Ci sono passaggi storici segnati da eventi che svelano il significato della trasformazione storica. Se si rinuncia alla metafisica della storia, alla fede incrollabile nel progresso si possono scorgere i tramonti della storia, i passaggi che vivono nella sofferenza di uomini e donne, che pensano e soffrono la storia e la svelano nella sua drammaticità. Tali avvenimenti oggi sono occultati dall’esemplificazione o dalla medicalizzazione positivista degli esseri umani. La lettura storica complessa ed intuitiva è sostituita dall’interpretazione “scientifica” che si esprime nella curvatura medica, economicista e meccanica degli avvenimenti. E’ rassicurante espellere dalla storia il dramma, rende la storia priva di densità di significato, elimina l’umanità con il carico greve di dubbi e domande per prediligere l’abbaglio ideologico della facile comprensibilità. Nello storia senza drammi non vi sono dubbi, non vi sono domande e specialmente non vi sono denunce. Ogni riduzione della storia e delle sue tragedie ad episodi da ritagliare dal tutto per essere consegnati ad una comprensione consegnata a specialisti che la leggano mediante paradigmi precostituiti ed esatti non è più storia, ma “oggettivazione delle coscienze”, le quali sono svelate e rivelate dagli specialisti, mediante un’operazione di separazione di singoli atti dal contesto. L’interprete astrae anche se stesso dall’evento da analizzare che diviene distante e disumano. Non è un caso, se Hegel nella dialettica aveva messo in tensione la tesi (intelletto) e l’antitesi (ragione)per ricongiungerle nella sintesi. L’Aufhebung (sintesi) è il trionfo della razionalità filosofica sulle parcellizzazioni a cui sfugge il senso. La storia contemporanea è nel segno della rinuncia, della rimozione del senso: l’economicismo tecnocratico ambisce a trasformare ogni briciola di tempo in attività economica, in immediatezza spendibile. Non vi è parola più usata dell’utile, non vi è domanda più comune e pressante che si sente ripetere “A cosa serve?”. L’utile ha sostituito la razionalità oggettiva. Esso è l’espressione dell’immediatezza astratta, in quanto esemplifica ed elimina la variabile umana personale per sostituirla con il risultato, con l’analisi dei dati di investimento. Tale visione non può volere la comprensione della storia, non può scrutare i passaggi critici, ma esige risposte veloci “smart”, si precipita in tal modo nell’oscurità della storia, la quale, invece, esige l’ascolto mediato dalla razionalità critica che sospende l’utile per umanizzarsi nella partecipazione critica.
Primo Levi e Federico Caffè
Primo Levi e Federico Caffè si sono tolti la vita in date prossime il primo l’11/4/1987, il secondo il 15/4/1987, pochi giorni separano il suicidio di Levi e la scomparsa misteriosa di Federico Caffè, l’ipotesi più accreditata è il suicidio, resta che, anche se non è stato suicidio, Federico Caffè ha deciso di morire al mondo. Le uscite di scena del letterato e dell’economista le si può leggere come fossero avvenimenti separati, o si può cercare una spiegazione che vada oltre le interpretazioni medico-legali. Spesso sociologi e psichiatri intervistati per spiegare la loro scomparsa si sono limitati ad utilizzare la categoria della depressione che allora come oggi è applicata per giustificare tragedie di ogni genere. Solitamente omettono per formazione che la depressione è parte di un sistema, è l’effetto di un dramma storico, di scelte collettive che non rispondono alla natura umana. La depressione è il disvelamento della violenza del capitale, è la sua verità. Vivere in un sistema disumanizzante, in cui l’unico paradigma è il plusvalore nella forma del denaro e del piacere può provocare smarrimento quotidiano che può determinare l’uscita tragica da una condizione subita, in cui ci si sente superflui. Plusvalore del denaro, ma anche del piacere, poiché ogni agire è finalizzato ad aumentare l’utile personale, ma anche il godimento indifferenziato.
Gli anni ottanta con la Milano da bere, sono stati gli anni del passaggio da una riflessione collettiva tormentata e dialettica sul futuro italiano e del mondo, al rifiuto di ogni impegno civile, alla rincorsa verso l’individualismo edonistico. La mutazione antropologica ed etica del capitalismo già globalizzato ed imperiale spazzava via ogni contenuto etico, ogni riflessione onto-assiologica per sostituirla con le miserie dell’abbondanza. Godere ed arricchirsi erano gli imperativi di quegli anni. Il suicidio di Primo Levi e la scomparsa di Federico Caffè sono la lacerazione viva di quella tragedia. Essi Hanno vissuto il dramma della tragedia dell’isolamento, della marginalità cultura, la loro crisi esistenziale è stata la crisi di un’epoca. Non erano uomini spendibili nel nuovo corso, la Milano da bere era un dispositivo sociale dinanzi al quale non vi erano alternative, o ci si adattava con l’assimilazione cannibalica o si era spinti verso la marginalità ed il silenzio.
Drammi incrociati
Federico Caffè e Primo Levi hanno vissuto il passaggio ed il disincanto, le loro vite erano impegnate nell’emancipazione dai totalitarismi della storia, ed invece, hanno assistito al concretizzarsi di un nuovo totalitarismo che penetrava e si diffondeva senza resistenza civile. Non è difficile intuire il loro dramma e la crisi esistenziale, percepirsi come esiliati in un mondo che non vuole ascoltare, ma solo godere. Primo Levi viveva il dramma della dimenticanza, l’esperienza del campo di sterminio descritta nelle sue opere non provocava passione civile, si rincorreva la fuga verso il piacere e lo sradicamento. Lo stordimento collettivo sicuramente gli provocava un dolore immenso, i ricordi del campo ricadevano su di lui, ai fantasmi del passato non si poteva più sublimare il dolore in senso. Federico Caffè economista keynesiano aveva vissuto la resistenza, il suo impegno intellettuale e civile era finalizzato ad impedire che il mercato fosse una nuova divinità a cui gli esseri umani dovessero inchinarsi e servire. Il mercato doveva essere per l’umanità, ma l’economicismo, ormai imperava, per cui constatava l’impossibilità di un’economia a misura di essere umano. Ciò lo disorientava, le sue parole inascoltate lo hanno racchiuso nel suo esilio, nella sua morte, mentre era ancora in vita. La loro morte denuncia un tragico passaggio, il nostro presente è il frutto di quella svolta che esige il silenzio del pensiero e la negazione di ogni umanesimo. Nell’ultimo scritto Federico Caffè, ancora una volta, afferma che l’economia è al servizio alla persona e non semplice plusvalore:
“Chi confronti la ricchezza propositiva della trattazione di Pigou con alcune delle indagini più recenti vi trova conferma della perdita di rilevanza che si accompagna, con notoria frequenza, all’accrescimento de rigore formale. Ma, mentre questo processo di progressivo depauperamento del reale e di predominanza (o prevaricazione) del formale avveniva all’interno degli stessi sviluppi dell’economia del benessere (nei suoi due indirizzi riconducibili, per comodità, a Pigou e a Pareto), una svolta del tutto deformante si verificava con il collegamento del benessere ai problemi della scelta pubblica e, in senso ancora più ampio, della democrazia politica. [… L]’analisi del potere nelle società complesse, con la prestigiosa suggestione semantica dell’«interazione sistemica» ha preso a tal punto il sopravvento sui criteri ispiratori iniziali dell’economia del benessere, da rendere necessaria un’opera di riappropriazione delle sue finalità originarie. Essa deve compiersi senza il timore di incorrere in possibili addebiti di economicismo: vi sono molti modi di analizzare la realtà sociale e concentrare l’attenzione su uno di essi non significa disconoscere l’interesse degli altri. Ma può significare avvalersi di un metodo, anziché di un coacervo di spezzoni di programmi di ricerca utilizzati anche brillantemente, senza tuttavia essere amalgamati. La consapevolezza «dei limiti delle nostre capacità a formare una rappresentazione coerente e unificata dell’intero mondo economico» costituisce un elemento di forza, non di debolezza, della indagine economica. E’ un atteggiamento che pone al riparo da fragili certezze (l’inefficienza dello Stato, la forza creativa del mercato, il parassitismo arrogante della burocrazia); ma non attenua l’impegno per un miglioramento sociale inteso non come strategica acquisizione del consenso, ma come sforzo di attenuazione delle molteplici forme di emarginazione degli esseri umani[1]”.
Depauperamento del reale, l’economicismo è tale, poiché derealizza la vita e la sua razionalità, rappresentandosi come una nuova divinità che non ascolta e diviene veicolo di cieca violenza. L’economia senza ricerca olistica e metodo è solo totalitarismo non riconosciuto.
Primo Levi pone anch’gli il quesito terribile che esige risposta e domanda, può essere un uomo colui che è stato ridotto a “cosa” ed usa gli altri esseri umani come semplici “cose”?
La domanda di Levi si eleva dalla storia, ma è poi ricaduta nel silenzio, la sua fine ci parla del silenzio dello spirito nel quale siamo immersi:
“È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, piú lontano dal modello dell’uomo pensante, che il piú rozzo pigmeo e il sadico piú atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo[2]”.
Siamo nella notte oscura della ragione, il suicidio di Primo Levi e la scomparsa di Federico Caffè, sono segni del tempo, sono drammi che ci appartengono che aspettano la nostra risposta ed il nostro ascolto.
[1] F. Caffè, Umanesimo del Welfare, in «MicroMega», n. 1 (1986), pp. 116-27, ora in F. Caffè, La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp. 244-260, pp. 248-249.
[2] Primo Levi Se questo è un uomo Einaudi Torino 1989 pag. 185