È di
completa evidenza che la ristrutturazione del Capitalismo in atto, della quale
il trumpismo costituisce la sponda politica, non comporterà d’emblée il
venire meno delle sovrastrutture discorsive del politicamente corretto. Sembra,
piuttosto, ragionevole pensare che anche le pose comunicative politicamente
scorrette del trumpismo costituiscano solo uno dei registri dei quali può
avvalersi l’ideologia neoliberale in piena egemonia. Lanciata nel corso degli
anni Ottanta, dapprima sotto l’egida del conservatorismo per poi essere
imbracciata dalla sinistra di sistema, l’offensiva neoliberale si è imposta con
efficacia entrando in profondità in tutti gli aspetti dell’esistenza dei
subalterni. Utilizzando di preferenza, almeno a partire dagli anni Novanta, gli
stilemi discorsivi del politicamente corretto, in tre decenni e mezzo di
espansione ha profondamente plasmato l’immaginario individuale e collettivo. Di
conseguenza, non vengono di certo meno, oggi, le motivazioni alla base del lavoro
di demistificazione dell’universo valoriale neoliberale e politicamente
corretto. Quest’ultimo, anzi, continuerà a costituire uno dei due terminali di
una sempre conveniente polarizzazione del discorso pubblico, funzionale a
scoraggiare l’emergere di un punto di vista critico sistemico. (https://www.linterferenza.info/editoriali/a-cosa-servono-gli-intellettuali-di-sinistra/).
Il
“trumpismo”, che opera un deciso mutamento nelle sfere discorsive, è tuttavia
in continuità quanto al nocciolo del potere neoliberale e tecnocratico, che
custodisce e alimenta per altra via; e che mette semmai a nudo.
Critica
del cosmopolitismo politicamente corretto
Forse
tutti i sistemi di idee hanno prima o poi prodotto la loro cancrena. In diversi
casi, hanno inizialmente svolto una funzione trasformatrice, per poi degenerare
in un arco di tempo lungo. Con il risultato che, come già Bacone aveva compreso
molto bene, mentre spesso pensiamo di difendere un’idea o un principio, ci
stiamo in realtà arroccando soltanto a difesa di una parola, senza renderci
contro che questa ha cambiato significato, perché ad essere mutato è il suo
concreto referente. Francis Bacon, nel solco della tradizione empirista della
filosofia inglese avviata nel Trecento da Guglielmo d’Ockham, ebbe viva
consapevolezza che il linguaggio, strumento essenziale per comunicare e
intenderci, è allo stesso tempo all’origine di equivoci, fraintendimenti e incomprensioni.
Secondo Bacone, il linguaggio può fuorviarci in vari modi. Uno di questi si
verifica quando usiamo un termine pensando di riferirci a una medesima e unica
cosa, mentre in realtà la stessa parola indica cose diverse.
Questo
fatto linguistico chiaro, che nella filosofia moderna Bacone è stato il primo
ad analizzare puntualmente, si presta molto bene a spiegare la persistente
presa di sistemi di idee anche quando sono diventati qualcosa di molto diverso
da ciò che hanno rappresentato in origine. L’uso dello stesso termine favorisce
la perdurante confusione.
La
religione è un bene o un male? E la fede? L’ateismo? La laicità?
L’ateismo,
per esempio, ha svolto storicamente una funzione critica positiva contro il
dogmatismo religioso e il dominio sociale che vi era collegato. D’altro canto,
chi, dalla posizione di un laicismo oltranzista, sostiene, come accade di
sentire, che ”nessuno ha mai ucciso in nome dell’ateismo”, contrapponendo
quest’ultimo al fenomeno religioso visto come intrinsecamente fanatico,
costruisce un’asse di idee che si offre a molte smentite storiche.
L’affermazione è fattualmente falsa. Un esempio è fornito dalle “colonne
infami” giacobine che, durante il Terrore, anche in nome di una ideologia atea,
laicista e visceralmente anticristiana, nel 1794 marciarono sulla Vandea
soffocando in un fiume di sangue (le violenze furono per il vero reciproche)
una rivolta alla quale non fu estraneo il diffuso sentimento cattolico, oltre
che conservatore, delle masse contadine ormai distanti dal corso intrapreso
dalla Francia in rivoluzione.
Di
contro e simmetricamente, anche il fenomeno religioso non dovrebbe essere mai
ridotto ad una sola delle sue determinazioni.
Un
esempio lampante di un sistema di idee che conteneva elementi originari di critica
e di rottura, ma è successivamente divenuto instrumentum regni come
pochi altri è fornito dal cosmopolitismo. Occorre in primo luogo sottoporre a
critica la disponibilità di uno stesso termine per indicare i suoi tre momenti
storici fondamentali: quello stoico in età ellenistica (sebbene l’origine del
termine risalga a Diogene il cinico), quello illuministico e, da ultimo, quello
attuale, pienamente inserito nella cornice ideologica del politicamente
corretto.
Il cosmopolitismo degli Stoici prospettava la possibilità di affrancare tutti gli uomini dalle catene della schiavitù, culturalmente accettata nel mondo greco. Ne abbiamo riscontro nella Politica di Aristotele, che argomentava a favore della naturalità della schiavitù. Mentre il grande filosofo di Stagira aveva sostenuto, coerentemente con la mentalità greca che si prolunga poi in quella ellenistica, che alcuni uomini nascono schiavi, gli Stoici si appellano al Logos universale per smentire la presunta naturalità di quel dato. Poiché la ragione di tutti gli uomini, affermano ora gli Stoici, è conforme alla ragione universale, che ordina tutte le cose in modo provvidenziale, nessuno può essere considerato schiavo per natura. In nome del comune possesso della ragione, patria diventa il cosmo stesso.
Si
potrà, di contro, osservare che l’etica stoica, costituendosi come un’etica del
dovere, finisce, per altro verso, per giustificare l’obbedienza al potere e
alle sue strutture. Quanto alle ricadute sociali, tuttavia, il potenziale di
liberazione dello Stoicismo fu notevole, tanto che vi aderirono sia schiavi
liberati che un imperatore, Marco Aurelio. Occorrerà aspettare il Cristianesimo
per trovare una dottrina altrettanto capace di parlare agli ultimi della
società, contro l’elitismo della classe dirigente greco-romana.
Nel
cosmopolitismo illuministico devono senza dubbio essere cercate le radici di
quello odierno. E tuttavia, il primo svolse ancora una funzione fortemente
critica, aggregando una netta e qualificante opposizione alle numerose guerre del
Settecento, usate come strumento al servizio della politica di potenza degli
Stati europei. Di contro, il cosmopolitismo illuministico rivendicava una
“anti-patriottica” assenza di confini in nome della fratellanza universale. E,
non certo ultimo per importanza, questa componente cosmopolita dell’Illuminismo
costituì una delle matrici della grande utopia pacifista kantiana.
Se
in età ellenistica prima, quindi con l’Illuminismo, il cosmopolitismo ha
espresso il suo volto migliore, l’attuale cosmopolitismo globalista e
politicamente corretto è la cancrena di quel sistema di idee. Questa cancrena
è ciò che definisco ideologia. Per gli Stoici, il fatto che tutti
gli uomini partecipano della ragione era la grande premessa per liberarsi dal
giogo dell’asservimento e dalla sua giustificazione come presunto dato di
natura. Tutti, dunque, potevano conformarsi alla ragione universale,
ritrovando, nel Logos, il senso di una comunità più alta.
Per
l’odierno cosmopolitismo, l’appartenenza a un mondo “senza confini” e “senza
barriere” costituisce lo strumento non per ricostruire, ma per dissolvere
radicalmente ogni legame comunitario. Non più potenzialmente critico del
potere, ma sua stampella.
La
libertà del cosmopolitisimo stoico consisteva nella possibilità di estendere,
stabilendo relazioni fondate sulla pratica della filosofia, la cerchia di
quanti, in nome della ragione, sceglievano di vivere secondo il modello del
saggio, affrancandosi dai lacci imposti dall’ordine sociale. La libertà del
cosmopolitismo politicamente corretto coincide con l’illusione dell’illimitata
espansione di sé in un mondo-mercato globale dal quale è stato rimosso ogni
ostacolo all’affermazione individuale. Si struttura, dunque, sulla posizione
dell’individuo al centro di un sistema valoriale che ha dissolto i termini
della relazione con l’Altro e sgretolato il senso di comunità. Questa
dissoluzione, che viene continuamente investita di connotazioni positive e
progressive, nasconde in realtà l’irruzione della cultura d’impresa in ogni
ambito dell’esistenza individuale. Mentre il saggio stoico si riscopriva
cittadino di una pòlis universale unificata dall’esercizio della virtù,
il “cittadino” globale è cosmopolita perché non esiste più alcun limite alla
realizzazione di sé e dei suoi desideri. Né è stato il cosmopolitismo
illuministico, in definitiva, ad abolire i confini, bensì il Capitalismo, il Mercato
e, da ultimo, il nuovo ordine digitale. Questo “cittadino globale”, plasmato in
modo da essere incline ad abbracciare il sistema di valori del cosmopolitismo,
non sa più guardare oltre l’alto steccato dell’individualismo narcisistico. È
in realtà un nuovo suddito, perché ha smarrito ogni senso della collettività e
del sacro, risolvendo interamente nel Capitalismo l’esigenza di trascendenza.
Da ultimo, ma non per importanza, e del resto coerentemente, il cosmopolitismo
illuministico fu anti-bellicista – certamente in controtendenza e in polemica
con la realtà di guerra diffusa del tempo, ma appunto fece della denuncia di
quella logica la sua istanza centrale –, mentre quello odierno è guerrafondaio
– e può persino farsi apertamente beffa del pacifismo – non essendo fondato
sulla richiesta della razionalità come reale elemento fondativo delle relazioni
internazionali, ma sulla presunzione della superiorità dell’occidente in
quanto liberale e illuministico, che sfocia fatalmente in una logica di
contrapposizione e di guerra.
Per concludere, una precisazione che non dovrebbe servire. Proprio non ci dovrebbe essere bisogno di dire che nulla ha a che vedere il cosmopolitismo con l’internazionalismo socialista. Tuttavia, la confusione sotto il cielo è grande, e allora sarà bene averlo detto una volta ancora. Aggiungendo, anzi, che il cosmopolitismo politicamente corretto individua proprio nel Socialismo il suo maggiore campo di avversità.