Gli imbrogli del post-modernismo. Contro Ronald Inglehart e Diego Fusaro

Riceviamo dai nostri amici del Collettivo di Formazione Marxista “Stefano Garroni” e volentieri pubblichiamo questo documento di Stefano Garroni (purtroppo scomparso alcuni anni fa) del 22/01/2014, sul tema del “post-modernismo” che segue a quello che abbiamo già pubblicato alcuni giorni fa e che riportiamo:https://www.linterferenza.info/cultura/le-illusioni-del-post-modernismo/

 

Con questo breve intervento mi propongo di rispondere ad alcune delle tesi formulate dal professore americano R. Inglehart nel suo libro La società post-moderna (pubbl. it. 1998) e dal giovane filosofo italiano Diego Fusaro in una recente intervista. A mio parere, sia questo libro sia le idee di Fusaro – seppur a diverso livello e a diversa dignità culturale – sono due campioni del carattere fondamentalmente anticomunista e antimarxista della cultura post-moderna.

Nella sua intervista Diego Fusaro sostiene che Marx si sarebbe sbagliato nel lanciare la parola d’ordine dell’internazionalismo proletario, in quanto l’unico internazionalismo esistente ed operante nella storia è quello del capitale: la parola d’ordine marxiana  dell’internazionalismo per Fusaro si rovescerebbe, paradossalmente, nell’esaltazione della mondializzazione del capitalismo. A dimostrazione di ciò, secondo Fusaro, ci sarebbero gli errori che Marx avrebbe commesso nella previsione dello sviluppo economico del capitalismo.

Secondo Fusaro, si deve sostenere il ritorno ad una dimensione nazionale, che avrebbe maggiore vitalità democratica della dimensione sovranazionale. La comunità nazionale garantirebbe maggiormente la democrazia, perché consentirebbe al cittadino di avere un peso effettivo nelle scelte politiche del proprio Paese. Invece, quando il potere si centralizza sul piano internazionale e sovranazionale, il singolo cittadino rimane inevitabilmente schiacciato da tale Moloch.

Tuttavia, il giovane Fusaro commette il solito errore di Destra (o mistificazione?) di chi esalta la nazione e il popolo: all’interno della comunità nazionale il popolo appare come una massa omogenea, sorretta da uno stesso sistema di valori e accomunata dagli stessi obiettivi politici. Ma, noi sappiamo, il popolo così concepito non esiste: vi sono, al contrario, le classi sociali, che conducono, ancora oggi, stili di vita differenti e godono di opportunità culturali, economiche, ecc. assai diverse tra loro. Non possiamo ritenere che, per esempio, il pensionato medio italiano (il 55% dei pensionati) con la pensione minima di circa 500 euro al mese abbia lo stesso ruolo, le stesse opportunità e partecipi nello stesso modo alla vita della comunità nazionale rispetto alla classe degli italiani miliardari come Berlusconi.

Ricordiamoci anche la riflessione che Lenin fa sulle elezioni: quando il lavoratore è nella cabina di fronte alla scheda elettorale e deve scegliere è un qualunque piccolo borghese posto di fronte a questo ente misterioso che è il potere politico-economico. L’operaio ritrova una forza solo quando, insieme ai suoi compagni, entra in lotta, sciopera, promuove manifestazioni, cioè quando non è più un individuo isolato ma entra a far parte di un movimento visibile che si contrappone al potere dell’avversario.

Nel proseguo dell’intervista Fusaro attacca poi Toni Negri in quanto veteromarxista, senza però spiegare cosa egli intenda con tale definizione. Che può voler dire Fusaro ? Tutto si può dire di Negri, tranne che sia stato un seguace della Terza Internazionale o uno stalinista ! Anzi, probabilmente Toni Negri non è mai stato neanche un vero marxista.

Allora perché Fusaro accusa questo noto personaggio della storia recente della sinistra italiana?

Perché, in questo modo, Fusaro confonde le idee dell’ascoltatore dell’intervista e si auto-propone come un innovatore del marxismo. Un innovatore che, partendo da Marx, propone una nuova posizione politica, di cui cerco di sottolineare la visione del tutto utopistica: immagina un mosaico di singole nazioni che si organizzano in modo da essere rispettose di sé stesse, delle proprie tradizioni ma anche delle altre nazioni e delle altre tradizioni, affinchè tutti si confrontino e collaborino pacificamente! Purtroppo quella di Fusaro è una utopia totale: abbiamo una davvero ampia letteratura storica che comprova che la nazione è, non solo un che di barbarico, ma anche una delle fonti principali di guerre tra i popoli.

Partiamo, dunque, ancora una volta da Marx.

Marx ha messo in luce che la tendenza interna al capitalismo porta verso la mondializzazione socio-economica e verso il superamento della dimensione nazionale. Proprio per questo ha lanciato la parola d’ordine dell’internazionalismo proletario: se si vuol fare politica, bisogna avere un fondamento reale, ossia bisogna che il progetto politico proposto abbia una radice nel movimento oggettivo delle cose.

Nella storia del capitalismo tale sollecitazione internazionalistica è stata via via contrastata sia dall’interesse della piccola proprietà privata, sia dall’interesse delle singole Multinazionali che si combattono ancora oggi l’una con l’altra. E sono proprio questi feroci contrasti a fare dell’internazionalismo proletario l’unico possibile strumento di superamento delle contraddizioni del capitalismo attraverso la lotta proletaria organizzata a livello internazionale.

A ben vedere, quindi, la posizione di Fusaro non ha effettiva aderenza con la realtà oggettiva del processo socio-economico attuale; e considera tale processo storico oggettivo come una sorta di “devianza” dall’utopia immaginata di un mondo (a-storico) di piccole nazioni sovrane e pacifiche. Inoltre, il Fusaro ricade negli stessi equivoci del pensiero ‘comunitarista’ di Preve, suo maestro, che esaltava le comunità nazionali contro alla dimensione internazionale della vita contemporanea.

Nel suo libro Inglehart individua nella cultura moderna due fondamentali spiegazioni del costituirsi e dell’evolversi delle formazioni sociali, ossia quella di Marx e quella di Max Weber.

Secondo Inglehart, il punto di vista di Marx è quello per cui è il livello economico che sollecita la produzione di strutture ideologiche, politiche e morali, che danno vita alla formazione sociale, e quindi è il livello economico a determinare lo sviluppo della cultura. Invece, per Max Weber (sempre secondo Inglehart) è la cultura a condizionare lo sviluppo economico.

Qui la mistificazione antimarxista e anticomunista si fa molto più sottile.

Esistono numerose pagine, di Marx, di Engels e di Lenin contro quelle posizioni che pretendono di dedurre il piano politico, culturale, ideologico dalla base economica. Nella prospettiva marxista  -attenzione: non nel DIAMAT, nella vulgata del marxismo!-  le cose sono estremamente più complicate.

Quando affronta il rapporto struttura-sovrastruttura, Marx scrive chiaramente che la struttura agisce, opera, tende a plasmare la sovrastruttura in ultima istanza e attraverso giri viziosi (in tedesco, Umweg, passare per vie traverse). La categoria dell’Umweg è molto importante, perché testimonia che, da buon hegeliano, Marx sa bene che, quando si analizza una situazione storica determinata, lo schema generale del rapporto base economica-sovrastruttura può saltare, può farsi più complicato, contraddittorio.

Per esempio, riferendosi al comunismo di guerra, Trotskij sottolinea come fu imposto non da necessità economiche ma politiche, indicando proprio tale fenomeno come dimostrazione del fatto che il rapporto tra base economica e sovrastruttura è, appunto, estremamente complesso.

Nel pensiero marxiano il livello causante fondamentale non è affatto quello economico; bensì quello socio-economico. E’ quello della relazione tra gli uomini a scopo della produzione, ossia è immediatamente società ed economia insieme. Per questo Marx non è iscrivibile tra gli economisti puri e semplici; ma sì nella tradizione dell’economia politica, cioè di quella visione per cui l’economia fa parte di un complesso di comportamenti in cui non agiscono solamente meri meccanismi naturali e imperativi; ma sono presenti le scelte umane, le possibilità che l’uomo riesce ad intravedere o non intravedere, gli errori che commette.

Allora, quando Marx scrive che la base economica – cioè il rapporto socio-economico per la produzione –  in ultima istanza e in via indiretta determina, cioè spinge in una certa direzione anche la sovrastruttura culturale, religiosa, ideologica vuole intendere, innanzitutto, che è necessario analizzare il rapporto struttura-sovrastruttura all’interno e in relazione allo specifico contesto storico in cui quel determinato rapporto si è andato formando. È proprio tale prospettiva dialettica, la base hegeliana, del pensiero marxiano a garantirne la vitalità.

Il post-moderno è al contrario un pensiero rigido e schematico, come dimostra anche il suo “scientismo”.

La cultura post-moderna tende, infatti, a concepire l’indagine sui fenomeni sociali secondo il modello della scienza della natura, ponendo all’ordine del giorno il problema della previsione. Quando elabora una certa legge del comportamento dei fenomeni, il fisico pretende anche in questo modo di prevedere che cosa accadrà.

Ma è possibile applicare tale modello alle scienze sociali?

Da un punto di vista marxiano, no. Il comportamento sociale è legato al livello della coscienza dei soggetti che operano (al contrario degli atomi che operano senza coscienza). La coscienza può determinare slittamenti, movimenti devianti, può alterare e di fatto altera i rapporti schematici tra struttura e sovrastruttura. Sicché le previsioni morali non si verificano in tempi brevissimi come nel comportamento degli atomi, ma trovano conferma solo nel lungo periodo.

E allora, quando lo scienziato morale contemporaneo, che in realtà è nato in funzione antimarxista, insiste sul momento della previsione, così come fa Fusaro, per dimostrare che le previsioni di Marx non si sono verificate, sta proiettando così nell’ambito morale, un processo, un fenomeno, un criterio che invece ha senso esclusivamente nell’ambito delle scienze naturali. E, in altre parole, sono questi gli imbrogli del postmoderno che prima Inglehart e ora Diego Fusaro ci ripropongono.

È chiaro, dunque, che lo scientismo comporta un impoverimento dello stesso concetto di storia degli uomini e del rapporto struttura-sovrastruttura, una sua riduzione ad unum; così come il marxismo della vulgata ha irrigidito e impoverito il pensiero di Marx perdendone la dimensione dialettica.

Concludendo, a mio modo di vedere, tra le tante cose che dobbiamo fare c’è anche questa: prendere sul serio la cultura postmoderna come uno dei punti fondamentali dell’ideologia capitalistica, cioè del nostro avversario di classe, che purtroppo è penetrata largamente a sinistra e che, per questo, impedisce lo sviluppo di un più ampio movimento comunista.

Aggiungo un’osservazione, mi pare, di stampo leninista: necessario è il lavoro di formazione di elementi di avanguardia, che si mettano in relazione con le masse popolari, con cui sappiano discutere e mettere in dubbio le credenze propagandate dalla cultura dominante. Sarebbe uno dei ruoli fondamentali del partito no? Di un partito comunista che fosse effettivamente tale.

Io credo – e insisto su questo – che ciò che pubblichiamo dobbiamo sforzarci di farlo circolare, perché, forse è vero, abbiamo una certa capacità di provocare discussioni, di proporre temi diversi da quelli che ci vengono ammanniti dalla cultura ufficiale. Non credo, infatti, che il nostro bilancio sotto questo punto di vista sia del tutto negativo: qualche piccolo risultato lo abbiamo.

Se insistiamo su questa strada, forse possiamo riuscire ad allargare il numero delle persone coinvolte in un’azione, come dire, di avanguardia, di diffusione, di sollecitazione del dibattito e della critica.

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Foto: La Pertenencia (da Google)

 

25 commenti per “Gli imbrogli del post-modernismo. Contro Ronald Inglehart e Diego Fusaro

  1. Panda
    23 Ottobre 2018 at 14:09

    Con rispetto per l’autore, qui c’è un punto che secondo me è dirimente: “comprova che la nazione è, non solo un che di barbarico, ma anche una delle fonti principali di guerre tra i popoli.”

    Vorrei vedere, testi alla mano, dove Marx avrebbe sostenuto che la nazione in quanto tale è un che di barbarico, perché invece non avrei nessuna difficoltà a citare pensatori *federalisti*, ossia liberali, che esprimo esattamente tale punto di vista.

    Ho già menzionato l’ottimo libro di Erica Benner, che contesta, nell’ambito della ricostruzione del pensiero di Marx, quello che definisce “nazionalismo metodologico”, ossia l’attribuzione di una rilevanza del tutto sproporzionata, generalmente determinante, nel bene o nel male poco cambia, alla nazione.

    Un paio di citazioni: “Far from representing an irredeemable weakness in their approach to the subject, Marx and Engels’ emphasis on the limited autonomy of nationalism has much to recommend it today. In their empirical writings, first of all, Marx—and sometimes Engels—insisted on clearly distinguishing the different nationalist programmes supported by various groups within the same nation, and on relating these differences to conflicts over social and political power.”

    “They judged the merits of nationalist or internationalist policies in terms of their specific programmatic content, not according to an abstract, cosmopolitan model of working-class unity. The ‘nationalizing’ of internationalism was desirable, moreover, in so far as it involved a growing recognition of the practical interdependence of local and external needs. As in 1848, Marx continued to advocate an interest-based conception of working-class internationalism, treating nationally localized interests as the building-blocks of any effective cooperation between the workers of different countries.”

    Scusate, ma tra federalisti e “sovranisti”, io mi chiamo fuori. 🙂

    • Carlo Tarsitani
      24 Ottobre 2018 at 12:49

      Dall’intervento precedente non si può evincere con chiarezza il significato dell’ “internazionalismo” marxista. Non so se l’intervenuto nega l’esistenza dell’internazionalismo in Marx. Hanno quindi sbagliato gli altri? Mi pare ovvio che qualsiasi prospettiva politica, anche rivoluzionaria, debba tener conto della suddivisione della popolazione mondiale in “nazioni”. E’ quindi occorre sempre tener presenti le scelte tattiche e strategiche del capitale imperialistico-finanziario internazionale. Qui, indubbiamente, ci sono “nazioni” che contano molto e “nazioni” che contano meno. Ma teniamo sempre presente che in ogni “nazione” c’è una struttura di potere, disancorata dalla popolazione, che agisce sostanzialmente per difendere gli interessi del capitale. Qui nasce il problema serio: c’è oggi un conflitto tra capitali “nazionali” e attraverso quali forme si rivela questo conflitto? E’ in questo ambito che si possono definire gli interessi delle classi che subiscono la storia e capire quanto di nazionale o di transnazionale vi è in loro.

      • Panda
        24 Ottobre 2018 at 19:31

        Mi guardo bene dal negare l’irrinunciabilità dell’internazionalismo, Carlo. Semplicemente prendo atto che la sua mediazione politica è sempre stata, e realisticamente non può ancora che essere, nazionale (pure la parola lo suggerisce, peraltro). Non mi pare una gran dramma, però; per chi ritiene che la nazione sia in sé “un che di barbarico” le cose parrebbero stare diversamente.

        • Mirko
          25 Ottobre 2018 at 11:04

          Scusa Panda, vedo solo ora che in realtà il commento non solo è stato pubblicato, ma che hai anche risposto. Avverto Carlo Tarsitani perchè credo non se ne sia accorto. Qui mi pare di essere molto d’accordo e rimando solo all’osservazione che ho appena fatto nell’altro intervento riguardo alla nazione storicamente determinata e alla nazione in sè.

  2. Mirko
    23 Ottobre 2018 at 17:53

    Infatti non è Marx a dirlo in questo caso, ma “una davvero ampia letteratura storica che comprova che la nazione è, non solo un che di barbarico, ma anche una delle fonti principali di guerre tra i popoli”.

    • Panda
      23 Ottobre 2018 at 21:02

      Caro Mirko, non è però che Marx sull’argomento non si sia espresso, è che diceva proprio tutt’altro. Questa “ampia letteratura storica” dovrà essere bella pesante per farci ignorare Marx, no? Dunque vediamola.
      Perché a me questa oggettiva “barbarità” della nazione, una parola che ricorre ripetutamente anche nella Costituzione, per dire, pare tutt’altro che “comprovata”; pure la sua rilevanza in quanto “fonte” di guerre fra i popoli mi sembra confondere le cause (l’imperialismo) con gli effetti (legittimazioni ideologiche del medesimo). Esattamente come fanno i federalisti, che del capitalismo sono apologeti. Per dire, non so tu, ma io non ritengo un caso se i nazionalisti italiani acquistano una qualche rilevanza politica solo dopo la crisi del 1907…

      • Mirko
        24 Ottobre 2018 at 10:50

        Quante volte Marx ha criticato le nazioni e i nazionalismi e tutte le guerre che dai contrasti tra esse ne derivano. Qui Garroni sta criticando Fusaro in quanto ha una visione postmoderna e perde il senso della storia, illudendosi che possano coesistere pacificamente nazioni e nazionalismi tra loro, dimenticandosi degli oggettivi interessi contrastanti. Qui l’intervista a Fusaro che Garroni sta criticando: https://www.youtube.com/watch?v=EV_P_eybAe4&list=PLo-vwNjnLdbYeKAXeEYoXqFW5S7KNk0sY&index=9

        • Panda
          24 Ottobre 2018 at 19:43

          Marx ha criticato le nazioni in quanto tali, Mirko? Mi fai vedere dove? Perché che la nazionalità possa essere veicolo di politiche reazionarie è più che ovvio e non mi sono sognato di negarlo; come mi parrebbe però altrettanto ovvio che invece può esserlo di politiche di segno progressivo: andrà analizzato caso per caso questo contenuto specifico e l’identità di classe dei soggetti coinvolti. Ovviamente questa critica *vale anche per Fusaro!*

          • Mirko
            25 Ottobre 2018 at 10:58

            Il problema credo che nasca proprio da qui forse, e si evince anche dagli altri interventi: nè l’articolo che stiamo commentando, nè io, ne Marx stiamo parlando qui di nazioni in quanto tali, in sè e per sè, astraendole dal contesto storico; ma si invece di nazioni storicamente determinate, che è appunto quello che dici nella seconda parte dell’intervento e con cui concordo. Non capisco perchè però parti dal concetto di nazioni in quanto tali e poi vai a finire alla nazione storica, che come giustamente dici va analizzata caso per caso. L’intervento che ho sotto riportato di Carlo Tarsitani – con il quale mi trovo in linea di massima abbastanza d’accordo – spiega meglio questo punto di vista che evidentemente io non sono riuscito ad esporre chiaramente.

  3. Adriana
    23 Ottobre 2018 at 17:56

    https://www.youtube.com/watch?v=Tg1YU0Og0uA&t=92s

    Questo il link dell’intervento di Stefano Garroni. Raccomando la sua visionea coloro i quali volessero approfondire.
    Forse nel testo pubblicato il redattore ha inserito delle aggiunte non necessarie che andavano messe tra parentesi.

  4. 24 Ottobre 2018 at 17:21

    Panda – io credo che, parlando di una “ampia letteratura storica” Garroni si riferisca non a Marx nello specifico, ma alle vicende che hanno visto cadere il mondo intero nella barbarie delle guerre mondiali del secolo scorso. Il problema della “nazione” è, a mio parere, legato all’idea di “corporativismo” e oggi “neo-corporativismo” che la caratterizza.
    I danni dell’imperialismo colonialista si sono tutti avuti con il consenso, a mio parere in gran parte inconsapevole, dei lavoratori delle varie nazioni nella “barbarie” degli interessi capitalistici dei singoli paesi coinvolti, chiamati a condividere i drammi della guerra in nome di futuri vantaggi. Tutti partecipi come un sol corpo all’ottenimento di quei vantaggi.
    Non per nulla la parola d’ordine di Lenin “basta con la guerra” si è dimostrata vincente.
    Sono comunque anch’io del parere che, come proposto da Adriana, vada visto il video nella sua completezza. Effettivamente se non si fa questo si rischia di avere una visione “personalizzata” della cosa. Ognuno di noi quando scrive di qualcosa inevitabilmente ci mette del suo, e qui si trascrive per di più cose dette da altri. E non va dimenticato ne sottovalutato il fatto che stiamo parlando di argomentazioni nate per essere esposizioni colloquiali.

    • Panda
      24 Ottobre 2018 at 20:05

      Sicuramente l’opportunismo dei partiti socialisti all’epoca della prima guerra mondiale è stata una tragedia, Ermanno, che però mi pare una scorciatoia illusoria e pericolosa scaricare sulla “nazione”: l’intreccio di cause (l’assenza di una strategia rivoluzionaria, il peso dei sindacati, e altri fattori specifici ai singoli contesti nazionali), che riassumerei nella difficoltà di svolgere efficacemente attività politica di classe senza cadere nel trasformismo, ancora ci interpellano.

      Lenin ha certamente saputo interpretare efficacemente il distacco dei ceti popolari dalle istituzioni pubbliche russe, ma mai si è sognato di dire “basta con le nazioni”, anzi (spero che non ci sia bisogno di citazioni, tanto sono conosciuti gli scritti di Lenin sulla questione nazionale. Si può rileggerne utilmente uno del 1913, a volte trascurato, Considerazioni critiche sulla questione nazionale, che sta nel vol. 20 delle Opere complete, e che si apre con l’osservazione che una cultura politica “anazionale” non esiste).

      La questione che sollevo va al di là del caso Garroni: so per esperienza che idee come quelle, lo ripeto: di stampo prettamente liberale, circolano tranquillamente anche tra gente che si considera marxista ed è per questo che ho voluto parlarne. Per dire, visto che senza alcun dubbio avvenne per sostituire la sovranità del monarca con quella nazionale, che giudizio dovremmo dare della Rivoluzione Francese, una volta condannata la nazione in quanto tale? E visto che l’attività politica democratica negli ultimi due secoli, comprese le due internazionali (che erano solo istituzioni di coordinamento), si è svolta in ambito nazionale, non vedo come sia possibile evitare di rivolgere alle masse un’accusa di irrazionalità. A me sembra che chi vuol mettere le nazioni in quanto tali sul banco degli imputati non si renda conto dei presupposti e delle implicazioni teoriche e politiche di tale punto di vista, che niente hanno a che vedere col marxismo.

      • Mirko
        25 Ottobre 2018 at 10:49

        Riporto qui un commento di Carlo Tarsitani che risponde al primo intervento di Panda, perchè lui non è riuscito a pubblicarlo. Intervento con il quale sono molto d’accordo – almeno nella prima parte -, e che forse riesce anche a spiegare meglio quello che volevo dire io, perchè dalle risposte è evidente che non sono riuscito a farmi capire: “Panda”. Dall’intervento precedente non si può evincere con chiarezza il significato dell’ “internazionalismo” marxista. Non so se l’intervenuto nega l’esistenza dell’internazionalismo in Marx. Hanno quindi sbagliato gli altri? Mi pare ovvio che qualsiasi prospettiva politica, anche rivoluzionaria, debba tener conto della suddivisione della popolazione mondiale in “nazioni”. E’ quindi occorre sempre tener presenti le scelte tattiche e strategiche del capitale imperialistico-finanziario internazionale. Qui, indubbiamente, ci sono “nazioni” che contano molto e “nazioni” che contano meno. Ma teniamo sempre presente che in ogni “nazione” c’è una struttura di potere, disancorata dalla popolazione, che agisce sostanzialmente per difendere gli interessi del capitale. Qui nasce il problema serio: c’è oggi un conflitto tra capitali “nazionali” e attraverso quali forme si rivela questo conflitto? E’ in questo ambito che si possono definire gli interessi delle classi che subiscono la storia e capire quanto di nazionale o di transnazionale vi è in loro.

  5. Panda
    25 Ottobre 2018 at 14:37

    @MIrko: rispondo al commento delle 10:58. Sappiamo bene che un elemento fondamentale del metodo marxiano è l’uso di diversi livelli di astrazione storica. Quello del Capitale non è quello del 18 Brumaio, per esempio. Quindi io posso usare un concetto di nazione che è molto generale, anche se andrebbe comunque precisato meglio, e poi scendere di livello di astrazione per verificarne la pertinenza, almeno come “media ideale”, come di Marx nel III libro, per analisi più specifiche.

    Ora a me pareva, e sinceramente leggendolo continua a parermi, che l’articolo esprimesse un giudizio di valore (la nazione come barbarie) a un livello di astrazione in cui risultava del tutto indebito, attribuendo alla nazione stessa un ruolo di fattore causale sproporzionato rispetto alla realtà. Siccome l’antinazionalismo metodologico ha la sua parte nel pubblico dibattito – è il principale strumento di legittimazione ideologica dell’UE, per dirla chiara – smarcarsi da un punto di vista che usa il feticcio della nazione per nascondere, non granché bene direi, la propria natura antidemocratica secondo me ha la sua importanza.

    Se poi invece siamo d’accordo su tutto e generalizzazioni, positive ma anche negative, sulla nazione sono da rifiutare, ne prendo atto con piacere.

    • 25 Ottobre 2018 at 18:18

      Mi pare condivisibile quello che dici, (non dimentichiamo le affermazioni di Marx ed Engels sul carattere progressivo delle guerre nazionali di liberazione). Forse ascoltando l’audio originale la questione di cui tu dici si riesce a vedere meglio, e anzi, se questo ci viene confermato significa che dobbiamo migliorare il lavoro di esposizione in forma scritta che stiamo facendo. Io sono anche per l’uscita dalla UE (non da destra ovviamente).

  6. Carlo Tarsitani
    26 Ottobre 2018 at 11:50

    Riprovo a intervenire. Temo che Stefano sia stato frainteso. Occorre qui distinguere alcuni termini, che a volte appaiono in maniera confusa. Precisamente: Nazione, Nazionalismo, Popolo. Quello di Nazione è in primo luogo un concetto “formale”, definito da linee che rappresentano i confini su una carta geografica. Questo concetto non è imputabile di “barbarie”, sono bensì imputabili, spesso, di barbarie, coloro che questi confini li hanno disegnati. Il nazionalismo non può essere quindi definito in base a quei confini. E’ qualcosa di più e di diverso. Che Guevara diceva: “Patria o muerte”. Ecco che bisogna essere dialettici. Quando esiste un forma di oppressione (per es. coloniale, ma anche economica, ecc.) lo slogan nazionalistico è uno slogan di ribellione contro l’oppressore e su questo la sinistra rivoluzionaria non ha niente da dire. Se lo slogan nazionalistico diventa slogan di espansione economica e militare oppressiva verso altre nazioni (per la conquista dello “spazio vitale” o per il controllo economico, il depredamento delle risorse, ecc.), si tratta, di nuovo, di “barbarie”. In mezzo a tutto c’è il concetto di “popolo”. La nazione “formale” non coincide quasi mai con la nazione “popolare” (Israele e Palestina). I “popoli” israeliano e palestinese hanno ciascuno i propri “diritti”. Il “popolo tedesco” e il “popolo italiano”, hanno dato manifestazione di sé nel XX secolo. Il nazionalista si appella al proprio popolo. Ora tutti questi popoli erano o sono divisi in “classi sociali”. Nelle nazioni industrializzate, le classi sociali, vengono prima del popolo e quindi non possono essere “nazionaliste”, se non nel caso di una ribellione nei confronti di un oppressore straniero (che spesso è alleato col proprio oppressore economico). Proletari di tutto il mondo, unitevi! Se il capitale è sovranazionale anche il proletariato è sovranazionale.

  7. Mirko
    26 Ottobre 2018 at 14:44

    Credo che si debba distinguere tra nazionalismo e patriottismo, e il passo dall’uno all’altro è breve. Comunque, sia per maggior chiarezza, sia per riportare il dibattito nel tema, riporto qui una estrapolazione integrale della trascrizione originale riguardante il punto inquestione: ” […]l’alternativa che [Fusaro] dà indica all’internazionalismo che è solo quello del padrone: è una cosa di un’utopia totale, e cioè che le singole nazioni si organizzino in modo da essere rispettose di sé stesse, delle proprie tradizioni ma anche delle altre nazioni e delle altre tradizioni, e tutti pacificamente si confrontino, si uniscano, collaborino; che è l’utopia totale. Noi abbiamo un’ampia letteratura che comprova l’esperienza storica che tutti abbiamo per cui la nazione è non solo un che di barbarico ma è una delle fonti principali di guerre.
    Che cos’è che mi interessa qui ricavare in sostanza? [dice Fusaro]: “Marx sbaglia ad indicare l’internazionalismo proletario come alternativa al capitalismo perché l’unico internazionalismo esistente è quello capitalistico”. Ora, Marx sa benissimo che il sistema capitalistico ha una sua tendenza interna verso la mondializzazione, ed è proprio per questo che lancia la parola d’ordine dell’internazionale proletaria, perché se si vuol fare politica, dobbiamo sempre ricordare che la politica è l’arte del possibile, cioè non ha nessun senso lanciare la parola d’ordine dell’internazionale se non esiste nel mondo obiettivamente qualcosa che spinge al superamento dei confini nazionali; e il capitalismo ha anche questo ruolo di favorire, di mettere in luce questa spinta verso l’internazionalismo, il superamento delle nazioni, ovviamente con tutte le contraddizioni perché poi non esiste la mondializzazione capitalistica: mondializzazione non è lo stesso che globalizzazione, in realtà l’internazionalismo del padrone ha dato luogo a regioni economiche diverse, e anche conflittuali (basti pensare alla faccenda dollaro-euro per esempio), allora se si vuol fare politica realmente bisogna avere un fondamento, una radice, bisogna che la parola d’ordine che io lancio, il movimento che io metto in piedi, abbia un riferimento obiettivo, abbia una radice nel movimento obiettivo delle cose. Ora il movimento obiettivo delle cose è verso un’economia che supera il confine nazionale. Quando questo avviene nella pelle della forma capitalistica di produzione, questa sollecitazione internazionalistica viene subito contrastata e dall’interesse della proprietà privata e dall’interesse delle singole multinazionali che si combattono l’una con l’altra, per cui in realtà l’unico vero possibile internazionalismo è proprio quello proletario, però appunto Fusaro può presentarsi come sostenitore di un nuovo internazionalismo, avendo però tolto a questa parola d’ordine un fondamento reale, e citando con enfasi la comunità nazionale. Comunità mi fa venire in mente comunitarismo. La nazione contro l’internazionale mi fa venire in mente la nazione europea di Hitler contro gli Stati Uniti, cioè i riecheggiamenti del discorso di Fusaro riprecipitano in quell’equivoco maledetto che era il pensiero di Preve e non solo di Preve, ma del movimento comunitarista appunto. […]

  8. Panda
    26 Ottobre 2018 at 20:37

    Vediamo un po’, Carlo: mi sembra che tu definisca “nazione in senso formale” quello che io chiamerei Stato. I confini vengono stabiliti da o per gli Stati, no? D’altra parte se è vero che esistono stati plurinazionali, molti stati hanno comunque una nazione, intesa in senso storico-culturale, maggioritaria. Ossia popolo e nazione sono sinonimi. Fino a qui ci siamo?

    Mi lascia perplesso la frase secondo cui le classi sociali verrebbero prima del popolo, se intendi popolo come sinonimo di nazione. Sono due concetti eterogenei. E’ come se dicessi che le classi sociali vengono prima della lingua…non suona un po’ assurdo? Mi sembra di intravedere dietro queste preoccupazioni lo spettro di quello che Castoriadis chiamava “il soggetto assoluto”, completamente padrone di sé in una società perfettamente autotrasparente. E’ un miraggio impossibile. Una qualche dimensione storico simbolica è connessa a qualsiasi società umana: l’alienazione può essere, e nel caso di una società capitalista è, nella storia, ma non è la storia stessa. E’ molto significativo, e dimostra che la critica di Castoriadis se rivolta a Marx non è fondata (a certo marxismo resta da vedere), che Marx non considerasse di per sé alienante o sovrastruttura del capitalismo, anche perché non lo è, l’appartenenza nazionale. Semplicemente la nazione è quel contesto storico-culturale, che in una società capitalista è segnato dalla divisione in classi, in cui le classi subalterne agiscono politicamente la loro aspirazione all’emancipazione, riconoscendo la necessità di coordinarsi con le medesime classi appartenenti ad altri popoli. In una lettera a Kautsky del 7 febbraio 1882 Engels diceva che «Un movimento internazionale del proletariato è possibile solo tra nazioni indipendenti», così come una «cooperazione internazionale è possibile solo tra eguali». Naturalmente niente vieta di immaginare nuove simbolizzazioni collettive, ma bisogna poi vedere attraverso quali procedure e con quali risultati. Altra lettera, questa volta di Marx a Engels: “Gli inglesi risero molto allorché iniziai il mio discorso osservando che l’amico Lafargue ecc., che ha abolito le nazionalità, si è rivolto a noi «in francese», cioè in una lingua che i 9/10 dell’uditorio non comprendevano. Ho accennato inoltre al fatto che egli, in modo del tutto inconscio, per negazione delle nazionalità intende il loro assorbimento nella nazione francese modello.” E’ chiaro cosa intendo dire?

    A Mirko ribadisco che quando si dice che dal patriottismo al nazionalismo “il passo è breve”, così, indipendentemente dalla dinamica del conflitto sociale nel contesto in cui quel passo potrebbe essere compiuto, ci si sta mettendo sul terreno di sostenere che il problema sta nell’irrazionalità psicologica delle masse. Io direi meglio Adorno (“il pericolo è oggettivo, non è nelle persone”) di Le Bon. 🙂

  9. Riccardo
    28 Ottobre 2018 at 9:34

    Scusate, un intervento terra a terra senza pretese intellettuali marxiste o altro. Solo e semplicemente una considerazione: non si riesce a mettere insieme attivisti e militanti per poter gestire una assemblea di condominio e si spera di fare la rivoluzione mondiale???? Ma state scherzando? Nemmeno quando c’era il favore di nazioni “comuniste” si è riuscito a fare qualcosa di concreto in tal senso e dovremmo riuscire oggi noi a fare una cosa di questo genere? Mahhh….

  10. Carlo Tarsitani
    29 Ottobre 2018 at 19:25

    Scusate se semplifico. Come interpretiamo ciò che è successo in Jugoslavia? Penso che Stefano alludesse a quella tragica vicenda. Si vuole sostenere che si è sbagliato a fare uno Stato che contenesse diversi popoli? Non credo che il problema fosse culturale o religioso, il problema è stato lo scatenarsi di un odio tra poveri affamati e quindi avidi che dovevano caratterizzarsi nazionalisticamente. Non credo che quando Marx parlava di “nazione”, usasse il termine come sinonimo di “popolo”. Avrebbe usato il termine “popolo”. Se il termine “popolo” viene usato come sinonimo di “popolazione” che vive in uno Stato (accetto questo suggerimento) allora il discorso sulle divisioni di classe è del tutto pertinente. Ma qui si insinua un concetto di popolo del tipo “popolo ebraico”. Allora si può dire: prima viene il popolo ebraico e poi le sue eventuali diseguaglianze sociali. Ma quando Marx ha scritto “La questione ebraica” non la pensava affatto così. Se poi arriviamo a dire “prima gli italiani”, come Salvini, credo che ci si riferisca ai cittadini italiani e non ad un “popolo” che di fatto non esiste. Ecco, ad esempio, lo Stato USA non è caratterizzabile né in termini di “nazione” né in termini di “popolo”. Eppure il nazionalismo (economico) USA può scatenarsi a spese degli altri Stati. Sono sicuro che per Marx il problema “nazionale” non fosse un problema di popoli o culture e tradizioni, Marx si riferiva concretamente a una realtà politica (di cui occorreva assolutamente tener conto). E quindi per lui il termine “nazione” era molto vicino per ambito di applicazione a quello che propone Panda col termine “stato”.

    • Panda
      30 Ottobre 2018 at 10:52

      Ribadisco che non intendo polemizzare su un filmato, ma affrontare un argomento che ha una sua importanza.

      Se mi descrivi il conflitto jugoslavo in quei termini, Carlo, che per il momento mi possono anche andare bene, stai semplicemente dicendo che la violenza fu scatenata da cause materiali e il nazionalismo è stato l’armamentario simbolico usato per significarle da chi vi era coinvolto, il che non vedo come sia in contrasto con quanto ho detto finora.

      Quanto a Marx, vediamo un po’:

      “No socialist,” remarked the Doctor, smiling, “need predict that there will be a bloody revolution in Russia, Germany, Austria, and possibly in Italy …. That is apparent to any political student. But those revolutions will be made by a majority. No revolution can be made by a party, but by a Nation.”

      Questa è un’intervista rilasciata da Marx al Chicago Tribune nel 1879 e riemersa solo qualche decennio fa. Scrive la Benner: “Throughout Marx’s writings, ‘nation’ is often used interchangeably with the terms ‘people’ or ‘peoples’ (Völker)”.

      Questo tuo passaggio conferma pienamente il punto che cerco di sollevare dall’inizio: “Allora si può dire: prima viene il popolo ebraico e poi le sue eventuali diseguaglianze sociali.” Per potersi dire si può dire, ma concretamente *chi* lo dirà? Ovviamente le classi che hanno interesse a farlo. Se tu annetti quest’attitudine “negazionista” al concetto stesso di popolo/nazione (sulla questione dello Stato, vd. sotto) *prima* della questione della sua divisione in classi cadi in quel che la Benner chiama nazionalismo metodologico.

      Così come quel che dice Salvini dipende dalle classi a cui è legato, non dall’esistenza del popolo italiano (che ovviamente sussiste…).

      Se invece vogliamo parlare dello Stato, lui sì uno dei bersagli polemici di Marx!, il discorso si complica parecchio. Un’analisi dello Stato allo stesso livello di astrazione del Capitale manca, questo lo sappiamo benissimo. Possiamo comunque tranquillamente dire che gli Stati sono “barbari”, ma in quanto costituiscono la forma politica, di forza concentrata, delle relazioni capitalistiche, non perché sono, o non sono, “nazionali”. Non mi sembrano questioni di lana caprina. Per esempio, proprio parlando di Jugoslavia, intellettuali vicino alle ragioni dei “civilizzatori” occidentali attribuirono i conflitti all’irrazionale e inemendabile, senza un benevolo intervento esterno, nazionalismo balcanico (vd. Chi dice umanità di Zolo). La fatica di distinguere mi pare ancora irrinunciabile.

  11. Alessandro
    30 Ottobre 2018 at 20:44

    Tutti gli attuali e tremendamente residuali movimenti-partiti di stampo comunista in Italia sono “internazionalisti”. Recitano una parte che forse andava bene tempo addietro, visto che attualmente non riescono più a catalizzare su di loro se non uno sparuto numero di sostenitori. In attesa che il “popolo” ritorni a essere “internazionalista” in senso comunista ( visto che l’internazionalismo che ha conosciuto negli ultimi venticinque anni circa è stato di tenore opposto e quindi la parola non è che susciti tutti questi entusiasmi), forse bisognerebbe battere altre strade, volte alla ricerca di un maggior consenso senza perdere il proprio orizzonte valoriale, ma senza al tempo stesso farne una prigione.
    In questo sicuramente i movimenti comunisti sudamericani possono insegnar qualcosa ai troppo “cerebrali” europei e italiani in particolare. Là all’occorrenza non ci si fa alcuna remora a utilizzare come propri vessilli anche le bandiere nazionali, sempre che vengano sventolate al servizio degli interessi della classe lavoratrice locale. Per poi stringere alleanze internazionali ci sarà comunque tempo, un passo alla volta.
    Io penso che i “pragmatici” comunisti-socialisti sudamericani hanno dimostrato di essere in grado, più dei loro “compagni” europei, di tener vivo quel tipo di progetto, perchè, nonostante Bolsonaro e gli USA semrpe alle calcagna, con tutti i suoi limiti Cuba è ancora lì e il Venezuela idem. Forse quindi bisognerebbe guardare di più verso quella direzione.

  12. Carlo Tarsitani
    1 Novembre 2018 at 12:07

    Visto che la sede del dibattito è questa, intervengo di nuovo, rispondendo a Panda. Le frasi citate di Marx sono largamente interpretabili in termini di popolazione di uno stato “nazionale” e non in termini di “popolo” e delle sue tradizioni culturali. Mi pare ovvio che per Marx sono possibili distinzioni tra alcuni aspetti del “capitalismo inglese”, e alcuni aspetti del “capitalismo tedesco”, ma sono considerazioni che si trovano nelle note a piè di pagina. Dopodiché il salto da questi aspetti secondari alle tradizioni culturali di un popolo mi pare eccessivo, anche se Hegel parlava di differenze importanti dovute alle religioni prevalenti, per cui i francesi, cattolici, hanno dovuto fare una rivoluzione, mentre gli inglesi, protestanti, non ne hanno avuto bisogno. Ma anche questa mi pare una “hegelata” (scusate il neologismo) di notevole nonsense. Sul popolo ebraico non è stata notata l’ironia. Rimando comunque a Marx per quanto riguarda il modo corretto di affrontare la questione (e cioè dimenticando per un momento di essere “ebrei” e pensando al fatto di essere oppressi). Almeno allora, aggiungo io. Sul “popolo italiano” facciamo scendere un velo pietoso: non è mai esistito (sono più d’accordo con Bossi). Ma esiste l’anomalia del PCI. Una questione di “popolo”? Mah direi che per questa strada non si arriva da nessuna parte. L’idea di “popolo” e di difesa dei suoi tratti culturali è tendenzialmente di destra e di una certa “destra” che è quella “comunitarista” di Preve e Fusaro che oggi si presenta in forme “rinnovate”. Ma noi non ci caschiamo!

    • Panda
      2 Novembre 2018 at 12:51

      Ma stai rispondendo a me o a Fusaro, Carlo? Perché a me direi di no.
      Comunque iniziamo da qui: “Le frasi citate di Marx sono largamente interpretabili in termini di popolazione di uno stato “nazionale” e non in termini di “popolo” e delle sue tradizioni culturali.” Ed esattamente quale apprezzabile differenza ci sarebbe fra le due entità? La popolazione di uno Stato nazionale è, lo dice la parola, la nazione che lo abita. E questa come si distingue da un insieme di persone che casualmente si trova su un territorio se non per le simbolizzazioni collettive storicamente condivise, le quali ovviamente, *proprio perché la società è divisa in classi*, potranno essere (ri)significate nell’ambito di indirizzi politici molto diversi da soggetti sociali diversi? Pure la questione formale della cittadinanza non cambia granché visto che i criteri di tale formalizzazione appartengono anch’essi all’autorappresentazione di un popolo. D’altra parte è ben noto l’appoggio di Marx all’indipendenza di nazioni prive di Stato, come quella polacca e irlandese.

      La questione dei capitalismi nazionali è tutt’altra. Il Capitale svolge teoricamente il concetto a un elevatissimo livello di astrazione che non è quello della politica concreta, che ovviamente dovrà tenere conto eccome delle specificità della situazione nazionale. Analizzando gli scritti politici di Marx, che sono legione, relativi alle diverse alleanze politiche e sociali nei vari paesi, Draper ha cavato un volume di quasi ottocento pagine: mi sa che con le note a piè di pagina non ce la caviamo. Ma come ho già detto, nazione e capitalismo sono due nozioni eterogenee. Il capitalismo lo descriverei come una separazione forzosa dell’”economico” (accumulazione originaria) da ogni forma di socialità che non è tale (religione, famiglia, nazione,…), su cui produce effetti positivi e negativi (oggi direi largamente negativi).

      La questione ebraica mi pareva un richiamo fuori tema: la polemica ha per oggetto la religione, non la nazione: gli ebrei, in quanto minoranza, chiedevano la parità di diritti, pur restando ebrei (istanza appoggiata da Marx, peraltro), non l’indipendenza nazionale.

      Mi piace questa tua franca ammissione di comunanza di vedute con Bossi (meno male che non ci cascate. Ma non sarebbe meglio, allora, se non altro per una questione estetica, richiamarsi direttamente a Metternich?). Un secolo e mezzo di storia politica comune sono stati un’illusione ottica, un’”anomalia”. Alla negazione della realtà non c’è ovviamente replica possibile.
      Rimane la questione che ho già sollevato ricordando Lenin: se una cultura politica “anazionale” non esiste, che si fa senza? Ce la facciamo prestare? Da chi, dai francesi? Dai tedeschi? Ce ne inventiamo sui due piedi una à la carte? E per rappresentare chi? Herzlichen Glückwunsch.

  13. Alessandro
    2 Novembre 2018 at 13:33

    “Mi piace questa tua franca ammissione di comunanza di vedute con Bossi (meno male che non ci cascate. Ma non sarebbe meglio, allora, se non altro per una questione estetica, richiamarsi direttamente a Metternich?). Un secolo e mezzo di storia politica comune sono stati un’illusione ottica, un’”anomalia”. Alla negazione della realtà non c’è ovviamente replica possibile.”

    E in mezzo ci stanno anche tante guerre, tra cui due mondiali, che saranno state senza dubbio delle gran porcherie( vero e proprio assassinio dei padroni nei confronti del proletariato, ma questo ovunque) ma hanno visto in ogni caso il Paese unirsi in uno sforzo comune, ovviamente soprattutto in riferimento alla guerra di cui questi giorni ricordiamo il centenario della sua conclusione.
    Probabilmente l’idea che non saremmo una nazione ma un’accozzaglia di particolarismi fa comodo a tanti che su questo aspetto ci speculano, penso per esempio a tutti quei movimentini-partitini localistici. Anche in questo caso la sinistra, come nell’attuale scenario neoliberista, gioca il ruolo dell’utile idiota.
    Mutatis mutandis, mi ricorda un po’ le “verità” del neofemminismo che ripetute da tutti diventano patrimonio comune per quanto si tratti di boiate, e anche lì la sinistra si presta, a sua insaputa, a un gioco che è sempre più sporco.
    Ci sono Stati come la Polonia o l’Ungheria che hanno meno di un secolo di vita, in passato frammentate in tante entità minori, in particolare la Polonia, che però si sentono nazioni, non perchè non ci siano differenze interne sotto il profilo latamente culturale, cosa che fondamentalmente riguarda la stragrande maggioranza delle entità statali, ma perchè si sentono tali, avendo principalmente lingua e religione in comune.
    Pensiamo poi alla Germania, che ha conosciuto una separazione quasi cinquantennale che è stata profondamente culturale e non solo meramente politico-geografica, che si sente a tutti gli effetti nazione.
    Queste posizioni che sono giunte a noi già dall’Unità, ma allora potevano avere un loro senso, si sono trasformate negli ultimi cinquantanni in “luogo comune” e non solo hanno favorito fenomeni recenti come il leghismo bossiano, ma anche tutto quell’ostracismo nei confronti di una parte del Paese giudicato diverso a prescindere. Purtroppo se stai sempre a sottolineare ciò che ti divide e mai ciò che ti unisce, alla fine si disgrega tutto, e a farne le spese saranno soprattutto i più deboli, vedasi la difficile integrazione del secondo dopoguerra dei meridionali al nord, quando allora anche il Veneto era “meridione”, ma questo è sempre stato taciuto, perchè occorreva, da parte di un certo mondo politico-accademico, continuare a perpetrare la differenza nord-sud, penisola-isole e così via.

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