«La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica». Con questa citazione di Marcuse posta en exergue, si apre il bel saggio, denso e articolato, in cui Antonio Martone analizza gli effetti antropologici che la società della tecnica – nella sua versione globale, virtuale e finanziarizzata – dispiega oggi sotto i nostri occhi e dentro le nostre menti con una potenza senza precedenti nella storia.
Il percorso che in Occidente ha determinato questi effetti naturalmente è lungo di secoli, come tutti i cambiamenti epocali, e il volume lo ripercorre tutto, passando dall’analisi del nesso tra individualismo e democrazia svolta da Tocqueville, per giungere fino alle radici della modernità inaugurata da Hobbes, quando alla rassicurante e delimitata visione teocentrica (simboleggiata dalla Cattedrale medievale), si è sostituito un antropocentrismo laico che ha assunto ben presto i tratti di un potere senza limiti e senza controllo (riassunto efficacemente nell’immagine della Frontiera).
Non più, dunque, un “limes” da difendere, che assegna a ciascuno ruoli e poteri prestabiliti, da Dio o dalla Natura, ma un limite da superare ogni volta, grazie a capacità e forze – ora individuali, ora collettive – ma sempre più potenziate nel corso del tempo dalla tecnica e finalizzate a conoscere cose mai viste, a conquistare terre, ad assoggettare popoli e a sfruttare risorse. Tutto questo, fino a quando il mondo da scoprire e dominare si è esaurito, i muri sono crollati con le differenti visioni della società, e il liberismo sfrenato è divenuta l’unico ordine pensabile della realtà. E allora, dopo il dominio del reale, la tecnica si è inventata un altro mondo da dominare, quello virtuale; con tutte le sue illimitate possibilità e le strutturali contraddizioni, grazie al quale il singolo sperimenta l’onnipotenza e l’ubiquità di essere, “sicut deus”, qui e altrove, e dunque in nessun luogo; di accedere a un numero di informazioni praticamente infinite e contrastanti, senza costruire più un sapere e una cultura solidi; e di intrecciare innumerevoli contatti e relazioni “scarnificate”, per ritrovarsi poi da solo.
Ed è qui, al limite del reale ed oltre di esso – nel punto in cui gli individui ancora in carne ed ossa si ritrovano proiettati – che si colloca la Ecity, il modello di città “atopica e globalizzata” dove gli effetti della tecno-scienza abbinata alla finanza deflagrano in tutta la loro potenza. La Ecity, allora, è molto più di una metafora del tempo attuale; è il luogo poco reale e molto virtuale, che raccoglie ed amplifica tutte le contraddizioni reali della società capitalistica, nel tempo in cui in cui le classi si sono disperse nella massa. E’ il luogo senza tempo, dove la storia si riduce a cronaca e il tempo stesso, perdendo direzione, si condensa in un eterno presente in cui il desiderio dispone del mondo a colpi di click, annullando ogni senso del passato e ogni progettualità nel futuro. E’ il luogo senza terra, ma che avvolge tutta la Terra, dove individui sradicati e perennemente iperconnessi sperimentano, con la propria solitudine, una forma di comunicazione “mentalizzata” e dimidiata, perché dimentica del corpo.
Insieme alle contraddizioni del nostro tempo però, la Ecity amplifica in modo inedito anche quelle costitutive del nostro essere. E proprio qui, infatti, all’incrocio tra ricostruzione storico-politica della democrazia moderna e analisi antropologica, sta il “cuore” metafisico dell’analisi di Antonio Martone (il bellissimo cap. 4). L’uomo è un animale strutturalmente imperfetto, precario e “mancante”; e su questo vuoto ontologico ha edificato in via compensativa, lungo tutta la sua storia, quella “seconda natura” simbolica, da cui sono scaturite nei millenni le costruzioni culturali con cui l’umanità si è data il senso del proprio essere-nel-mondo: la società, la politica, la religione, la filosofia e l’arte. Nella Ecity questo vuoto si manifesta invece in tutta la sua contraddittoria potenza e senza mostrare alcun appiglio di salvezza, perché annullando corpo, identità e realtà, ha determinato negli uomini – che un corpo fragile ancora ce l’hanno e, con esso, un bisogno innato di relazione, di appartenenza e di sicurezza – un individualismo, che ha distrutto ogni autentica socialità, ogni slancio comunitario e ogni progettualità politica condivisa. E così quel vuoto strutturale, in passato colmato dalle grandi narrazioni religiose, ideologiche e politiche, assume oggi la forma alienante e angosciante del consumo massificato, solitario e compulsivo; della comunicazione planetaria ininterrotta e della visibilità costante e superficiale, che la tecnologia virtuale consente; e in ultimo, quella del disagio psichico (nelle patologie storicamente determinate della depressione e dalla dipendenza) che le contraddizioni della Ecity producono e che la scienza s’illude di curare con i farmaci.
Il “vuoto” metafisico costitutivo dell’umano è divenuto quindi, nel giro degli ultimi trent’anni, un epocale e nichilistico “vuoto di senso”, che la filosofia oggi però – sottolinea Martone – ha la possibilità e il dovere di smascherare e trasformare in “senso del vuoto”, affinché l’umano che c’è ancora in noi, alla luce di una rinnovata e urgente coscienza, non soccomba definitivamente sotto i colpi invisibili e alienanti di quel padrone senza volto e senza regole che è il capitale globale e finanziario, e della sua altrettanto potente alleata, immateriale, illimitata e pervasiva, ossia la tecnica nella sua versione cibernetica, telematica e digitale.
E dunque, in questo cambio epocale di paradigma, che vede la Ecity virtuale inglobare, omologare e svuotare le città reali, e con esse i corpi degli uomini, la loro individuale libertà e il loro tempo lento e lineare, custode e artefice al tempo stesso di memorie, di speranze e di senso – solo la consapevolezza di un pensiero critico all’altezza dei tempi e la riscoperta della relazione con l’Altro (senza cui si nessuna società e nessuna politica sono possibili), ci possono salvare dal nichilismo che il trionfo della tecnica sta disvelando in tutta la sua potenza.
Consiglio vivamente la lettura di questo libro, che ritengo prezioso, perché consente di capire i grandi cambiamenti – tanto profondi, quanto veloci e radicali – che ci è toccato in sorte di vivere, e anche perché ci può aiutare a decifrare quelle banali esperienze del quotidiano che tutti noi, cittadini forzati della Ecity, sperimentiamo. Da quell’indefinito senso di straniamento che ci prende ogni volta che entriamo in un centro commerciale, o quel sottile e frustrante disagio che viviamo ogni volta che abbiamo bisogno di parlare con una persona, per avere un qualunque informazione e ci ritroviamo invece ad ascoltare in silenzio una voce pre-registrata al telefono, o a leggere una serie di faq su uno schermo, che però non rispondono quasi mai alle nostre domande.”