Riceviamo dai nostri amici del Collettivo di Formazione Marxista “Stefano Garroni” e volentieri pubblichiamo questo documento di Stefano Garroni (purtroppo scomparso alcuni anni fa) del 22/01/2014, sul tema del “post-modernismo” che segue a quello che abbiamo già pubblicato alcuni giorni fa e che riportiamo:https://www.linterferenza.info/cultura/le-illusioni-del-post-modernismo/
Con questo breve intervento mi propongo di rispondere ad alcune delle tesi formulate dal professore americano R. Inglehart nel suo libro La società post-moderna (pubbl. it. 1998) e dal giovane filosofo italiano Diego Fusaro in una recente intervista. A mio parere, sia questo libro sia le idee di Fusaro – seppur a diverso livello e a diversa dignità culturale – sono due campioni del carattere fondamentalmente anticomunista e antimarxista della cultura post-moderna.
Nella sua intervista Diego Fusaro sostiene che Marx si sarebbe sbagliato nel lanciare la parola d’ordine dell’internazionalismo proletario, in quanto l’unico internazionalismo esistente ed operante nella storia è quello del capitale: la parola d’ordine marxiana dell’internazionalismo per Fusaro si rovescerebbe, paradossalmente, nell’esaltazione della mondializzazione del capitalismo. A dimostrazione di ciò, secondo Fusaro, ci sarebbero gli errori che Marx avrebbe commesso nella previsione dello sviluppo economico del capitalismo.
Secondo Fusaro, si deve sostenere il ritorno ad una dimensione nazionale, che avrebbe maggiore vitalità democratica della dimensione sovranazionale. La comunità nazionale garantirebbe maggiormente la democrazia, perché consentirebbe al cittadino di avere un peso effettivo nelle scelte politiche del proprio Paese. Invece, quando il potere si centralizza sul piano internazionale e sovranazionale, il singolo cittadino rimane inevitabilmente schiacciato da tale Moloch.
Tuttavia, il giovane Fusaro commette il solito errore di Destra (o mistificazione?) di chi esalta la nazione e il popolo: all’interno della comunità nazionale il popolo appare come una massa omogenea, sorretta da uno stesso sistema di valori e accomunata dagli stessi obiettivi politici. Ma, noi sappiamo, il popolo così concepito non esiste: vi sono, al contrario, le classi sociali, che conducono, ancora oggi, stili di vita differenti e godono di opportunità culturali, economiche, ecc. assai diverse tra loro. Non possiamo ritenere che, per esempio, il pensionato medio italiano (il 55% dei pensionati) con la pensione minima di circa 500 euro al mese abbia lo stesso ruolo, le stesse opportunità e partecipi nello stesso modo alla vita della comunità nazionale rispetto alla classe degli italiani miliardari come Berlusconi.
Ricordiamoci anche la riflessione che Lenin fa sulle elezioni: quando il lavoratore è nella cabina di fronte alla scheda elettorale e deve scegliere è un qualunque piccolo borghese posto di fronte a questo ente misterioso che è il potere politico-economico. L’operaio ritrova una forza solo quando, insieme ai suoi compagni, entra in lotta, sciopera, promuove manifestazioni, cioè quando non è più un individuo isolato ma entra a far parte di un movimento visibile che si contrappone al potere dell’avversario.
Nel proseguo dell’intervista Fusaro attacca poi Toni Negri in quanto veteromarxista, senza però spiegare cosa egli intenda con tale definizione. Che può voler dire Fusaro ? Tutto si può dire di Negri, tranne che sia stato un seguace della Terza Internazionale o uno stalinista ! Anzi, probabilmente Toni Negri non è mai stato neanche un vero marxista.
Allora perché Fusaro accusa questo noto personaggio della storia recente della sinistra italiana?
Perché, in questo modo, Fusaro confonde le idee dell’ascoltatore dell’intervista e si auto-propone come un innovatore del marxismo. Un innovatore che, partendo da Marx, propone una nuova posizione politica, di cui cerco di sottolineare la visione del tutto utopistica: immagina un mosaico di singole nazioni che si organizzano in modo da essere rispettose di sé stesse, delle proprie tradizioni ma anche delle altre nazioni e delle altre tradizioni, affinchè tutti si confrontino e collaborino pacificamente! Purtroppo quella di Fusaro è una utopia totale: abbiamo una davvero ampia letteratura storica che comprova che la nazione è, non solo un che di barbarico, ma anche una delle fonti principali di guerre tra i popoli.
Partiamo, dunque, ancora una volta da Marx.
Marx ha messo in luce che la tendenza interna al capitalismo porta verso la mondializzazione socio-economica e verso il superamento della dimensione nazionale. Proprio per questo ha lanciato la parola d’ordine dell’internazionalismo proletario: se si vuol fare politica, bisogna avere un fondamento reale, ossia bisogna che il progetto politico proposto abbia una radice nel movimento oggettivo delle cose.
Nella storia del capitalismo tale sollecitazione internazionalistica è stata via via contrastata sia dall’interesse della piccola proprietà privata, sia dall’interesse delle singole Multinazionali che si combattono ancora oggi l’una con l’altra. E sono proprio questi feroci contrasti a fare dell’internazionalismo proletario l’unico possibile strumento di superamento delle contraddizioni del capitalismo attraverso la lotta proletaria organizzata a livello internazionale.
A ben vedere, quindi, la posizione di Fusaro non ha effettiva aderenza con la realtà oggettiva del processo socio-economico attuale; e considera tale processo storico oggettivo come una sorta di “devianza” dall’utopia immaginata di un mondo (a-storico) di piccole nazioni sovrane e pacifiche. Inoltre, il Fusaro ricade negli stessi equivoci del pensiero ‘comunitarista’ di Preve, suo maestro, che esaltava le comunità nazionali contro alla dimensione internazionale della vita contemporanea.
Nel suo libro Inglehart individua nella cultura moderna due fondamentali spiegazioni del costituirsi e dell’evolversi delle formazioni sociali, ossia quella di Marx e quella di Max Weber.
Secondo Inglehart, il punto di vista di Marx è quello per cui è il livello economico che sollecita la produzione di strutture ideologiche, politiche e morali, che danno vita alla formazione sociale, e quindi è il livello economico a determinare lo sviluppo della cultura. Invece, per Max Weber (sempre secondo Inglehart) è la cultura a condizionare lo sviluppo economico.
Qui la mistificazione antimarxista e anticomunista si fa molto più sottile.
Esistono numerose pagine, di Marx, di Engels e di Lenin contro quelle posizioni che pretendono di dedurre il piano politico, culturale, ideologico dalla base economica. Nella prospettiva marxista -attenzione: non nel DIAMAT, nella vulgata del marxismo!- le cose sono estremamente più complicate.
Quando affronta il rapporto struttura-sovrastruttura, Marx scrive chiaramente che la struttura agisce, opera, tende a plasmare la sovrastruttura in ultima istanza e attraverso giri viziosi (in tedesco, Umweg, passare per vie traverse). La categoria dell’Umweg è molto importante, perché testimonia che, da buon hegeliano, Marx sa bene che, quando si analizza una situazione storica determinata, lo schema generale del rapporto base economica-sovrastruttura può saltare, può farsi più complicato, contraddittorio.
Per esempio, riferendosi al comunismo di guerra, Trotskij sottolinea come fu imposto non da necessità economiche ma politiche, indicando proprio tale fenomeno come dimostrazione del fatto che il rapporto tra base economica e sovrastruttura è, appunto, estremamente complesso.
Nel pensiero marxiano il livello causante fondamentale non è affatto quello economico; bensì quello socio-economico. E’ quello della relazione tra gli uomini a scopo della produzione, ossia è immediatamente società ed economia insieme. Per questo Marx non è iscrivibile tra gli economisti puri e semplici; ma sì nella tradizione dell’economia politica, cioè di quella visione per cui l’economia fa parte di un complesso di comportamenti in cui non agiscono solamente meri meccanismi naturali e imperativi; ma sono presenti le scelte umane, le possibilità che l’uomo riesce ad intravedere o non intravedere, gli errori che commette.
Allora, quando Marx scrive che la base economica – cioè il rapporto socio-economico per la produzione – in ultima istanza e in via indiretta determina, cioè spinge in una certa direzione anche la sovrastruttura culturale, religiosa, ideologica vuole intendere, innanzitutto, che è necessario analizzare il rapporto struttura-sovrastruttura all’interno e in relazione allo specifico contesto storico in cui quel determinato rapporto si è andato formando. È proprio tale prospettiva dialettica, la base hegeliana, del pensiero marxiano a garantirne la vitalità.
Il post-moderno è al contrario un pensiero rigido e schematico, come dimostra anche il suo “scientismo”.
La cultura post-moderna tende, infatti, a concepire l’indagine sui fenomeni sociali secondo il modello della scienza della natura, ponendo all’ordine del giorno il problema della previsione. Quando elabora una certa legge del comportamento dei fenomeni, il fisico pretende anche in questo modo di prevedere che cosa accadrà.
Ma è possibile applicare tale modello alle scienze sociali?
Da un punto di vista marxiano, no. Il comportamento sociale è legato al livello della coscienza dei soggetti che operano (al contrario degli atomi che operano senza coscienza). La coscienza può determinare slittamenti, movimenti devianti, può alterare e di fatto altera i rapporti schematici tra struttura e sovrastruttura. Sicché le previsioni morali non si verificano in tempi brevissimi come nel comportamento degli atomi, ma trovano conferma solo nel lungo periodo.
E allora, quando lo scienziato morale contemporaneo, che in realtà è nato in funzione antimarxista, insiste sul momento della previsione, così come fa Fusaro, per dimostrare che le previsioni di Marx non si sono verificate, sta proiettando così nell’ambito morale, un processo, un fenomeno, un criterio che invece ha senso esclusivamente nell’ambito delle scienze naturali. E, in altre parole, sono questi gli imbrogli del postmoderno che prima Inglehart e ora Diego Fusaro ci ripropongono.
È chiaro, dunque, che lo scientismo comporta un impoverimento dello stesso concetto di storia degli uomini e del rapporto struttura-sovrastruttura, una sua riduzione ad unum; così come il marxismo della vulgata ha irrigidito e impoverito il pensiero di Marx perdendone la dimensione dialettica.
Concludendo, a mio modo di vedere, tra le tante cose che dobbiamo fare c’è anche questa: prendere sul serio la cultura postmoderna come uno dei punti fondamentali dell’ideologia capitalistica, cioè del nostro avversario di classe, che purtroppo è penetrata largamente a sinistra e che, per questo, impedisce lo sviluppo di un più ampio movimento comunista.
Aggiungo un’osservazione, mi pare, di stampo leninista: necessario è il lavoro di formazione di elementi di avanguardia, che si mettano in relazione con le masse popolari, con cui sappiano discutere e mettere in dubbio le credenze propagandate dalla cultura dominante. Sarebbe uno dei ruoli fondamentali del partito no? Di un partito comunista che fosse effettivamente tale.
Io credo – e insisto su questo – che ciò che pubblichiamo dobbiamo sforzarci di farlo circolare, perché, forse è vero, abbiamo una certa capacità di provocare discussioni, di proporre temi diversi da quelli che ci vengono ammanniti dalla cultura ufficiale. Non credo, infatti, che il nostro bilancio sotto questo punto di vista sia del tutto negativo: qualche piccolo risultato lo abbiamo.
Se insistiamo su questa strada, forse possiamo riuscire ad allargare il numero delle persone coinvolte in un’azione, come dire, di avanguardia, di diffusione, di sollecitazione del dibattito e della critica.
Foto: La Pertenencia (da Google)