Filosofia, comunità e verità

La filosofia è comunitaria, perché la verità è ricercata solo dove non vige l’individualismo. La coscienza filosofica è sempre comunicazione dialettica, condivisione disinteressata di processi veritativi. La condivisione comunitaria di parole orientate alla verità rende “fratelli di sangue”, malgrado divergenze e spostamenti teoretici. La filosofia si connota  per il suo fondamento assiologico, nella dialettica, vi è l’incontro-scontro tra rivali che desiderano la sconfitta. Ogni battaglia prevede un vincitore, nel caso della filosofia la vittoria è nella sconfitta, poiché le argomentazioni più logicamente fondate non spingono il perdente nella contesa fuori dall’orizzonte della parola, ma aprono una breccia verso nuovi riorientamenti gestaltici: l’anima si magnifica e si rigenera, in quanto le prigioni epistemiche sono una trappola dalla quale si può essere liberati solo dalla parola emancipatrice. La filosofia è stata grande tra i Greci per lo spirito comunitario che li animava, per la ricerca ininterrotta della verità. Il relativista non cerca la verità e quindi ogni sua attività è funzionale ai suoi bisogni ed interessi personali che divengono il centro del mondo. La verità costringe a trascendersi, a decentrarsi per accostarsi ad essa mediante passaggi logicamente argomentati. Il dialogo filosofico è veritativo o è solo chiacchiera da salotto. Tra Grecchi e Preve non vi sono state chiacchiere, ma concetti, e ciò emerge dalla lettura del testo che Preve ha dedicato alla filosofia di Luca Grecchi, nel quale la critica  misura e soppesa gli argomenti[1]:

E passiamo ora a Socrate. E vi sono subito alcune cose da dire su Socrate, per evitare che si discorra su di lui a vuoto. In primo luogo, Socrate si muove all’interno di una comunità, e non all’interno di una società civile di individui post-settecenteschi. Egli tende alla persuasione comunitaria in una polis in cui, nonostante la corrosione sofistica (non a caso, i sofisti sono amatissimi dai “laici” di oggi), l’esistenza della verità è data per assolutamente scontata. Sono dunque condannati a non capire nulla di Socrate tutti coloro (e ricordo ancora Bailone) che partono dal presupposto della distinzione gnoseologica kantiana fra categorie dell’essere e categorie del pensiero e che ignorano che in Socrate non c’è soltanto un’intenzione veritativa, ma anche un presupposto ontologico veritativo. La società degli individui non sa più che farsene della verità, ma la comunità antica ne presupponeva l’esistenza. In secondo luogo (cfr. G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, Torino 1996), non bisogna pensare che il dialogo socratico fosse una civile conversazione pluralistica di punti di vista tolleranti alla Rorty. Al contrario, ai tempi di Socrate la filosofia aveva “orrore” delle discussioni, il criticare senza creare era ritenuto una “piaga” della filosofia, e lo stesso dialogo socratico è una macchina spietata modellata sulla dimostrazione geometrica di tipo pitagorico che richiedeva una attenzione spasmodica. Il cosiddetto “dialogo socratico” non aveva nulla di ciò che oggi è chiamato “dialogo”. Il dialogo socratico non è altro che una ferrea tecnica dimostrativa di tipo pitagorico, la cui sola novità (peraltro importante, ma non tale da far diventare Socrate il primo filosofo, dal momento che utilizza pressoché esclusivamente argomentazioni pitagoriche) è che si svolge nella agorà davanti a tutti. Socrate è un pitagorico trasportato da Crotone ad Atene.

In terzo luogo, infatti, Olaf Gigon ha dimostrato che il “socratismo” (sokratikòs logos) è un semplice genere letterario ateniese, il terzo dopo la tragedia e la commedia. Se la filosofia viene definita come «genere letterario-filosofico specifico», allora Socrate è veramente il primo filosofo”.

 

La creazione di concetti non può che avvenire attraverso il dialogo, in esso le parole si distendono, trovano nuova forma, si struttura una nuova temporalità senza la quale non vi può essere creazione: rivivere le parole, i concetti significa lasciare spazio alla creazione,  dato che ciò che è appreso con profondità è già disposizione al nuovo.

 

Filosofare

L’attività filosofica è pensare il proprio tempo, Kant ed Hegel si ritrovano in una comune eterna verità. La filosofia non è astratta, ma vive nella storia, interagisce con essa senza essere “storica”, in quanto ogni contenuto filosofico autentico reca con sé le tracce della sua appartenenza alla storia, ma non si esaurisce in essa. La deduzione sociale delle categorie è di ausilio per discernere il contingente dalla verità. La filosofia si occupa dell’eterno, ma lo coglie nell’andamento della storia. Verità, ma  non esattezza o certezza, poiché la verità è il fondamento, il principio che determina il giudizio e consente di distinguere il bene dal male, mentre l’esattezza è la misura,  la quantificazione, sempre eguale, di un fenomeno naturale[1]:

“In primo luogo, Kant distingue due concetti di filosofia, il «concetto scolastico» (Schulbegriff), inteso come sistema di conoscenze razionali, ed un «concetto mondano» (Welbegriff), che si riferisce a ciò che interessa necessariamente ad ogni essere umano. I due concetti non sono affatto in contraddizione, ma sono anzi complementari. Opere sistematiche di tipo scolastico (pensiamo all’Ontologia dell’Essere Sociale dell’ultimo Lukács 1964-1971), che richiedono in effetti una competenza filosofica almeno media, interessano tuttavia tutti coloro che vogliono pensare radicalmente la loro collocazione sociale e spirituale nel nostro tempo. Grecchi parte sempre dal concetto scolastico della filosofia per arrivare al suo concetto mondano. Qui sta infatti il suo peculiare umanesimo.

In secondo luogo, Hegel ha dato a suo tempo due definizioni di filosofia, che possono sembrare incompatibili, ma che in realtà sono complementari. Da un lato, per Hegel la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero, e non può dunque fare a meno – lo voglia o no – di partire dalle contraddizioni storiche e sociali in cui siamo immersi. Dall’altro, Hegel ha sostenuto che la filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente, e con questo ha già fin troppo da fare. Come conciliare queste due definizioni apparentemente inconciliabili?

Non è difficile farlo, se si parte con il piede giusto. Da un lato, è necessario attuare una deduzione sociale delle categorie, correlandole così al tempo storico che ne ha consentito la generazione, e tuttavia sarebbe sbagliato fermarsi qui, perché si finirebbe con il fare una sorta di storia sociologistica e relativistica della filosofia, che inevitabilmente degraderebbe la filosofia stessa ad una funzione servile e sussidiaria. Servile verso la religione (teologia), servile verso la scienza (gnoseologia ed epistemologia), servile verso la politica (ideologia), servile verso la psicologia (terapia filosofica), eccetera.

Dall’altro, non bisogna dimenticare mai che si deve partire dalla deduzione sociale specifica delle categorie, ma si deve cercare di arrivare a ciò che è, ed è eternamente. Ed è proprio questa l’impostazione di Grecchi, che unisce felicemente il suggerimento di Kant (unire il concetto scolastico ed il concetto mondano di filosofia) ed il suggerimento di Hegel (unire il proprio tempo appreso nel pensiero e tendere a ciò che è, ed è eternamente)”.

 

Definizioni a confronto

Preve rileva che Grecchi gli contesta la sua definizione di filosofia. Per Preve la filosofia si occupa di problemi irrisolvibili, Grecchi ne teme l’incrinatura scettica. La filosofia è irrisolvibile, poiché l’eterno non può risolversi ed essere assimilato nella temporalità storica, ma necessita di essere tradotto in processualità storica. Irrisolvibilità e risovibilità  sono in tensione dialettica. La verità resiste alla storia, non si fonde e confonde con la contingenza, ma vive nella storia. L’irrisolvibilità della filosofia dimostra il suo essere attività veritativa nella storia non cumulativa, ma relazionale, la filosofia è nel tempo qualitativo e non quantitativo[1]:

“Ma, a questo punto, voglio fare alcune osservazioni personali. Grecchi mi fa infatti molte critiche specifiche, che meritano risposta. Ritengo esemplare il metodo di chi fa critiche argomentate. Lungi dall’offendere, le critiche argomentate onorano sia chi le fa sia chi le riceve. In filosofia esiste infatti un “agone amichevole”, per cui nessuno perde e nessuno vince, ma insieme si cammina verso la persuasione reciproca. E per i greci la persuasione (peithò), era una divinità.

Grecchi contesta, in modo cortese ma esplicito, una mia definizione di filosofia come «sapere che ha come oggetto la conoscenza veritativa dei problemi irrisolvibili della condizione umana» (cfr. C. Preve, Storia della Dialettica, Petite Plaisance, Pistoia 2006). Ad un “veritativo” come Grecchi questa sembra un’indebita concessione allo scetticismo, non solo, ma anche e soprattutto al kantismo, visto che Kant in effetti ha scritto (e Grecchi lo cita) che la filosofia si occupa di problemi eterni ed “irrisolvibili”.”

Se la filosofia si occupasse di problemi risolvibili, sarebbe interna ad un tempo cumulativo ed automatico, mentre la filosofia è relazionale e comunitaria, per cui le sue verità possono essere codificate, ma non essere riconosciute, pertanto solo la relazione comunitaria ed anticrematistica ne consentirà la mediazione consapevole. La filosofia è dunque irrisolvibile, poichè le sue verità possono essere riconosciute in tempi non profetizzabili, in quanto solo dove vive la relazione l’eterno si svela nel dialogo, nel pensiero che cerca la verità senza infingimenti. Socrate è stato un grande filosofo, non per assoluti meriti personali, ma in lui ha vissuto l’eterno storicizzato nella comunità dei Greci. L’attività dialogica è già verità dell’umano, può essere rimossa, ma sopravvive alle tempeste della storia per riapparire in nuove modalità in nuovi tempi storici[2]:

“E passiamo ora a Socrate. E vi sono subito alcune cose da dire su Socrate, per evitare che si discorra su di lui a vuoto. In primo luogo, Socrate si muove all’interno di una comunità, e non all’interno di una società civile di individui post-settecenteschi. Egli tende alla persuasione comunitaria in una polis in cui, nonostante la corrosione sofistica (non a caso, i sofisti sono amatissimi dai “laici” di oggi), l’esistenza della verità è data per assolutamente scontata. Sono dunque condannati a non capire nulla di Socrate tutti coloro (e ricordo ancora Bailone) che partono dal presupposto della distinzione gnoseologica kantiana fra categorie dell’essere e categorie del pensiero e che ignorano che in Socrate non c’è soltanto un’intenzione veritativa, ma anche un presupposto ontologico veritativo. La società degli individui non sa più che farsene della verità, ma la comunità antica ne presupponeva l’esistenza”.

Il testo di Costanzo Preve non consente di disperare, l’eterno vive dove vi è relazione, e ciò può avvenire in forme e modi non controllabili dagli automatismi dell’individualismo, il quale pecca in “fantasia”, dato che riduce l’umanità ad un unico organismo indistinto le cui individualità consumano le loro esistenze nelle contingenze del loro tempo. L’eterno, in quanto “irrisolvibile” esiste e resiste malgrado i cantori della morte della verità, appartiene all’umano, lo abita, ma solo la parola dialogica permette in passaggio dalla potenza all’atto.  Preve e Grecchi si ritrovano nella centralità dell’essere umano nella sua concretezza storica, nell’universale concreto della filosofia.

 

[1] Costanzo Preve, Luca Grecchi interprete del pensiero classico dei Greci, in Comunismo e comunità 2008 pag. 8

[2] Ibidem pag. 2

[3] Ibidem pag. 6

[4] Ibidem pag. 7

Platone - Apologia di Socrate (incipit ed explicit)

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