone infatti se stesso e il suo opposto, il Non Io, cioè qualche cosa di contenutisticamente differente, un’autonegazione. E cos’altro può essere il Non Io se non il mondo esterno, la natura, ciò che si pretende sia stato creato prima dell’uomo? Mondo esterno, ma l’aggettivo è usato impropriamente, dacché il Non Io non può essere collocato da qualche parte, al di fuori, ma sta dentro l’Io che tutto comprende… epperò lo nega, si sovrappone ad esso… lo nullifica? Conclusione affrettata, erronea: l’opposizione si traduce in un limite che l’Io si autoimpone, ma al fine di prendere coscienza di sé. Il concetto di limite implica però quello di quantità: ecco allora che, per superare l’impasse, l’Io infinito si frammenta all’istante in una miriade di io empirici… noi qui seduti, per capirci, i nostri avi e i nostri discendenti… cui contrappone un Non Io a sua volta divisibile: questo lurido tavolaccio, le brocche ricolme di birra, il cane che abbaia sull’uscio. È questo il terzo e ultimo principio, che definisco condizionato secondo la sua forma e che rappresenta la sintesi dei primi due. Chi mi abbia pazientemente seguito fin qui, afferrando il senso della mia spiegazione – soggiunge mentalmente – non potrà che farsi beffe della taccia di soggettivismo rivoltami da qualche imbecille: se, colto da subitanea ispirazione, mi spacciassi per un’entità infinita, mischiando a casaccio maiuscole e minuscole, non solo dovrei ricomprendere nel Non Io la restante parte dell’umanità, inclusi amici e congiunti, ma rimarrei inestricabilmente impigliato nell’antitesi, poiché la suddivisione che connota il terzo momento, quello appunto della sintesi, risulterebbe inattuabile. L’io empirico farebbe la fine di quel naufrago su un’isola deserta che, perduta ogni speranza di soccorso, si sforza di sopravvivere fra gli stenti il più a lungo possibile e rapidamente inselvatichisce: cosa ricaverebbe da questo spettacolo il suo alter ego assoluto se non il malsano divertimento provato da un discolo nel tormentare il suo canarino? Nessun compito, se non quello di vegetare, sarebbe logico assegnare al disperso e se costui, per un qualche accidente, prendesse contezza di essere la maschera indossata dal demiurgo e di muoversi in un mondo di larve quale sarebbe il suo guadagno? Un’ancor più abbietta solitudine, un’invincibile disperazione…

È sufficiente saper leggere, d’altronde, per accertarsi che nel mio scritto di simili corbellerie non v’è traccia alcuna: l’Io illimitato è fatto coincidere esplicitamente e in più passaggi testuali con lo Spirito umano, che si incarna ma non si esaurisce in ciascuno di noi, innervando l’umanità intera sin dai suoi primordi… un patrimonio incommensurabile di potenzialità, pensieri, esperienze, azioni, sentimenti e conoscenze che ogni nuova generazione, ogni singolo individuo accresce… sì, persino Herr Schulz e il beccaio del mio villaggio! Su questo aspetto dovrò insistere fino allo sfinimento: è il punto essenziale della dottrina.

Ora, una volta fissati dalla ragione i tre principi fondamentali è agevole dedurre da essi tutte quante le categorie, finalmente ancorate ad un solido, indubitabile sostrato; ma l’attività speculativa sarebbe inutile se fine a se stessa: così non è, perché il cozzo con l’apparente realtà esterna invoglia e quasi costringe l’io a oltrepassare i limiti che continuamente essa gli pone, in uno sforzo (Streben) infinito che, seppur mai coronato dal raggiungimento di una meta definitiva, innalza progressivamente l’animo umano a un livello di consapevolezza sempre maggiore, instillandovi i precetti di una morale autenticamente vissuta. Questa evoluzione, lenta ma costante, è sotto i nostri occhi…, mormora soddisfatto lo studioso, scrollando il boccale ormai desolatamente vuoto.

Il birraio, sempre sollecito della propria clientela, scambiò il gesto istintivo per un richiamo, e goffamente accorse: «Desiderate un altro Krügel, signore?»

Riscosso dalle sue meditazioni, il giovane professore lo guardò con un’espressione imbambolata, poi realizzò che aveva ancora una certa sete, ma soprattutto di essere affamato:«Sta bene – rispose – ma stavolta vorrei della birra scura… e un paio di salsicce ben cotte, di grazia. Intesi?» Il taverniere annuì lieto e riguadagnò in fretta il bancone. Per oggi può bastare – decise l’uomo seduto – e prese a riordinare con cura le sue carte, che tosto infilò in una borsa di cuoio. Entro un’ora – valutò – l’osteria si sarebbe affollata di lavoratori a giornata, ubriaconi e sfaccendati che avrebbero mutato l’oasi di tranquillità in un vociante carnaio: meglio andarsene per tempo e a stomaco pieno profittando del sole ancora alto per una salutare passeggiata che lo avrebbe condotto fino alla spoglia stanzuccia d’affitto (la sua sistemazione da quando era arrivato in città una decina di giorni addietro) che dava sulla pittoresca, ma fin troppo caotica piazza del mercato.

In attesa della sospirata pietanza l’avventore si accese un grosso sigaro che aveva acquistato per strada quella mattina stessa e sbuffando dense volute bigie lasciò vagare lo sguardo sulle pareti disadorne e annerite dal fumo delle lucerne, per soffermarlo alfine sul focolare ancora spento. Suscitò un po’ di trambusto, nel locale semideserto, la corsa affannosa di una pantegana che, fuoriuscita dalla tana, aveva attratto l’attenzione del gatto grasso e pacioso di Franz, ma l’uomo non mancò di notare che l’odioso bellimbusto impomatato era già andato via, separandosi dal biondino immerso adesso in un fitto conciliabolo con l’oste, che a un certo punto annuì con vigore.

Dopo qualche istante il giovanotto si avvicinò timido al suo tavolo, deponendovi due boccali pieni fino all’orlo di spumosa birra scura. «Mi sono permesso di offrirvi una bevuta, signore, per fare ammenda del… dell’equivoco in cui è caduto in precedenza il mio amico, il barone von Weichs. Lui si trova a disagio negli ambienti plebei, sostiene, ma è meno burbanzoso di quanto appaia», mormorò vergognoso.

Il professore accolse di buon grado l’offerta: era un tipo alquanto riservato e dal carattere battagliero, ma quel giovine lo incuriosiva. «Vi ringrazio, siete cortese, sedetevi pure al mio desco e bevete in mia compagnia… com’è che vi chiamate?»

«Friedrich Wilhelm, ma per quasi tutti sono semplicemente Fritz – fece l’altro, rincuorato – Ho sentito che siete un professore dell’università, un umanista, e che siete giunto in città da poco… posso ardire di conoscere il vostro nome e la materia che insegnate? Io studio… filosofia, sapete, e stando ai miei docenti con qualche profitto – arrossì impercettibilmente – ma certo, sono appena agli inizi».

«Il rettore mi ha presentato l’altroieri al corpo docenti come Magister Iohannes Theophilus – ridacchiò il più anziano, porgendo la destra – ma preferisco di gran lunga i miei nomi di battesimo, schiettamente tedeschi: Johann Gottlieb, per servirvi».

Una smorfia di sconcerto, se non di delusione, saettò sul volto di Fritz, che subito si ricompose e strinse la mano che gli veniva tesa. «Voi dunque siete…» azzardò, lasciando a metà la frase.

Il professor Fichte percepì l’altrui esitazione, ma benché fosse abbastanza permaloso non se ne adontò: «Ebbene sì, io sono… e sono anche conscio del mio aspetto ordinario – sogghignò – nonché del fatto che tendiamo a figurarci le persone celebri… anche se non è il mio caso… come modelli di Lisippo, ma la ragione è astuta e veste panni dimessi. Quando mi sono recato in visita dal Maestro, su al nord – rimembra, quasi sussurrando – non mi attendevo di certo che ad accogliermi sulla soglia di casa fosse un vecchietto raggrinzito, alto non più di un bimbo decenne (e pure odoroso di canfora, stava per aggiungere, ma si morse la lingua)… eppure egli è il sommo genio del nostro tempo, un autentico rivoluzionario del pensiero critico. Mi confidò, un anno fa, che stava lavorando a un trattatello sulla pace perpetua… aspetto di leggerlo, e mi auguro… anzi sono sicuro che il suo auspicio diverrà presto realtà, non può essere altrimenti!», concluse fiducioso, mandando fuori un’allegra boccata di fumo.

«La nuova filosofia! Non solo la Germania, l’intera Europa ne parla! – gli occhi celesti di Fritz scintillarono di genuino fervore – E voi ne siete il vessillifero… Confesso di aver divorato la vostra Critica della religione quando ancora si pensava fosse stata scritta da Immanuel Kant in persona…»

L’interlocutore ostentò modestia: «Suvvia, non esageriamo… È il viennese Reinhold il suo più accreditato esegeta, forse l’erede… sebbene l’interpretazione che fornisce non mi convinca del tutto e mi paia riduttiva, a essere onesto… Per quanto mi riguarda mi sono ripromesso di reperire, diciamo così, un filo conduttore che leghi insieme i tre volumi della Critica… sarà questo il tema del ciclo di lezioni serali che terrò a partire da giugno, mentre la mattina sarà dedicata ad argomenti… più tradizionali e meno impegnativi, ma tocca procacciarsi il pane. In aula non si discetterà soltanto di teoria: nutro infatti l’incrollabile convincimento che gravi sul dotto, nei confronti dei suoi simili, una responsabilità paragonabile e anzi superiore a quella di monarchi e governanti; che a lui spetti il compito, senz’altro arduo, di lumeggiare la strada da percorrere… potreste diventare mio allievo, se la cosa vi aggrada» propose da ultimo, detergendosi un filo di bava che gli colava sul mento.

«Altroché se la prospettiva mi alletta! – esclamò il giovanotto – Magari non riuscirò a seguire il corso per intero, ma contate su una mia presenza nient’affatto episodica». Bevve un sorsetto di birra, indi riprese abbassando il tono: «Ora vorrei porvi una domanda che giudicherete ingenua e sciocca, ma ve la faccio lo stesso: qual è per voi la finalità della scienza filosofica e del suo insegnamento?»

«Credo di avervi già risposto – osservò Fichte, paziente – ma vedrò di spiegarmi meglio. La nostra missione è quella dell’araldo, ma un araldo che annuncia ai suoi ascoltatori verità che nel loro intimo, sia pur oscuramente, essi già conoscono. La storia dell’umanità è paragonabile a un cammino in salita, a un’ascesa: faticosa ma gratificante, perché dopo ogni erta, dopo ogni singola curva il panorama si allarga a dismisura. In secoli e secoli ci siamo arrampicati, stimo, fino a ben oltre metà pendio, e presto apparirà annuvolata la vetta. Fuor di metafora, considerate i progressi fatti in ogni campo dalla più remota antichità e dagli anni bui del medioevo, confrontate le nostre case confortevoli con le rozze capanne degli avi, ammirate l’aerostato che s’innalza verso il cielo in un tripudio di folla, e gli altri prodigi della tecnica! L’uomo sta piegando la recalcitrante natura al suo volere, ma fa molto di più: elabora e si autoimpone delle regole di condotta ispirate non alla mera convenienza, ma a ideali di giustizia e fratellanza! Ora correrò il rischio di scandalizzarvi, ma l’azzimato contino non c’è più… e quindi proseguo: il popolo polacco e gli inglesi d’America si sono dati costituzioni democratiche, la Francia rivoluzionaria proclama al mondo i diritti dell’uomo e del cittadino, arcaici e odiosi privilegi sono messi ovunque in discussione… non si tratta di sintomi inequivoci di un progressivo affinamento della natura umana?» esultò, posando il mozzicone di sigaro sulla tavola.

«Ma in Francia sono stati commessi misfatti di ogni genere – obiettò Fritz, assalito da un’indignazione che gli imporporò il viso – il re è stato accoppato in piazza come un cane insieme a decine di migliaia di innocenti, oggidì gli estremisti si massacrano tra loro e minacciano per sovrappiù la pace universale. Davvero non mi sembra che ci si possa rallegrare di tutto ciò!»

«Che discorsi, è ovvio che non mi rallegro delle stragi, comunque meno indiscriminate e brutali che nel passato! – tagliò corto il professore, stizzito – Quello che voglio farvi capire, e che comprenderete meglio a lezione, è che passo dopo passo l’umanità inesorabilmente avanza verso un futuro migliore… certo, il percorso è accidentato e non lineare, talvolta la troppa foga causa infortuni e cadute… gli eccessi che voi giustamente criticate con giovanile irruenza… ma più l’uomo procede e più realizza se stesso, crescendo in consapevolezza e nobiltà d’animo».

Fritz, deposta ogni animosità, si astenne dal replicare. In quel momento si accostò loro il padrone della locanda, reggendo una ciotola fumante: «Eccovi le salsicce con i crauti che mi avete ordinato, signore, e una bella fetta imburrata di pane nero: spero siano di vostro gradimento» disse, sudando copiosamente.

Lo studioso, affamato, portò subito alla bocca un pezzetto di carne, dopo averlo intinto nella senape, e manifestò a gran voce il proprio apprezzamento; quindi offrì un assaggio al biondino, che cortesemente declinò. Prima che il padrone tornasse alle sue faccende Herr Fichte lo chiamò a sé, masticando di gusto: aveva preso a benvolere quel vecchio compito e laborioso, un popolano al pari di lui, benché ci avesse scambiato fino ad allora poche frasi di circostanza. «Mi piacerebbe sapere da voi, mastro Franz, quale giudizio vi siate fatto sull’indole degli esseri umani e sul posto che essi occupano in natura».

L’oste parve spiazzato dal quesito postogli e aggrottò la fronte: «Voi mi confondete, stimato professore… io sono un uomo di fatica, non ho dimestichezza con le parole e le altezze del pensiero… ma ho notato, gestendo per decenni questa dignitosa taverna, che gli uomini sono tutti diversi fra loro, e inoltre che le persone cambiano spesso atteggiamento e contegno, che sono imprevedibili. Cos’altro penso? – si lambiccò il cervello alla ricerca di una terminologia adeguata, che sapeva di non possedere – Che tutti meriterebbero lo stesso rispetto e pari diritti, in quanto figli diletti del Creatore, ma che chi porta in capo la corona o stringe in pugno il bastone non vi rinuncerà mai di buon grado. Ecco, questo io penso, da persona semplice e ignorante quale sono…»

«Seguitate, ve ne prego» lo esortò Fritz, ammirato dal suo popolaresco buon senso.

«Anche della guerra ho fatto esperienza – rivelò mastro Franz – ed è una cosa brutta, bruttissima! Da ragazzo ero uno scavezzacollo, ma ero alto più di sei piedi, sapete, e nessuno dei miei coetanei era capace di tenermi testa nella lotta. La sete di avventura e la brama di gloria fecero di me, povero stolto, un granatiere nell’esercito del grande Federico, ho combattuto in due battaglie di cui ho scordato persino il nome… ma di eroi non ne ho mai incontrati! Sul campo caos, terrore, sangue, urla, tanfo e follia… ho visto commilitoni sbudellati e tagliati in due, camminato fra teste e braccia mozzate. Per caso sono sopravvissuto a quelle carneficine… l’unico conforto erano le frequenti ebbrezze, ma appena ne ho avuto l’occasione ho disertato come l’ultimo dei codardi e ho ripreso la via di casa. Nessuno mi ha inseguito, per i signori ufficiali ero tutt’al più un numero. Quando sono tornato i miei familiari quasi non mi hanno riconosciuto, ero triste e smagrito… non uscivo manco più di casa, e quelle poche volte che ero costretto a farlo rasentavo i muri, temendo che qualcuno mi saltasse alla gola… gli incubi mi hanno perseguitato per anni… oggi la Francia promette nuovi sconquassi, e la cosa mi sgomenta. Ma la ferocia non appartiene solo all’uomo, pure questo ho imparato…»

«Cosa intendete?», lo interrogarono unisoni Johann Gottlieb Fichte e il biondino.

«Un tardo pomeriggio d’autunno, dopo che mi fui rimesso in forze – rammentò rabbrividendo il vecchio – mi recai nel bosco a far legna. Avevo con me un’accetta e un coltellaccio infilato nella cintura. Tutt’a un tratto un gigantesco orso comparve dal nulla e mi aggredì. Ero agile e robusto, ve l’ho detto, e riuscii a colpirlo con la mia lama, ma la bestia mi fece ben di peggio –il locandiere si arrotolò la manica destra fin quasi alla spalla, scoprendo il braccio solcato da una profonda cicatrice, che dal polso saliva al bicipite – poi con quei suoi maledetti artigli mi ha straziato anche il petto. Mi scoprii del tutto impotente, come di fronte al fulmine o a un’alluvione, ho capito che la belva mi avrebbe fatto a pezzi, che stavo per morire… poi ho sentito un suono come di un flauto, e uno scalpiccio di passi… dopo un istante l’orso era svanito. Mi rialzai tutto pesto e insanguinato, chiamai aiuto… ma lì intorno non c’era proprio nessuno. Continuo a credere che fu san Michele a salvarmi… o uno spirito silvano, non so. La morale di questa storia è che… la natura è viva, possente e brutale… e noi non possiamo nulla contro di essa».

L’orologio della torre campanaria scoccò le sette. Herr Fichte vuotò d’impeto il suo boccale, constatando che la birra rimasta all’interno era sgradevolmente tiepida. Alzandosi a fatica in piedi sentenziò: «Tra due secoli al massimo, ne sono più che sicuro, conflitti e ingiustizie saranno solo uno scipito ricordo e gli uomini vivranno in armonia fra loro e con un mondo trasformato in giardino».

Estrasse di tasca un paio di monete, le fece tintinnare sulla superficie del tavolo e, trascinando la borsa, uscì nella sera.


[1]Krug=boccale (in tedesco).

1 commento per “Il taverniere di Jena

  1. Giulio Bonali
    12 Agosto 2024 at 8:37

    Soltanto mezzo secolo dopo o poco più due allievi critici del biondino, proprio alla vigilia di un promettentissimo sussulto rivoluzionario paneuropeo (sarebbe diventato proverbiale), in una delle prime loro brillanti pubblicazioni comuni, avvertivano, quasi en passant, che ogni tappa del progresso umano può esitare, in alternativa all’ instaurazione di “superiori” rapporti sociali, nella rovina comune degli antagonisti che si scontrano nel corso di essa.
    In quel clima di ottimistica euforia circa il progresso dell’ umanità (ulteriormente incrementata rispetto a quel maggio piovoso), ma anche in tutto l’ intero secolo successivo per lo meno, sembrava e sarebbe sembrata quasi una deteriormente nozionistica “nota a piè di pagina” dettata da eccessivo scrupolo pedantesco.
    Ma così non era e non é.
    Ma si ingannavano sia Fichte che il buon oste.
    Contrariamente alle illusioni di Herr Professor (e di tanti altri; ma anche contrariamente alla fatalistica rassegnazione dell’ onesto locandiere), non si dà alcuna garanzia della vittoria del progresso e della civiltà sulla barbarie (ma nemmeno si tratta di una battaglia inevitabilmente persa).
    E’ invece una lotta aperta, dall’ esito tutt’ altro che scontato.
    Ma anche nel deprecabile caso venisse sconfitta, non per questo non meriterebbe di essere combattuta, né chi sia dotato di piena umanità non dovrebbe esitare nel combatterla.
    Perché come dicevano, fra gli altri, gli antichi stoici e il teista Severino Boezio, quali che siano i concreti risultati che si ottengono (o meno) nel praticarla, “la virtù é premio a se stessa”..

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