Pubblichiamo la relazione del Prof. Antonio Martone al decennale de L’Interferenza tenutosi lo scorso 11 Maggio.
- Competizione maschile e cooperazione
femminile?
Una posizione
oggi ricorrente nel dibattito pubblico vorrebbe l’incapacità da parte delle
donne di ottenere una reale valorizzazione della propria femminilità a causa
della necessità di imitare i modelli maschili. Secondo questa posizione, molte donne avrebbero
ottenuto posti di rilievo nella società soltanto
sacrificando la propria femminilità. In altre parole, in nome del successo, le donne
avrebbero dato spazio a ira, superbia, lussuria, competizione e magari anche, se si guarda ad alcune
donne di potere contemporanee, a cinismo senza scrupoli. In pratica, trattasi proprio
di quelle caratteristiche che le donne stigmatizzerebbero negli uomini. Se
ciò fosse vero, assisteremmo ad un malinteso
concetto di emancipazione capace di produrre una sorta di virilizzazione del
femminile: una rinuncia alle proprie prerogative “naturali” – l’empatia, la
relazione, la sensibilità – a favore di ruoli modellati su stereotipi maschili.
Come rispondere a questa tesi? Intanto, dico subito che la questione della
femminilità e della sua espressione è complessa e sfaccettata: non esistono
prove storiche tangibili che confermino l’esistenza di una forma pura e
inespressa di femminilità tale da poter emergere quando le donne non imitino
gli uomini, soggettivandosi finalmente in modalità cooperative e relazionali – ciò
che si considera, in maniera chiaramente sessista, mero appannaggio ontologico
del femminile. Pertanto, sembra a me occorra svolgere un’analisi che non presenti
metafisiche della relazionalità e dell’empatia
attribuite alle donne o della cattiveria
e della competizione che sarebbe invece tipica degli uomini. Per
comprendere appieno la questione, è necessario offrire un quadro più completo non
tanto del rapporto fra generi quanto dei processi di formazione della
soggettività nel tempo del capitalismo post-industriale.
Credo dunque che
tale prospettiva sia sbagliata, antistorica oltre che profondamente ideologica
e cercherò di dire perché. Contestualmente, utilizzerò la critica di questa
posizione per illustrare alcune delle trasformazioni avvenute a ridosso del
capitalismo fra la fase moderna e quella attuale.
Nella modernità, il genere maschile era competitivo o prevaricante al fine di
procurarsi privilegi pubblici e privati tali da imporsi su un genere femminile
sottomesso e impossibilitato dal farsi valere? Io direi che porre la questione
in questi termini costituisca un esempio di che cosa sia un’ideologia capace di
distorcere la realtà. In effetti, piuttosto che di potere maschile ai danni del
femminile, io credo si trattasse di una semplice questione di “divisione del
lavoro” che tiene conto del dimorfismo di genere: gli uomini naturaliter “fatti” per sostenere l’impatto
della guerra e del lavoro, e le donne invece per la cura e la gravidanza. Non andrebbe
mai dimenticato che la guerra ha
sempre costituito, purtroppo, una drammatica realtà capace di investire uomini
di ogni generazione. Inoltre, erano ancor sempre gli uomini a dover sostenere
perloppiù il peso del lavoro non domestico, dal momento che lavoravano nei
campi, nelle fabbriche, nelle miniere e in altre professioni fisicamente
gravose. In realtà, erano soltanto pochissimi gli uomini in grado di assurgere
a posizioni di potere – la gran parte ne era ampiamente esclusa, poiché l’appartenenza
a una determinata classe sociale, l’educazione, la razza e altri fattori determinavano
la possibilità di accedere ai privilegi delle classi dominanti.
Sembrerebbe dunque – nonostante i luoghi comuni
oggi diffusi dappertutto – non ci fosse alcun privilegio reale nel nascere
uomini. È certo invece ci fosse una logica destinale piuttosto drammatica per i
ceti inferiori che non risparmiava alcun genere, poichè gli uomini erano
esposti alle durezze della vita insieme
alle loro donne, vivendo magari in condizioni di indigenza o di sussistenza: è dunque piuttosto arduo
decidere in maniera definitiva se la vita fosse più difficile per gli uomini o
per le donne.
Tornando dunque al
nostro tema, quando si osserva che le donne mancano l’obiettivo della valorizzazione
della propria femminilità poiché imitano gli uomini, di quale maschile stiamo
parlando? Dove dovremmo rinvenire cioè quel maschile pregno di prevaricazione e
di volontà di potenza? L’ideologia attribuisce il potere al genere maschile nella
sua interezza ma non considera la stragrande maggioranza degli uomini che non
possedevano nulla se non – appunto – la propria prole, le proprie braccia e il
proprio corpo come carne da cannone o da lavoro. Oggi stesso, del resto, nonostante una certa vulgata femminista ami pensare a
quello maschile come ad un genere privilegiato, va ricordato che gli
uomini sono sottoposti a grandi pressioni quotidiane tese a conformarli a
standard lavorativi precisi. Spesse volte, tali standard sono durissimi ed
inflessibili, oltre al fatto che risultano a rischio di incidenti – com’è
dimostrato dall’altissimo numero delle morti maschili sul lavoro.
In questo
quadro, allora, piuttosto che rifugiarsi nell’ideologia, per comprendere come
mai il genere femminile – a partire dalle donne di potere contemporanee – sia
ben lontano, nella grande maggioranza dei casi, dall’offrire esempi di empatia,
cooperazione, solidarietà, sensibilità e pacifismo, piuttosto che chiamare in
causa il maschile, credo sia utile porre l’accento sulle trasformazioni epocali
avvenute negli ultimi decenni in Occidente – le stesse che hanno implicato una
svolta decisiva nei processi di formazione dell’identità e nella determinazione
di inedite modalità di divisione del lavoro.
Il complesso di
Edipo in Freud descrive una fase dello sviluppo psicosessuale dei bambini in
cui essi manifestano desideri erotici nei confronti del genitore del sesso
opposto e sentimenti di rivalità verso il genitore dello stesso sesso. La
“castrazione” in questo contesto è un meccanismo simbolico attraverso
il quale il bambino apprende a rinunciare ai desideri proibiti per evitare le
punizioni (ad esempio, la paura di perdere l’amore dei genitori). Per Freud, questo
processo è cruciale per l’integrazione delle norme sociali e culturali e per la
formazione della coscienza individuale e sociale. Diversi decenni dopo Freud,
Foucault, studiando le società moderne, ha affermato che tali società non sono
altro che giganteschi dispositivi di disciplinamento. Secondo Foucault, scuole,
ospedali, prigioni sono istituzioni che impongono una rigida “normalizzazione”
ai membri della società, oltre ad escludere chi tale normalizzazione dovesse
rifiutare. Pur nella loro diversità, in entrambi gli autori, pertanto, Freud e
Foucault, viene sottolineano il fatto che gli individui devono conformarsi a
norme sociali assai stringenti: per entrare nella società, come del resto,
avevano già sottolineato i contrattualisti della prima modernità, occorre
realizzare un sacrificio.
Ad opporsi
frontalmente a quest’idea tipicamente moderna di disciplinamento sono stati in
tanti fra i quali vale la pena ricordare
anzitutto Deleuze e Guattari. Secondo questi ultimi, le forme moderne di disciplinamento – che siano verticali e
statali o biopolitiche e governamentali – riflettono una fase della società
ormai superata da forme inedite – l’opera dei due autori francesi va
contestualizzata nel movimentismo post-sessantottino – di soggettivazione che comprendono una
concettualizzazione molto diversa del desiderio umano. Uno dei principali argomenti
esposti in L’anti-Edipo afferma che il
modello psicoanalitico freudiano, con la sua ossessione sulla famiglia, non fa
altro che ridurre la complessità del desiderio, imponendogli un sistema
normativo e autoritario che reprime l’energia vitale e l’individualità in vista
della conformità a ruoli predeterminati e a rigide norme sociali.
Per contrastare
questo paradigma, i due autori propongono allora un approccio schizoanalitico,
teso a liberare l’individuo dalle catene della “normalizzazione”. La
schizoanalisi non si limita alla sfera individuale ma si estende anche alla
dimensione collettiva, attivandosi contro le strutture di potere
istituzionalizzate, promuovendo altresì l’attivazione d’un desiderio
costantemente creativo. In questa prospettiva, soggettività metamorfiche significano
trasformazioni costanti di identità “nomadiche”.
- Il polimorfismo identitario e il nuovo
Capitalismo
Oltre a Deleuze
e Guattari, la temperie che si è attivata nella decostruzione dei processi di
disciplinamento a cui la soggettività moderna era sottoposta si compone di numerosi
autori e tutti loro hanno avuto – del resto, con buone ragioni – ampio impatto.
Per citarne soltanto qualcuno, Vattimo, Lyotard, Derrida si sono vigorosamente attivati
per evidenziare le dinamiche attraverso le quali le identità vanno configurate
come entità fluide, ontologicamente differenti da sé, plasmate dalle forze del
potere e del discorso. Questi pensatori hanno incisivamente criticato le
identità monolitiche e le strutture autoritarie, nonché le grandi narrazioni
che hanno dominato il pensiero occidentale.
E dunque anche
sulla scorta dell’importante lavoro decostruttivo portato avanti dagli autori
citati, come appare il contemporaneo? Presto detto. Nel nostro tempo
sembrerebbe non esista più una norma che limita ma che, nello stesso tempo,
indica direzioni e permetta di appoggiarsi su una qualche “misura” identitaria.
Che cosa rimane? Rimane uno spazio
storico-esistenziale complesso, ambiguo, polisemantico – in una parola,
labirintico. Se la castrazione paterna rappresentava la precondizione in base
alla quale il soggetto veniva introdotto nelle norme della società, nel mondo
contemporaneo l’azione umana è libera di svolgersi senza trovare alcuna
identificazione simbolica capace di trattenere il desiderio. Ne discende che
oggi, sia il femminile, sia il maschile (e più in generale, qualsiasi
soggettività) possono muoversi, anzi, sono esortati a farlo, senza alcun freno
che non siano le proprie possibilità economiche.
Nella modernità
edipica vigeva un senso di direzione – di cui ovviamente non si tratta di
essere nostalgici – una ricerca di nuovi territori da esplorare e conquistare –
ciò che chiamo il mito della Frontiera.
Nel contemporaneo, invece, questi limiti diventano sfumati, ambigui, rarefatti
e il senso della storia si perde in un infinito presente dove le percezioni e
le identità si costruiscono e decostruiscono continuamente, in assenza di ruoli
o, al limite, con ruoli flessibili. Un’identità simile – ciò che altrove ho
definito identità del clic – non può
che sentirsi “sballata”, precaria, mutevole, senza essenza e priva di sostanza,
destinata a muoversi all’interno d’una realtà acefala, spesso grottesca, necessariamente
nichilista.
In questo quadro, che cosa significa allora lo slogan che attraversa
l’inconscio dell’intera visione del mondo contemporaneo: “vivi il presente?”. Tale
slogan intende semplicemente che bisogna lasciare il maggiore spazio possibile
allo scatenamento del desiderio. E di quale desiderio si parla se non di quello
che pretende di esaurire il mondo e sé stessi, sotto la spinta del sistema
capitalistico, considerando, in egual misura, cose, natura, uomini e sentimenti
come beni di consumo da bruciare incessantemente?
Vivere il
presente comporta l’erosione di qualsiasi identità. E infatti: l’identità di
partito è cancellata da tempo; l’identità familiare è sempre più labile; quella
nazionale (almeno quella italiana) è superata dalla globalizzazione; l’identità
sessuale va dissolvendosi. Gli esseri umani – è questo il progetto in via di
realizzazione – dovranno divenire uno spazio liscio senza alcuna asperità
capace di ostacolare la presa del potere. Essi dovranno essere prevedibili
sempre, costantemente aperti alla colonizzazione da parte di vecchie e nuove
abitudini di consumo, docili e conformi a modelli pre-confezionati dai media,
dai pubblicitari, dai format delle piattaforme elettroniche, dall’ingegneria
robotica e cibernetica. In un mondo simile – già presente ma che diventerà
ancor più strutturato domani -, le carte di credito e i contatori di cassa
suoneranno l’estrema colonna sonora di un mondo dove gli uomini sono diventati
superflui. Sentiamo distintamente questa musica anche ora, ma dobbiamo essere
consapevoli che la melodia diverrà sempre più forte: la colonna sonora del
nulla costituisce la marcia funebre del legame comunitario e dell’uomo così
come lo abbiamo finora conosciuto. Nel nostro tempo, il valore – anche quello
di un uomo – è stato quasi del tutto cancellato dal mondo. Al suo posto, è
subentrato il prezzo. Tutto, quasi tutto oggi, può avere il suo corrispettivo
in denaro. Di conseguenza, tutto, quasi tutto oggi, ha solo e soltanto un
prezzo.
Proprio per questo, disporre di Capitale (la vera
divinità di questo tempo), comporta una sensazione di salvezza mentre, al
contrario, perderlo significa dannazione. Disponendo di Capitale, io sono salvo
nella misura in cui una quota di mondo mi appartiene e tale appartenenza
costituisce il connotato precipuo della mia identità. Se tutto questo è vero,
ne consegue che in un mondo secolarizzato e post-religioso quale quello in cui
viviamo, l’unica realtà sacra rimasta è il Capitale ed è soltanto rispetto a
quest’ultimo che un’identità umana, altrimenti sfuggente, può riservarsi
stabilità e connotati caratterizzanti.
Attraverso
la produzione incessante di modelli,
immagini e ideali, il capitalismo inscena ogni
giorno una vera e propria “rappresentazione mitologica”, diversissima da quella
che spiegava l’origine del mondo e la sua struttura fondamentale, e pure parecchio
lontana da quella legata al dispositivo moderno costruito sul trinomio
Dio-Patria-Famiglia, e tuttavia parimenti capace di “mitologizzare” il quotidiano.
I “miti d’oggi” –
per riprendere la formula di Roland Barthes – s’impongono con forza non minore
di quelli della modernità disciplinare, poiché sono dettati da celebrità,
influencer, marchi e stili di vita. I miti contemporanei modellano una realtà
sempre più effimera e mutevole, costituita da flussi di personaggi, immagini, simboli
che si cancellano senza lasciare impronte durature nella coscienza collettiva.
La velocità con cui i miti emergono e scompaiono riflette la natura stessa
della società contemporanea, caratterizzata da impulsi dromologici e macchinali
atti a consumare il mondo e sé stessi in maniera compulsiva.
Va notato, peraltro,
che le forze politiche non fanno eccezione a questo schema – anzi, di quest’ultimo,
esse rappresentano un vero e proprio archetipo. Le ideologie politiche, i
leader carismatici e le promesse di cambiamento possono sì suscitare entusiasmo
e fervore, ma sono ineluttabilmente destinati a svanire assai rapidamente. Il
fenomeno dello stato d’eccezione
eretto a condizione normale del sistema, pertanto, mette ulteriormente in
discussione la stabilità e la coerenza del panorama politico, azzerando la
lungimiranza, e contribuendo alla sensazione di incertezza e disillusione
diffuse nella società. Tutto passa. Soltanto il meccanismo di funzionamento del
sistema appare immutabile e la sua “naturalizzazione” è solo un trucco atto a far
credere che l’avidità predatoria sia la legge inevitabile della natura umana.
- La Reificazione come nuova legge del
Capitale
Nel contesto
della mercificazione, le persone vengono oggettivate attraverso l’iper-sessualizzazione
dei media, la promozione di ideali di bellezza irrealistici e la produzione di
modelli umani di successo venduti come oggetti sessuati desiderabili. In modo
particolare, il corpo delle donne è commercializzato come oggetto di desiderio
– venduto sia sul piano sessuale, sia come prodotto che serve a vendere altre
merci. E’ chiaro che molte donne ricavano grandi vantaggi, economici e di
prestigio sociale, da tutto questo e tante fra esse tendono a favorire questo
sistema, spacciandolo per difesa della donna e della sua libertà. Esse giocano questa partita in modo spregiudicato,
prendendosi cinicamente tutti i benefici proprio mentre ostentano patetiche
pose emancipatrici. Non deve stupire che esistano donne di questa indole,
proprio come esistono uomini di indole assai affine. E va detto anche che l’Occidente
politicamente corretto al servizio dell’ideologia neoliberale e del
tecno-capitalismo incoraggia con decisione l’emergere e il proliferare di questi
modelli.
Il sentirsi
“merce” implica una vulnerabilità specifica che può significare manipolazione e
trattamento insensibile da parte di altri, i quali possono decidere
arbitrariamente di “buttare via” l’individuo, una volta che non serva più ai propri
scopi o desideri. Si tratta di un vero e proprio “territorio di scarto” che
coinvolge le persone medesime: sono tanti, infatti, nel nostro contemporaneo
gli ambiti sociali, i territori, gli individui, i ceti, e perfino interi paesi,
esposti all’utilizzo e allo sfruttamento e, alla fine, all’abbandono.
Se ciò che sono
andato dicendo finora ha qualcosa di vero, allora, se ne deduce che la capacità
dispotica del contemporaneo sia decisamente più forte di quella moderna. La legge
disciplinare costituiva pur sempre una norma “esterna” e dunque, in quanto
tale, le si poteva in qualche modo resistere. Il potere contemporaneo, invece, viene
introiettato e si sa che non esiste giudice più inflessibile del proprio
despota interno.
Il capitalismo
ha saputo costruire abilmente un simbolico che tutti sono chiamati ad imitare:
non più basato su una legge paterna universale ma su una produzione di significato che serve
gli interessi dell’oligarchia mercatistica, dei suoi sacerdoti e dei suoi
chierichetti. Siamo evidentemente intrappolati in un labirinto di aspettative e
desideri imposti in maniera sistemica e l’identità umana, maschile o femminile
che sia, è diventata – appunto – merce fra le merci. Sia le donne, sia gli
uomini sono guidati da meccanismi sottili e complessi che utilizzano – fra le
altre – ideologie come il femminismo, il transumanesimo tecnofilo, il
globalismo dei diritti umani e della democrazia liberale per perpetuare e
consolidare un (bio)potere di formazione e di controllo della psico-sfera umana
che si realizza perloppiù attraverso un’intensificazione della visione del
mondo secondo cui there is no alternative to capitalism.
La reificazione degli
esseri umani è divenuto del tutto onnipervasivo nel tardo capitalismo di stampo
neo-liberista. Il neoliberismo – esteso ormai in maniera tale da impregnare di
sé, fino ad appiattirli, tutti i raggruppamenti politici, sia di destra sia di sinistra
– diffonde in maniera capillare e martellante una propaganda fintamente libertaria volta, in
realtà, a creare immagini che “producono” coscienze ed emozioni alimentando il
biopotere tecnocratico. Lo stesso conflitto di genere, del resto, è attivato
allo scopo preciso di frammentare e diffondere antagonismi rivendicativi, in
maniera tale da disinnescare la possibile presa di coscienza – di donne e uomini insieme – della situazione
di manipolazione e di controllo a cui entrambi i generi sono sottoposti se non
appartenenti alla sempre più ristretta oligarchia globalista.
In questo
contesto, l’impegno nei confronti della diseducazione all’autodeterminazione
democratica è evidente. E si comprende bene perché: l’avvio di processi
cognitivi volti a comprendere il proprio posizionamento socio-economico potrebbe
sollevare dissenso – ciò che deve essere invece deliberatamente evitato. La
società tardo-capitalista si dice inclusiva ma non pone mai il problema di una
reale inclusività, poiché parte dal presupposto che l’unica esclusione davvero
giustificata e legittima vada esercitata contro chi non è in grado di usare con
la giusta disinvoltura la carta di credito. In fondo, vale sempre lo stesso
discorso: tutti siamo liberi e uguali, ma chi è seduto al posto giusto, è più
libero e uguale degli altri.
Nel mondo
globalizzato, le merci viaggiano liberamente ma il movimento delle persone è
guardato con sospetto e, quando possibile, impedito. Sembrerebbe dunque che stiamo
sperimentando un nuovo apartheid: il
capitalismo richiede una forza lavoro “libera”, eppure controlla i movimenti
dei popoli. Viene in evidenza qui un’altra contraddizione decisiva: libertà per
il capitale, restrizioni per le persone! E quanto alla contraddizioni di
sistema di cui non bisogna occuparsi, come non ricordarsi dell’immane tragedia
dei morti sul lavoro la cui grande maggioranza sono uomini? Ogni anno, circa
mille vite di lavoratori vengono spente solo in Italia. Queste morti dovrebbero
toccare la sensibilità di tutti. Sembra invece che non riescano a provocare clamore,
non suscitino scandalo mediatico, non generino marce o prime pagine comparabili
alle morti che riguardano il genere femminile. Eppure, si tratta di esseri
umani che non fanno ritorno a casa, i cui sogni e speranze si infrangono in
fabbriche, cantieri, campi e uffici. Non vi è dubbio che ogni forma di
violenza, ogni minaccia per la vita debba costituire un urlo degno di trovare ascolto
nello spazio pubblico. Ma perché questa disparità di attenzione? Perché il
lavoratore che perde la vita sotto il peso di macchinari non adeguati, di norme
di sicurezza trascurate o di ambienti di lavoro pericolosi non attiva allo
stesso modo l’indignazione pubblica? Forse gli uomini sono un genere
sacrificabile? Forse dei morti sul lavoro
non si parla perché altrimenti il sistema dovrebbe mettere in discussione sé
stesso?
Forse è più facile dividere i lavoratori in generi di appartenenza e metterli gli
uni contro gli altri? Si divide orizzontamente il campo degli oppressi: in fondo,
nient’altro che il vecchio e sempre valido divide
et impera.
- Il rapporto ECity/NoCity: un nuovo sguardo
Per affrontare i
dilemmi di questo tempo, ritengo dovremmo anzitutto pensare all’interno d’una logica
di sistema. Se adottassimo uno sguardo capace di tenere insieme la realtà
sociale e la sua eterna capacità di produrre contraddizioni, noteremmo allora
che non c’è alcuna distanza fra la ECity
e la NoCity, e cioè fra la città
elettronica, rutilante e patinata, e la NoCity,
ossia la città degli scarti e degli esclusi: esse costituiscono l’una il
rovescio dell’altra e non si può ammettere l’una senza doversi assumersi la
responsabilità dell’esistenza dell’altra. Quanto al rapporto inestricabile
di connessione sistemica fra Ecity e NoCity, allora, come ignorare che il
globo è ricoperto da discariche che non si sa più come reintegrare all’interno
del ciclo produttivo. È probabile che il nostro tempo, se verrà ricordato per
qualcosa, sarà per la sua immane capacità di produrre spazzatura comune,
tossica, nucleare, culturale. Il mondo patinato e smart della ECity, costantemente popolato da desideri di consumo sempre vivi, è destinata
ad arretrare progressivamente sotto l’urto delle distese sconfinate di rifiuti
eruttati dalla perversa macchina da guerra del mondo globale. Se non si
provvede con rapidità e tempestività, un giorno non lontanissimo, come già
annunciato da alcune grandi opere dell’arte distopica, la ECity sarà soltanto una piccola isola, precariamente vivibile, senza più
alcuna possibilità di evitare di sprofondare nell’oceano di una NoCity estesa sull’intero globo terraqueo. Insomma,
perifrasando un’espressione celebre di un autore che molti di noi amano,
possiamo dire che uno spettro oggi si
aggira per il mondo: lo spettro della discarica!
Una discarica
che si concretizza in varie manifestazioni. Per esempio, un disastro ambientale
che ha provocato deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità e
aumento esponenziale delle emissioni di gas serra. Inoltre, un’esplosione senza
precedenti di disuguaglianze, ossia crescente concentrazione di ricchezza e
possibilità di vita, istruzione e cura, nelle mani di un piccolo segmento della
popolazione globale. Legato a queste due profonde contraddizioni, infine, è la
lotta geopolitica per le risorse scarse – segnatamente quelle energetiche – ciò
che sta vieppiù esacerbando le tensioni globali e regionali tanto che, dopo
diversi decenni, il mondo sembra di nuovo sulla soglia di una catastrofe bellica
planetaria.
In conclusione,
se volessimo ridare una quota di equilibrio ad una storia che oggi appare
“scardinata” e vorrei dire perfino “sballata”, allora dovremmo adottare uno
sguardo totalmente nuovo rispetto alla nostra attuale situazione storica. Forse
abbiamo bisogno di uno sguardo simile, sebbene profondamente diverso, a quello
verticale della simbologia sacra delle cattedrali gotiche; forse abbiamo bisogno
di una nuova visione del mondo che sia capace, nello stesso tempo, di andare
oltre il verticalismo del cristianesimo e l’orizzontalità tipica dei
prometeismi moderni, poiché entrambi sembrano ormai nient’altro che “voli di
Icaro” destinati a cadere miseramente, più o meno fragorosamente, nell’Egeo.
Soltanto un
nuovo sguardo sulla realtà – uno sguardo tutto da costruire – potrà fornirci
qualche possibilità di affrontare l’ideologia tanatologica del Capitale.
Quell’ideologia che spaccia l’asservimento
per libertà, pagando il potere dei pochi con la sottomissione di tutti.
Antonio Martone (maggio 2024)