Antonio Labriola, Lucio Magri attraverso “Gramsci, Il sistema in movimento” di Alberto Burgio
Una dedica impegnativa a Lucio Magri è in calce al libro di Alberto Burgio “Gramsci, Il sistema in movimento” (ed.DeriveApprodi 2014) mentre il suo 17° capitolo, “Un eredità misconosciuta”, è dedicato ad Antonio Labriola. Apertura e chiusura ma tra i due è immediatamente rilevabile un’asimmetria di presenza testuale; mentre infatti il filosofo cassinate, oltre il capitolo, è corposamente presente in molti passaggi del libro (in altre 40 citazioni), del grande dirigente politico rimane solo il cenno di ricordo. La sorte vuole che i due siano stati i maestri più studiati e seguiti della mia formazione e anche –non solo- per il debito privato, vorrei affrontare questo Gramsci di Burgio, intrecciando un possibile dialogo tra e con loro: le premesse labrioliane\gli sviluppi magriani.
La sintesi gramsciana di Alberto Burgio
“Sistema e movimento” è il paradosso predicato nel titolo del libro. Qual è l’equilibrio tra il discorso filosofico che conduce al sistema concettuale e il passionale movimento della politica? Come questa trazione si svolge e risolve in Gramsci? Qual è la sua filosofia e la sua prassi? Le quattro parti del libro riescono in questo tentativo, giungendo ad offrire il quadro “organico” di Antonio Gramsci, un compendio non riduttivo ma anzi la base, sistematica, per ulteriore ricerca, per ulteriore movimento. Il libro funziona anzitutto perché riesce a farsi mezzo “pedagogico” nel senso alto e “gramsciano” del termine. Mantiene, infatti, la ricchezza delle fonti culturali ispiratrici e i moventi storici dentro le soluzioni concettuali: ci offre la “genesi” (si direbbe con Labriola) delle “quistioni” (si direbbe con Gramsci). Altra diade introduttiva è attualità/inattualità di Gramsci -la fulminea prefazione Attualità di un inattuale- che rinvia alla sua storiografia, ai modi e alle stagioni della sua eredità, tesa tra l’attualizzazione come fu nella sistemazione di Palmiro Togliatti e l’odierna inattualità politica “italiana” nel panorama della fortuna internazionale di Gramsci, nel grande movimento della sua traduzione globale. Insomma questo libro può permettere ad una platea più vasta degli accademici di discutere di Gramsci con elementi “scientifici”, offrendo un sistema di lettura della sparsa letteratura altrimenti disponibile solo agli specialisti, cioè non al referente che aveva in mente Gramsci, i quadri –ora solo potenziali- del partito comunista. Emerge, infatti, alla prima lettura, la chiarezza della prosa e la misura dell’apparato di citazioni quale indizio stilistico di tale scopo dialogante-formativo, intento peraltro confermato dal fatto che questo “IV saggio” – dopo Gramsci e la rivoluzione in occidente del 1999 (con A.Santucci), Gramsci storico, una lettura dei ‘Quaderni del Carcere’ del 2003 e Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno del 2007- che Alberto Burgio dedica all’opera di Gramsci, raccoglie nelle 4 parti, che lo compongono le emergenze del lungo lavoro di ricerca per offrire “… uno scenario che parla di noi” (p.6). “Un classico” della crisi, che significa ragionamento “forte” e non imbalsamatura nella memoria; sforzo sistematico che stride con la “debolezza” strategica della sinistra post-moderna. “Come Marx, Gramsci pensa dialetticamente la crisi come conseguenza necessaria dello sviluppo e come premessa di una transizione differibile ma non evitabile”(p.6). Questa totalità “moderna” è ripercorsa da Burgio tenendo insieme “teoria” e “prassi”, così da muovere la “mente” dei “Quaderni” verso la nostra attualità ancora “stabilmente” legata alla crisi secolare dell’Occidente, ancora dentro l’epoca di Gramsci.
Antonio Labriola: Filosofia della prassi e Rivoluzione Francese, nella genesi della modernità di Gramsci
Questo quarto saggio gramsciano ha il suo orizzonte nell’epoca e nella cultura di Da un secolo all’altro, il “Quarto Saggio”- dei Saggi sul materialismo storico- di Antonio Labriola. Burgio, importante studioso anche del cassinate, cui ha dedicato diversi studi, argomenta la relazione tra i due pensatori mantenedone lo sfondo storico “materiale”, il “riaffioramento oggettivo” spesso oscurato dallo “eccesso di filologia (o di filologismo)” (p.142). Questa partecipazione alla storicità comune, alla comune “embriogenesi” direbbe Labriola, permette di intendere la permanenza di concetti, di prodotti generati da Labriola e riaperti nelle quistioni gramsciane. Così si ha modo di proporzionare gli accenti polemici di Gramsci “sullo storicismo…scadente; è lo storicismo dei giuristi” nei celebri passi che aprono il Quaderno 11 (pp. 1366-1368) a proposito della”pedagogia del papuano di Labriola -“Provvisoriamente lo farei schiavo, salvo a vedere se per i suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”- ; come di ri-storicizzare l’interpretazione di Cesare Luporoni della “profonda frattura” (p.415) derivata, secondo Burgio, dal giudizio sulla morte del marxismo teorico con la fine del magistero labrioliano; come infine ricollocare le profonde difformità biografiche ed esistenziali , motivi, a mio avviso, di una critica severa come quella fatta da un caro maestro come Luigi Cortesi (peraltro studioso di Amadeo Bordiga) all’impoliticità di Labriola, al suo disimpegno dalla fondazione del partito socialista italiano.
1) Labriola è mediatore “positivo” dell’hegelismo nel pensiero di Gramsci, ancor più di Croce che lo è in “negativo”, polemicamente. In particolare con Labriola si ripropone il problema della filosofia per il marxismo. Anzitutto c’è il problema della coscienza, “…si <è> solo quando <si conosce>, <si ha coscienza> del proprio essere> (p.15) afferma il giovane Gramsci, come autocoscienza e autonomia. Quindi “…esplicita dichiarazione di fedeltà alla lezione hegeliana… e, come subito si dirà, dell’insegnamento di Antonio Labriola” rileva Burgio (p.15) riferimento filosofico fondamentale del tema dominante il pensiero e l’esistenza di Gramsci: la soggettività rivoluzionaria. Ovviamente presupporre il soggetto rompe con la vulgata meccanicista ed economicistica del marxismo scolastico e positivista, che invece lo vedeva prodursi per aggregazione quantitativa, mentre apre il problema della formazione del soggetto, della sua storicità. La “necessità storica” non è un determinismo di una qualche natura esterna, ma la consapevolezza, il ragionamento attorno ai vincoli storici e a tal riguardo Burgio mostra la presenza labrioliana come “…particolare rilevante, nel contesto della critica gramsciana del determinismo, che il <Grido del Popolo> ripubblichi un paragrafo della Dilucidazione che afferma l’effettualità storica delle ideologie e il loro ruolo nella costruzione della soggettività.” (pp.23-24). Lo storicismo ha così i caratteri di totalità, come relazione tra essere e dover essere, come nesso tra i prodotti storici e la pratica che li ha prodotti , il lavoro. Su questo equilibrio, come totalità, deve vigilare quella “filosofia della praxis”, lemma che Burgio segnala quale elemento significativo del mutamento terminologico rispetto allo scolastico “marxismo” (p.148) introdotto da Labriola e ripreso da Gramsci e affine alla simile meditazione-mediazione di Gyorgy Lukacs.
2) Questo “storicismo assoluto” (p.85) in Gramsci può contemperare “necessità” e “libertà” perché come rileva Burgio “…riprendendo testualmente la posizione di Labriola, puntualizza (sull’<Avanti> il 25 luglio 1918): <non la struttura economica determina direttamente l’azione politica, ma l’interpretazione che si da di essa e delle così dette leggi che ne governano lo svolgimento>” (p.85). La relazione struttura\sovrastruttura è posta nella sua plasticità, nella reciprocità, dagli argomenti labrioliani sviluppati in Del materialismo storico e con significative assonanze alle considerazioni della quarta parte della celebre introduzione del 1857 di Per la critica dell’economia politica di Marx . Il risultato è lo stimolo allo studio della Storia “utile” a “prevedere significa solo vedere bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo” (p. 95). Burgio coglie il nesso con il “morfologico”, con la “previsione morfologica” di Labriola –qui mi pare interessante l’attinenza biologica del termine per reggere la metafora di organico e non meccanico –in questo caso non cronologico-, e il rinvio alla “genesi”, al genetico, come accentuazione della funzione formale-formativa degli studi storici, mantenendo un “critico” margine di indeterminazione, rispetto alla causa meccanica, rispetto alla quantità. Infatti “La storia fa dei salti” (p.85) .
3) La filosofia della praxis è la filosofia “propria” di questa storicità e Burgio affronta in molti passaggi il nesso tra i due autori, giungendo nel paragrafo “Teoria, pratica, prassi” (p.142-144) ad una chiarissima argomentazione. Per Gramsci la “filosofia della praxis” di Labriola risolve la dualità idealismo \ “materialismo naturalista”: dalla passivizzante gnoseologia “Che il conoscere sia un “vedere” anziché un fare” (p.143), dal “rispecchiamento” dualistico “che la verità sia fuori di noi”, derivata dall’istintuale “realismo greco-cristiano”; si passa con Labriola al concetto di prassi che nel Discorrendo di socialismo e filosofia la definisce “cooperazione tra essere umano (ragione, volontà, intenzione e previsione) e natura…” (p.142). Natura da intendersi (forse) come il Gattungswesen – l’ente naturale generico di Marx- potenzialità pura che si determina producendo “ad arte ciò che la natura da per se produce” (p.143). Quest’arte è ciò che ci interessa perché ne siamo ancora coinvolti ed è il lavoro “storicizzato”, la sua divisione sociale; il termine medio tra pensiero e oggetto, perché il pensare è già agire per Labriola. Lavoro nell’accento “formativo” quasi deweyano di arte e lavoro; anche lavoro, in senso hegeliano, come accumulo-tesaurizzazione-superamento (Aufhebung) di prassi-lavoro (svolto) “formato” limite presente dell’attuosità creativa, vincolo storico del soggetto nella relazione marxiana tra forze produttive e rapporti di produzione; infine lavoro come energia “attuosa” del soggetto, accento che Labriola aveva sentito da Bertrando Spaventa .
4) Tale comunanza filosofica è il tema del capitolo 17, “Un’eredità misconosciuta. Sul rapporto Gramsci-Labriola” ; quest’approdo del discorso sui due ribadisce nel paragrafo “6. Il macro tema: l’autonomia teorica e pratica del marxismo” l’intento teorico ispiratore . Nello stesso capitolo c’è la ripresa del più tradizionale tema –togliattiano – di una comunanza tra i due dei giudizi politico-culturali attorno alla storia d’Italia. In particolare, il negativo giudizio sul Risorgimento italiano è quello di Labriola di Da un secolo all’altro: “s’è svolto … più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva” (p.419) e supporta il tema del “ritardo italiano” ma rappresenta anche elemento “genetico” per la categoria di “rivoluzione passiva”, per la “scoperta” politica gramsciana per eccellenza.
5) Il paragrafo “4.Modernità e soggettività”, chiarisce in quale Storia i due autori siano coinvolti: all’epoca nel quale si sta (come storici) e si è soggetti (come politici). Attorno al concetto di “epoca”, in relazione a quello di “durata” e di “salto” Burgio ritorna in più punti del suo testo: un luogo classico del salto è il testo “la Rivoluzione contro il Capitale” (p.88-89) dove riferendosi all’ottobre bolscevico Gramsci ne esalta la funzione di cambio di paradigma non solo di sistema sociale e politico “contro il Capitale borghese” ma anche di rivoluzione contro “Il Capitale di Carlo Marx”, ovvero contro la sua riduzione “riformista” a “durata”. La durata è il prolungarsi degli effetti della rottura (epocale) nel tempo, nella prospettiva, quegli effetti mediati, equilibrati da elementi precedenti la rottura; in tal senso esemplare è il concetto di “rivoluzione passiva”. “Epoca”, quindi, è il senso della durata -avviando la successione e vigilandone il fine- : l’epoca attuale è quella aperta dalla Rivoluzione Francese, nei termini tratteggiati in “Da un secolo all’altro” dove Labriola individua effetti materiali (durate) come la globalizzazione coloniale e l’universalizzazione delle istituzioni liberali e rotture culturali come l’unificazione di temporalità storiche fino ad allora autonome –per questo insiste attorno agli studi sulla periodizzazione come riflessione sulla durata-. Modernità è questa potenza trasformativa “totale” e la coscienza, come conoscenza storica di questa epoca, implica un soggetto “politico” altrettanto potente. Qui l’argomentazione di Burgio attorno alla soggettività, trova l’approdo convincente.
6) Per Labriola il IV saggio incompiuto sul materialismo storico conclude la sua biografia giusto in occasione del passaggio di secolo. Così vengono a coincidere le due serie temporali (personale e pubblica) con il risvolto stoico di una dedizione totale, di una subordinazione, alla necessità di quell’epoca. Ciò è tanto chiaro nella riflessione autobiografica “forte” , auto coscienziale, contenuta proprio in questo saggio “Discorsi più volte della Rivoluzione Francese – il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso, secondo la boriosa espressione degli eruditi, di una specifica competenza, – come per dare, e in compendio, l’avviata alla retta cognizione di ciò che costituisce l’essenziale, in buona o in mala parte che ciò si prenda, della società moderna. ” (p. 100 Da un secolo all’altro DSA).
A tal riguardo mi sia permessa un ipotesi: Labriola è il più importante storico italiano della Rivoluzione Francese, dell’800 e tra i più importanti del ‘900.
Labriola dal 1887 assunse l’insegnamento di Filosofia della Storia, “cui tenne sempre moltissimo” –come sottolinea Stefano Miccolis- e dopo la celebre Prelezione del 1887, di carattere metodologico, molti dei corsi successivi furono dedicati alla Rivoluzione Francese ed in realtà saranno veri e propri corsi di Storia. Ora, per dare un qualche fondamento a quanto affermato mi è obbligo riferire del mio lavoro principale di ricerca, la mia tesi di laurea La storiografia della Rivoluzione Francese nella formazione di Antonio Labriola –purtroppo non ancora pubblicata, sempre a rischio di finire “alla critica roditrice dei topi” – nella quale grazie alla guida di Nicola Siciliani de Cumis e Francesco Valentini, ebbi modo di affrontare in particolare il primo e più sistematico corso labrioliano, quello del 1888-89, rilevante anche per la sua funzione di snodo fondamentale nella prassi pedagogica e nelle scelte politiche e teoriche, che andava facendo. Vista la stima nutrita per gli studi di Alberto Bugio, questo che è “il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso” –la citazione non implica anche paragoni col maestro- può qui trovare una funzione di servizio. Gramsci, oltre i cenni appresi nei Saggi in specie come detto nel IV, non può conoscere il merito e la mole di questo lavoro storico di Labriola, legato com’è al momento della lezione. Sull’argomento, quindi, le affinità tra i due non sono date da comuni, o simili, letture, da un piano culturale, ma dalla medesima consapevolezza “pratica” di trovarsi nell’epoca della Rivoluzione Francese, la “neoformazione” secondo il dire labrioliano, vincolante ogni coscienza moderna.
7)Perciò la Rivoluzione Francese, nei termini di epoca e di salto, rappresenta un importante piano di verifica tra i due. “L’età liberale è il nostro obietto; e proprio in quanto essa tra un secolo e l’altro, ci si presenta in quanto resultato di una civiltà…” (p.103 DSA) così in Da un secolo all’altro Labriola, ben dentro l’epoca, l’obietto liberale, prospetta il progressivo estendersi degli effetti della Rivoluzione, come si dice adesso la “globalizzazione”; Gramsci invece è sul limite di quell’epoca, vicino le cause di un’altra rivoluzione con la posizione di un soggetto “insorto”, attuale. Labriola ripercorre “materialisticamente” eventi e sviluppi della Rivoluzione Francese rendendo Il Capitale di Marx l’intelligenza del secolo XIX, per l’accumularsi progressivo delle forze oppositive. Il giovane Gramsci esordisce riconoscendo negli eventi russi -“La rivoluzione contro il Capitale”- la concretezza della rottura improvvisa e la necessità di un “rovesciamento” forte anche di apparati concettuali. Dopo l’esplosione europea del 1914 può ri-periodizzare partendo dal “biennio assiale 1870-71, per il precipitare di eventi mondiali e di processi che sanciscono la maturità del sistema e l’inizio della sua senescenza” (p.6) e soprattutto partecipare e riflettere sulla “neoformazione” dominata dalla crisi. “Gramsci legge il proprio tempo nel quadro di una crisi storica (“organica”) insanabile” (p.5). Perciò dell’esperienza francese, soprattutto nel biennio rosso, accentua soprattutto le indicazioni politiche: con l’esaltazione di tutti i passaggi di rottura –la dittatura\democrazia, il centro sulla provincia- e soprattutto la riflessione sulla direzione giacobina in relazione al leninismo. Successivamente dopo la sconfitta della rivoluzione in occidente, l’avvento del fascismo, e il ripiegamento carcerario sulle “quistioni nazionali” con la ricognizione attorno alla società civile, ai corpi intermedi, il confronto si sposta alle “istituzioni”, sociali e statuali, generate dalla Francia, con la modernità. Tuttavia il pensiero di Gramsci, come quello di Labriola, è segnato dal proprio tempo –nel senso etico-teoretico della prassi materialistica- e il concetto di crisi è concreto solo in Gramsci. La crisi “attuale” è occasione e determina la precedenza della politica sulla cultura: la fondamentale presenza di Machiavelli, sottolineata ampliamente da Burgio, non c’è in Labriola dove la necessità storica è l’effetto lungo della Rivoluzione Francese. Con l’insegnamento di filosofia della storia, ma come dicevo di Storia “tout court”, Labriola intende praticare nell’ Università “La libertà della Scienza”, cioè formare un intellettualità “civica” nell’Italia “ritardataria”, educandola al confronto con le risultanze della Grande Rivoluzione, per cercare di liberare una generazione dal destino della corruzione nazionale. Invece l’urgenza, il dover-essere gramsciano è organizzare le “milizie proprie”. Quegli intellettuali, formati alla storia, alle letture dei Saggi labrioliani devono diventare le unità di un collettivo, con la funzione dirigente di condurre “un popolo alla fondazione del nuovo Stato” (p.293). In fondo quegli intellettuali, organizzati nel partito, portano “la libertà della scienza” fuori dell’Università facendosi mediatori tra due rivoluzioni, tra storia e politica, per educare la massa in classe, transitandola alla coscienza.
Lucio Magri: “Il genoma Gramsci” di fronte al neocapitalismo
“In ricordo di Lucio Magri” scrive Burgio nella contro copertina del suo testo. Se il Labriola delle pagine di Burgio, è il referente forte, genetico, di molti elementi del “sistema-Gramsci”, Lucio Magri, a mio avviso, è protagonista di uno specifico, rilevante, “movimento-Gramsci” e può essere posto come un termine di verifica per il testo. D’altra parte, Magri, nell’impegnata recensione a “Gramsci storico, una lettura dei ‘Quaderni del Carcere’” in La Rivista de il Manifesto (n. 50 mag 2004), autorizza, ante litteram, a riprendere il ragionamento con Burgio. “Il libro di Burgio mi stimola e aiuta piuttosto a veder meglio come e perché in Gramsci l’idea della rivoluzione comunista come processo storico di lunga durata, per fasi successive (guerra di movimento e guerra di posizione) fosse diversa – teoria più complessa, ambizioni più radicali e andamento meno lineare – da quella idea di democrazia progressiva e di via nazionale al socialismo in cui Togliatti la tradusse sotto la pressione dei vincoli e delle speranze che l’epoca storica dettava. Perché qui è la chiave per capire quali giacimenti di pensiero in Gramsci (come del resto nello stesso Marx) rimasero inesplorati, o possano ora emergere, ed essere valorizzati per capire meglio le ragioni di successive sconfitte e per affrontare meglio, oggi, i problemi nuovi che abbiamo di fronte.”
L’epitaffio Un intellettuale rivoluzionario pubblicato sulla New Left Review (e riprodotto poi in Alla ricerca di un altro comunismo p.269-274) di Perry Anderson, si apre rilevando che “La figura di Lucio Magri non ha avuto eguali nel panorama della sinistra europea. E’ stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa sviluppatisi durante il corso della sua vita.” Accennando infine ad un’affinità “stilistica” “…Magri possedeva un altro tipo di coraggio politico, quello di cui aveva dato prova Gramsci con i suoi Quaderni, che non sono mai banali”. Dal mio punto di vista, viziato dal preconcetto di averlo avuto come maestro di politica, aggiungerei che Magri è stato, dopo Togliatti, il politico più gramsciano. Certamente c’era una sintonia esistenziale, l’engagé rivoluzionario novecentesco che come soggiunge Anderson “fu consueta per la generazione di Gramsci, del primo Lukacs e di Korsch…” ma di più c’è stata la continuità\sviluppo di temi gramsciani, un legame di ragione.
1) Il nesso più immediato, genetico, con Gramsci è il concetto di crisi. Nel 1975 Magri vede l’appesantirsi delle politiche keinesiane e intuisce la chiusura de “l’age d’or” de “Il Secolo Breve” (E.Hobsbawm), lancia così una riflessione che è anche una parola d’ordine “Uscire dalla crisi o dal capitalismo in crisi”. In quel passaggio vi è un aggiornamento del concetto di crisi organica: non solo ha rilevo “teorico” come meta-categoria che è la caduta tendenziale del saggio di profitto de “Il Capitale” di Marx, ma ispira soprattutto l’atteggiamento “pratico” di “direzione” la crisi. Di fronte al fenomeno di una crisi giudicata “organica”, non si tratta di attenderne l’esito, secondo un determinismo messianico, né di collaborare alla soluzione delle congiunture per una crescita di “socialità”, dunque di fuggirla, secondo un determinismo riformista, ma occorre vivere dentro la crisi e orientarne le forme nuove che stanno generandosi.
2) La crisi è un’occasione ma occorre, machiavellianamente, un partito virtuoso che la sappia sfruttare. Qui sta la riflessione sul partito, l’altro polo gramsciano, che dopo la radiazione del 1969 dal PCI paradossalmente si accentua. C’è il confronto con il leninismo purista –la riproposizione in Classe, consigli, partito del saggio A 50 anni da “Stato e Rivoluzione”- che tanto “appeal” emotivo e settario suscitava nei gruppi extraparlamentari ma aveva perfino tracce dentro l’ultimo Togliatti che “nel 1958 tiene la relazione al convegno su Gramsci e la intitola <Il leninismo di Gramsci> (p.64 Alla ricerca di un altro comunismo); ci sarà un confronto con il partito di massa togliattiano come tentativo a metà degli anni 70 di rompere la vocazione minoritaria della nuova sinistra –Da Togliatti a la nuova sinistra-; ci sarà soprattutto il costante ritorno al Gramsci consiliarista\critico dei consigli, al problema della spontaneità sociale e della sua direzione.
3) La complessità della crisi di fine novecento è concreto compendio, esemplificazione, della crisi organica di Gramsci investendo simultaneamente forze di produzione\forme di organizzazione sociale\istituzioni e confermando il carattere “antieconomicistico” del movimento storico. Per dirigerne gli sbocchi occorre che il PCI ritorni a cercare l’autonomia culturale ma a questa istanza teorica Magri diede una base pratica, impegnato nella formazione di gruppi, dei quali sarà dirigente -penso a il manifesto e al PdUP- capaci di anticipare una nuova forma organizzativa al servizio di momenti di discussione con una sinistra vasta (cattolici compresi) –penso alla rivista causa della radiazione, poi al dibattito sul programma comune per l’alternativa, a “Pace e guerra”, infine al crepuscolo de la rivista de il manifesto-. Questo crocevia (crisi+partito) muove, il tratto più originale del gramscismo di Magri: la transizione. E’ possibile per lo sviluppo storico cui si è giunti forzare le togliattiane riforme di struttura, limitate alla democrazia progressiva ma pur sempre rappresentativa e borghese, fino a farne terreno sperimentale di forme “socialiste”. Penso al consiliarismo, alla democratizzazione dei luoghi disciplinari per eccellenza- polizia ed esercito (l’opera di Eliseo Milani),a Medicina Democratica, alle tesi sulla scuola- poi più tardi, quando ne cominciava il declino al vasto programma di nuovo intervento pubblico di riconversione industriale, al dibattito sul programma comune delle sinistre.
Ai brevi cenni al Gramsci praticato da Magri, al Gramsci che vive nelle battaglie della sua e della nostra vita, corrisponde una lettera Gramsci, presente in moltissime riflessioni e citazioni, compresa la ricordata recensione a Burgio. A tal proposito si noti come il “socratismo” di Magri somigli alla preferenza oratoria di Labriola ma sia ancor più estremo, trovandosi a scrivere un solo libro “Il Sarto di Ulm”, -somigliante peraltro per i bilanci, le prospettive e per porsi in finis vitae al Quarto Saggio labrioliano- ma in presenza di una sterminata e “generosa” (come dice Luciana Castellina) pubblicistica d’intervento(“Considerazioni sui fatti di Maggio De Donato 1968 nonostante la veste rientra in questa categoria). Perciò anche qui ci si limiterà a 3 scritti esemplari, posti in snodi storici e biografici.
4) Alle pagine dedicate a Gramsci in “Le novità del neocapitalismo” si può guardare come il punto d’avvio della esegesi magriana di Gramsci. Lo scritto è l’intervento al convegno del 1962 dell’istituto Gramsci sul neocapitalismo ed è crocevia di testi e contesti. Verrà pubblicato da J.Paul Sartre su Les Temps Modernes (n196-197 set-ott 1962) e rappresentò un primo ponte verso altre culture critiche del “neocapitalismo” che poi il manifesto farà “circolare” nella provincia italiana . Si pone all’inizio degli anni 60, della fiammata operaia –forse dell’ultimo vasto episodio di lotta di classe di fabbrica-, prospettando una direzione basata sull’ascolto del movimento distante tanto dal moderatismo del PCI, quanto dal pur innovativo radicalismo operaista. Soprattutto avvia apertamente lo scontro tra destra e sinistra interna al PCI, vivente Togliatti, con coraggio atipico nella liturgia dei gruppi dirigenti tanto che lo stesso Magri affermerà poi “esagerai” (p.58 Arac) aggiungendo “rielaboro in modo più equilibrato l’intervento per la rivista di Sartre”(p.58 ibidem) . L’obiettivo è Amendola e il suo giudizio dell’arretratezza del capitalismo italiano mentre per Magri –forse ancor più che per Ingrao- in Italia sta già affermandosi il neocapitalismo. Nello scritto infatti confluiscono anche l’”innamoramento per Gyorgy Lukacs, i francofortesi e John Kenneth Galbraith” (p.58 ibidem) cioè la spinta a ridefinire la nuova “prassi” –alimentata anche dagli studi economici dei radical “americani” come Paul Sweezy- per la “filosofia della prassi”, cioè la ricerca oltre le angustie dei manuali staliniani. Il Gramsci che Magri getta in questo contesto è piuttosto “scandaloso”, in particolare in questa trentina di righe “Gramsci è il primo e il solo antifascista italiano che, pur riconoscendo il carattere in ritardo del nostro regime capitalista, seppe tuttavia cogliere la tendenza del sistema verso l’integrazione internazionale, l’importanza della società americana come espressione tipica del capitalismo dell’avvenire, e la tendenza storica verso nuove forme di oscurantismo e di repressione. Ma prima di tutto, il pensiero fecondo di Gramsci fu quello di un precursore, poiché fu il solo teorico marxista tra le due guerre, con (ma anche dopo e malgrado) Lucaks, a condurre una battaglia agguerrita contro ogni interpretazione positivista e “scientista” del marxismo, a riaffermare il ruolo attivo del pensiero e del soggetto nella storia e il carattere di “visione del mondo” del marxismo (la “totalità di Lukacs). Mentre Lukacs tuttavia, prigioniero del suo rigoroso schema dialettico, non riusciva ad evitare il ritorno minaccioso dell’idealismo che attraverso un’autocritica – e riprendendo questo schema con l’aiuto di nuove e bastarde/ibride categorie sociologiche e naturalistiche – Gramsci, mettendo a profitto i suoi rapporti con Croce e legato a una tradizione storicista più flessibile, sviluppava un pensiero, certo spesso contraddittorio, composto maggiormente di ipotesi che di teorie, ma dove si riscontrano già numerosi elementi di una nuova concezione del potere, del rapporto tra la democrazia e il socialismo, del carattere del partito rivoluzionario, e molte osservazioni luminose sulla società comunista, sulla storicità del marxismo, sui rapporti tra infrastruttura e sovrastruttura. (pp. 154-155 Arac). Vi si avverte la necessità di riavviare studi gramsciani oltre la sistemazione di Togliatti. Soprattutto ne esce Gramsci come strumento di battaglia: nell’accentuazione del lato oscurato –fino ad allora- di Americanismo e Fordismo come conferma dell’affermarsi in Italia del neocapitalismo e come critica all’economicismo della priorità “riformista”, del patto sociale che aveva gestito la ricostruzione, del gradualismo distante dal verso dell’ ”analizzare i fenomeni tendenziali”, “cogliere le tendenze del sistema” dal pensiero mobile di Gramsci “composto più di ipotesi che di teorie” adeguato al concepire la “transizione”.
5) Magri considera il testo “Una nuova identità comunista” la sua eredità, segnalandolo nella chiusura de “Il Sarto di Ulm” come anche in quella di “Alla ricerca di un altro comunismo”. La vicenda dello scritto è significativa, sempre nella luce teoria-prassi: in origine è documento per dar battaglia al XVIII congresso del 1987 dove “la vera partita si è giocata” ma poi non venne giocato; il successivo l’ampliamento dello stesso documento, “Il nome delle cose”, introduceva il seminario ad Arco di Trento nel settembre 1990 per dirigere unitariamente la corrente del no allo scioglimento del PCI ma anche quella battaglia non venne data con il rifiuto di Ingrao di uscire dal costituente PDS. Proprio nel primo scritto –in appendice de Il Sarto di Ulm – ci sono tre passaggi su Gramsci. 1) a pag. 409 affronta la ricerca di Gramsci sul blocco storico, su di un soggetto più largo del proletariato con origini nelle “forme che precedono” e in ambiti antropologici irriducibili al meccanismo economico; 2) a pag.441 ripropone il partito “intellettuale collettivo” , capace di gestire l’autoeducazione collettiva di un’intera classe”. Tale concezione “non si è mai tradotta in un partito reale” perché non lo fu il partito militante (leninista) e “non lo fu neppure il partito nuovo di Togliatti nei suoi momenti migliori” benché animò molte stagioni nel quale il movimento operaio italiano, fu agente civilizzatore supplente di idealità e moralità che la passiva “rivoluzione borghese in Italia non aveva avuto”; 3) nella chiusa, a pg.447, c’è una formidabile interpretazione dello “spirito di scissione” al fine di accentuare, nel contesto apertosi del nuovismo eclettico, il partito come “agente e organizzatore della società…promotore del conflitto e di stimolo di una riforma intellettuale e morale”. Azione-promozione-stimolazione evocano moralità o meglio eticità; precisa infatti “Qualcosa di più che una semplice autonomia culturale, e molto di più di una generica scelta di valori fondanti: è la fusione di valori, analisi della realtà, progetto di trasformazione che dia senso profondo alla politica…” dunque “Fondamento etico e non solo intellettuale”. Qui c’è l’essenza del progetto di Gramsci, di derivazione hegeliana, far irrompere l’eticità dentro il potere –come passato\valori-presente\analisi-futuro\progetto- con il partito “scisso” dal potere, vicino al “fondamento etico” (il presupposto), al soggetto largo di popolo, quindi non l’astratto “intellettuale”, predicatorio e prescrittivo.
6) “Il genoma Gramsci” paragrafo del capitolo di apertura de Il Sarto di Ulm (p.48-53) è da considerare il bilancio sofferto del Gramsci di Magri. Come tutto il libro propone una interpretazione “controfattuale” – termine spiegato nelle ultime righe del libro “La storia controfattuale non è un elucubrazione costruita in tempi e in base a esperienze successive. Deve essere applicata alla situazione cui si dedica, sulla base di idee già allora presenti, tanto da poter ipotizzare una possibilità che non si è realizzata ma poteva realizzarsi” (p.402 SdU)- delle vicende del PCI e in particolare di quelle a partire dall’inizio degli anni 60 dove lui iniziò a dar battaglia . A mio avviso è un approccio storiografico alla Machiavelli, dove lo sguardo politico, il conflitto tra intenzioni e realizzazioni, re interviene sull’approdo, sulla quiete storica. In specie, con il “genoma” tale dualità viene posta ab-origine. Questa parte dello scritto è, sempre scontando il preconcetto, di pregio “scientifico” e letterario, proprio perché sviluppa tale approccio con rigore logico e suggestione esistenziale. Anzitutto, una marginale e già segnalata ricorrenza terminologica. Magri, a memoria, ma anche verificando i suoi scritti, non dimostra una particolare conoscenza di Antonio Labriola, tuttavia la metafora Gramsci \“genoma”, termine “biologico”, ci rinvia al gergo del cassinate. Il biologico come l’organico pare legare i tre autori. In Gramsci i termini di “crisi organica” e “intellettuale organico” sono posti anzitutto, per opposizione al “meccanico” e allo “astratto”, quindi segnalano l’azione reciproca (per es. struttura-sovrastruttura) come specifica causazione storica (diversa da causa-effetto) . In secondo luogo, nel merito, Magri definisce con proprietà scientifica “Un <genoma >, appunto che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire” (p.50 SdU) sviluppando, quindi, il suo ragionamento da “genetista” attraverso il ruolo che gioca la “prassi”. Dunque: A) Il corpus dei Quaderni dal Carcere è complicato e frammentario, proprio come il genoma del quale non si conosce la funzione di tutte le parti alla lettura sequenziale (astratta) “Non bastava dunque uno scrupoloso lavoro filologico” a cui poi giunse l’“esemplare lavoro di Valentino Gerratana” (p.49 SdU) nel 1975. B) Prima della “sistemazione” scientifica occorreva far emergere la funzione propria dei “Quaderni”, farne “movimento” e strumento di “direzione” politica: “ Tale mediazione è stata compiuta non da qualche grande intellettuale, o da una scuola, ma con un’operazione intenzionale e organizzata promossa da Palmiro Togliatti e con la partecipazione di un grande partito” (p.49 SdU). C) Magri è attento esegeta togliattiano – Il Sarto di Ulm può anche essere visto come un saggio su Togliatti- tanto che nel presente paragrafo dedica due parti alla sua interpretazione di Gramsci. Nella prima (p50) enuclea i due temi forti della lettura togliattiana: i limiti del Risorgimento come rivoluzione incompiuta e il valore della sovrastruttura, che servono a Togliatti per smarcarsi dal Comintern, sulle “vie nazionali”, e dal “meccanicismo volgare” di Bucharin. Il mancato rinnovarsi di tale lettura, a partire dalla morte di Stalin e in presenza delle “novità del neocapitalismo”, condusse, secondo Magri, alla fissazione della linea politica attorno alla questione dell’arretratezza italiana, e sclerotizzò la “separazione della dinamica politico istituzionale dalla sua base di classe e portava lo storicismo marxista a diventare storicismo tout-court” (p.50 SdU), producendo l’incomunicabilità degli anni 60 tra Partito e “classe” . Nella seconda parte (p51 SdU) riconosce a questa lettura la cogenza storica, l’aver Togliatti, attraverso la gramsciana ridefinizione de “la rivoluzione … lungo processo mondiale, per tappe” potuto, così, tener aperta la prospettiva rivoluzionaria in occidente. D) Si può dire allora che con Togliatti emerge il “fenotipo Gramsci”, si seleziona e afferma la parte della sua opera funzionale al Secolo Breve ma tra le due parti –togliattiane- Magri ripropone il suo Gramsci. “Altri temi gramsciani restarono infine a lungo marginali nella riflessione teorica e ignorati in quella politica” (p.50 SdU), altre parti “genetiche”, codificate in carcere ma non più espresse; “Penso allo scritto su Americanismo e Fordismo, anticipatore di ciò che non molto più tardi sarebbe arrivato anche in Italia, e già era visibile, come velleità nella politica fascista. O alla giovanile passione di Gramsci per l’esperienza consiliare, del tutto diversa da quella russa,, che egli stesso aveva accantonato, scoprendone i limiti ma che rivisitata, avrebbe non poco a interpretare l’imminente fase della Resistenza e molto più tardi, l’insorgere del Sessantotto” (p.51 SdU) e qui ribadisce come il possibile nuovo “fenotipo” , una nuova espressione (trascrizione direbbero i genetisti) “organica” di altre sezioni del genoma gramsciano, selezionato da tempi nuovi, avrebbe permesso di “riconoscere il quadro nuovo storicamente emerso” [la fine dell’URSS] “mobilitare tutte le nuove risorse per conservare e rafforzare in una nuova <guerra di posizione> la propria identità autonoma e comunista, per trasformare cioè una nuova possibile <rivoluzione passiva> in una nuova egemonia” (p.53 SdU).
Il dialogo a distanza, qui delineato, senza la minima pretesa di completezza, ha cercato di riproporre la lezione di metodo del libro di Burgio, quell’istanza dialettica che dimostra la costante prassi generativa delle categorie di Gramsci. Nell’ultimo capitolo del libro, Burgio osserva come “La ricomposizione hegeliana della dialettica e la sua operatività in Gramsci sono da Bobbio programmaticamente misconosciute” (p.467) attraverso la pretesa “riconcettualizzazione delle sue categorie” (p.466), cioè l’astrarlo dalla sua potenza etica. Attorno al Gramsci compendiato da Burgio –come “sistema” o “genoma”- si è cercato di evidenziare alcuni movimenti costitutivi (Labriola) e dissolutivi (Magri), della filosofia della prassi, mantenendo quei tre intellettuali “organici” nella rispettiva “operatività”- pedagogica, teorica e politica- per veder restituiti elementi vivi di critica dell’epoca: Da un secolo all’altro e all’altro ancora.
Roberto Donini
Maggio 2015