La qualità di una intera civiltà è espressa materialmente nelle istituzioni della ricerca e della formazione. “Ricerca significa libertà” dai condizionamenti politici ed economici. La “Ricerca” è il luogo dello spirito in cui la cultura critica esanima i limiti e le possibilità del proprio tempo storico. La “Ricerca” è prassi che porta alla luce il male incistato dietro la cortina delle belle parole e dell’ideologia, è maieutica, è l’ostetrica della vita. La libertà svincolata dagli interessi lobbistici è il lievito discreto che fa fiorire un nuovo mondo nel quale l’esperienza storica non solo è pensata, ma diviene il volano per processi di consapevolezza collettiva che assediano il potere economico fino a condurlo all’interno di una cornice etica e politica.
Il comunismo è umanità che scopre il suo fondamento comunitario per attuarlo in un processo che inizia nell’immediato ma si affina nella temporalità storica umana: è ricerca dell’umano ritrovato. Il comunismo è progettualità comune, ha lo scopo di fondare una comunità, in cui le istituzioni formative pensano l’economia e deviano dai guasti antropologici e ambientali della crematistica e pongono la “metafisica” quale obiettivo imprescindibile.
L’istituzione universitaria dovrebbe essere il luogo in cui la comunità fiorisce a nuovo, dove si pratica il comunismo senza il quale “il naturale fondamento comunitario dell’umanità”, non può tradursi in vita comunitaria.
Pierre Bourdieu nel suo Homo academicus descrive il mondo accademico incapace di oggettivare se stesso e pertanto imbrigliato nelle dinamiche di potere che lo conducono a prosciugare le energie migliori e ad essere l’istituzione che riproduce le dinamiche del capitale. Gli accademici sono la parte dominata dei dominatori, sono lo strumento mediante il quale il sistema riproduce se stesso controllando la formazione delle classi dirigenti. Le istituzioni universitarie sono segnate dalla competizione al limite delle guerre tra bande, l’ossessione concorsuale con la guerra annessa per la distribuzione dei ruoli di potere e prestigio riproduce il sistema economico con le sue selezioni manipolate ma formalmente corrette:
“Lungi dal costituire la minaccia di una rivoluzione permanente, la lotta di tutti contro tutti – che l’essere sempre sotto concorso instaura tra quelli che sono oramai entrati in gara e che hanno le disposizioni a competere, richieste e al contempo rafforzate dal fatto stesso di gareggiare – contribuisce, proprio per la sua stessa logica, a riprodurre l’ordine come sistema di scarti temporali: da una parte, perché il fatto stesso di concorrere presuppone e produce il riconoscimento e delle poste in gioco comuni della gara; dall’altra parte, perché la competizione si limita, in ogni caso, ai concorrenti situati più o meno allo stesso punto della gara, e perché ad arbitrare sono quelli che vi occupano una posizione più avanzata[1]”.
Ma come si giunge al vertice? Quale percorso è opportuno effettuare per scalare la lunga via irta di concorsi e competizione che porta alle posizioni apicali?
Dipendenze
Le relazioni di potere sono la struttura portante della realtà universitaria, di conseguenza la ricerca non può che essere “condizionata” da tali dinamiche che espellono le menti indipendenti e fertili per prediligere personalità disponibili a vivere all’ombra del padrone di turno. L’autonomia è negata, si sviluppano e consolidano personalità accademiche formate alla “contrattazione ideologica”, in tal modo le accademie divengono organiche al contesto segnato nel profondo dal valore di scambio e dalla mistificazione della realtà. La conservazione politica ed economica si consolida nelle istituzioni deputate alla critica sociale, in tal modo il potere si riproduce senza rigenerarsi. Tutto diviene “mercato”, quindi, i rapporti di forza sono oscurati dai titoli e dal linguaggio scientifico:
“Le relazioni di dipendenza, e il loro destino, dipendono sia dalle strategie del «patrono», quelle legate alla sua posizione e alle sue disposizioni, sia dalle strategie dei «clienti», naturalmente nei limiti delle ondizioni nelle quali le une e le altre si esercitano. La più importante di queste condizioni è con ogni probabilità la tensione del mercato dei posti in una determinata disciplina (poiché quanto più è forte tanto più il gioco sono i radiventa facile per i potenti, e per la stessa ragione anche la concorrenza tra i nuovi entranti diventa più forte). Se si mettono da parte quei professori che – probabilmente molto pochi in quest’area dello spazio accademico -, come aerma un intervistato, «stimolano intellettualmente, aiutano a lavorare e spingono a pubblicare» (linguista, 1971), si vede come i «patroni» ben accomodati nella loro posizione, cioè ben dotati del senso del gioco necessario a piazzare i loro clienti, assicurare loro una carriera e assicurarsi così la trasmissione del potere, devono trovare l’optimum tra il desiderio di tenere in pugno il più a lungo possibile i loro «pupilli», evitando che raggiungano troppo velocemente l’indipendenza, addirittura una concorrenza attiva (in particolare per la clientela), e la necessità di «sostenerli» sufficientemente per non deluderli, per legarli a sé (evitando per esempio che si trasformino in concorrenti) e allo stesso tempo sostenere il loro potere, rafforzando in tal modo il proprio prestigio accademico e la propria forza di attrazione[2]”.
Se i pupilli dei docenti in posizione apicale sono controllati e ridisposti gradualmente nei ruoli a cui ambiscono, ciò non può che mettere in circolo le passioni tristi spinoziane che deprimono le capacità creative dei singoli ed espellono le intelligenze più autonome e originali.
Il potere in tal modo si riproduce in modo sempre simile, riesce a conservare se stesso debilitando l’intelligenza critica dei futuri professori mediante un’investitura feudale che stabilisce rapporti di dipendenza:
“Il successo di una carriera accademica passa attraverso le «scelte» di un patrono potente, che non è necessariamente il più bravo né il più tecnicamente competente; è per questo motivo che le camere più prestigiose per i «filosofi» della generazione che accederà alla maîtrise negli anni ’70-’80 dipendevano dalla presentazione di un argomento di tesi presso uno dei professori della Sorbona degli anni ’50-’60, essi stessi riuniti trent’anni prima attorno a ÉmileBréhier e Léon Brunschwicg[3]”.
Politicamente corretto
Il politicamente corretto diviene il perverso imperativo che tutto muove, pertanto nell’istituzione deputata all’innovazione e alla ricerca comunitaria di nuovi paradigmi si assiste ad una “ideologica resistenza” al nuovo. Muore la prassi della condivisione per strutturarsi la naturalizzazione dei rapporti vigenti. Capire le dinamiche universitarie significa comprendere il nichilismo in cui siamo situati.
La conservazione è sempre in azione, gli equilibri interni prevalgono sulla socratica discussione, in tale cornice Socrate sarebbe invitato a bere mille volte la cicuta:
“La sorda resistenza all’innovazione e all’invenzione intellettuale, l’avversione per le idee, per la libertà di spirito e la critica che orientano così spesso i giudizi accademici, tanto nelle discussioni di tesi o nelle recensioni quanto nei corsi così equilibrati da non parteggiare per l’una o l’altra avanguardia del momento, sono probabilmente l’effetto del riconoscimento accordato a un’istituzione in grado di dare garanzie statutarie, quelle attribuite al pensiero conforme all’istituzione, solo a coloro che accettano senza saperlo i limiti posti dall’istituzione[4]”.
Il fulgore dell’apparire prevale su ogni altra manifestazione. La verità è espulsa dai giochi di potere, lo status di filosofo è dato a colui che in un dato momento “appare” come il filosofo per visibilità sociale e carriera, ma in realtà il titolo è concesso in virtù della posizione che occupa. L’apparire è tutto, la verità sembra perire dove dovrebbe essere perseguita, vissuta e testimoniata. La decadenza di un’intera civiltà è nello scambio “in stile valore di scambio”. Il giovane studioso sceglie il patrono di turno per il suo prestigio e in tal modo riceve l’investitura:
“(…) Infatti, sebbene possa sembrare che la «scelta» dell’argomento e la «scelta» del patrono rispondano a due princìpi indipendenti, in realtà traducono le stesse disposizioni in due logiche differenti: il senso della superiorità filosofica mostrata attraverso argomenti molto importanti e la nobiltà degli autori si manifesta simultaneamente nella scelta di un «patrono» che, per la sua posizione accademica almeno quanto per la sua opera, può apparire al momento considerato come il più filosofo dei professori di filosofia, mentre è colui che ha una posizione migliore per assicurare al pretendente filosoficamente ambizioso le condizioni sociali del pieno esercizio dell’attività filosofica, cioè, concretamente, un posto nella facoltà. L’una e l’altra «scelta» esprimono questa sorta di senso del posizionamento inseparabilmente intellettuale e sociale che porta gli aspiranti più noti verso le materie più nobili e verso le posizioni più prestigiose alle quali possono essere ammessi. Come la «scelta» del coniuge, la «scelta» del patrono è anche in parte un rapporto di capitale a capitale: è nella superiorità del patrono e dell’oggetto di tesi scelti che il candidato manifesta chiaramente il senso della propria grandezza e anche della grandezza dei patroni che sarà possibile scegliere, una sorta di buono o cattivo gusto in materia intellettuale (con tutti gli eetti possibili dell’allodossia). Il patrono non sceglie, piuttosto è scelto; e il valore dei suoi allievi che, pur senza essere della sua disciplina, gli accordano tuttavia una forma di riconoscimento intellettuale, contribuisce a costruire il suo valore – come egli contribuisce a costruire il loro[5]”.
L’ Homo academicus di Pierre Bourdieu sembra chiederci di uscire dal politicamente corretto delle istituzioni con le loro gerarchie feudali e capitalistiche per scegliere l’autonomia del pensiero senza solitudine. Il pensiero comunitario è nella diaspora dalle “logiche feudali del neocapitalismo”, è vivere e testimoniare la natura comunitaria del pensiero fuori dalle gerarchie di dominio.
Gli oratores, come li definì Costanzo Preve, sono un gruppo cuscinetto, la piccola borghesia del pensiero, al servizio dei potenti e delle lobby con lo scopo di condizionare e determinare le scelte ideologiche dei popoli. Dinanzi alle istituzioni sempre più palesemente al servizio dell’economicismo senza prospettiva ciascuno è vocato alla sua scelta, nessun uomo è innocente, pertanto la critica dev’essere prassi per l’esodo dal neofeudalesimo del sistema. Il coraggio di riportare la metafisica al “centro del discorso” è azione imprescindibile per la valutazione qualitativa delle accademie, senza metafisica il corpo accademico e sociale si sottrae in modo immediato al “senso del suo esserci” e rimuove le contraddizioni che lo minano nelle sue finalità etiche e ontologiche. Con la Metafisica osteggiata dalle Accademie può iniziare un nuovo ciclo della vita comunitaria, la quale è prassi verso il comunismo delle idee e delle istituzioni, l’alternativa è la sterilità competitiva programmata che induce solo alle logiche di dominio e di negazione dell’umanità.
[1] Pierre Bourdieu, Homo academicus, Dedalo edizioni, Bari, 1984, pag. 152
[2] Ibidem pag. 156
[3] Ibidem pag. 159
[4] Ibidem pp. 161 162
[5] Ibidem pag. 160