In queste righe si cercherà di analizzare e capire quali correnti di pensiero sono penetrate nel tempo in quella categoria onnicomprensiva che è la sinistra italiana (e non). Come queste siano state assolutamente dannose e come possono risultare dannose anche oggi (perché frutto di un processo di appropriazione malsano) per le analisi e quindi per conclusioni e pratiche. Si parlerà di alcuni esponenti della scuola di Francoforte e di Michel Foucault.
La scuola di Francoforte si pose come obiettivo, tramite la critica al capitalismo e al comunismo sovietico, il raggiungimento di un’umanità disalienata, tenendo come caposaldo la ragione critica, dialettica che conserva teoria e prassi. Nacque nel 1923 , diretta da Gunberg, fondatore dell’archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio.
Ci si soffermerà su tre esponenti e pensatori della scuola: Marcuse, Horkheimer e Habermas.
Marcuse nella sua opera più celebre, L’uomo a una dimensione, ci dice “Borghesia e proletariato nel mondo capitalistico sono ancora le classi fondamentali, tuttavia lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura, rendendole inefficaci come agenti di trasformazione storica”; vediamo già come queste parole possono essere molto pericolose per qualsiasi movimento che voglia riproporre la lotta di classe poiché distrugge quella dicotomia fondamentale e propria di ogni movimento che voglia definirsi rivoluzionario. Marcuse inoltre individuò nel lavoro non alienato l’autenticità dell’esistenza; come potrebbe essere un lavoro non alienante in una società capitalistica di consumo, sarebbe un importante interrogativo (e occasione di dissenso) di ogni sinistra che voglia portare questo nome. Marcuse pose ,insomma, sullo stesso piano capitalismo e comunismo, poiché alla radice egli individuava in entrambi la stessa struttura tecnologica avanzata. Il filosofo sostenne che la classe operaia fosse integrata nel sistema e che solo al di fuori di questo potesse esserci un potenziale rivoluzionario “al di sotto della base conservatrice”; compito della filosofia era per il pensatore, quello di approdare ad un grande rifiuto della società esistente, grazie a “l’immaginazione”, parola d’ordine per i movimenti studenteschi del 68. A tutto ciò non c’è, a mio avviso, miglior risposta che la lezione gramsciana. Gramsci sottolineò come i capitalisti puntino e incentivino l’individualismo poiché quest’ultimo è volto a disfare ogni organizzazione sociale in quanto portatrici dello “slancio verso il comunismo” e che il proletariato può (e deve) diventare classe dirigente nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze con altri settori sociali (che in Gramsci prenderà la forma di un auspicata alleanza fra operai e contadini). Come è possibile una coscienza di classe in un orizzonte come quello di Marcuse in cui la reale classe sfruttata sembra scomparsa o assorbita? Vediamo come l’appropriazione dei concetti marcusiani da parte dei giovani “ribelli” del 68, abbia portato non solo a una confusione teorica, ma anche a una confusione circa il concetto stesso di rivoluzione (che di norma consisterebbe in un rovesciamento dei rapporti di forza economici) mentre per i sostenitori della rivoluzione sessantottina, consiste in un cambiamento dei costumi (nel cambiamento della sovrastruttura, per dirla in termini marxiani). Ci si dimentica e ci si vuole dimenticare che un compromesso culturale non è una rivoluzione.
Abbiamo prima citato Gramsci che; come molti sapranno, non fu soltanto un brillante pensatore politico ma anche uno studioso di linguistica e glottologia. Egli iniziò la sua carriera da studente interessandosi della lingua, dei modi di comunicazione (tema che ricorrerà spesso nei quaderni del carcere). Gramsci insistette sull’importanza di una lingua unitaria che fosse in grado di agevolare la comunicazione fra i proletari, una lingua dinamica e non irrigidita, che sapesse produrre egemonia intesa come “direzione culturale”. La storia di una lingua veniva identificata come storia della capacità di egemonia dei suoi intellettuali e la questione degli intellettuali era in stretta connessione con la definizione del concetto di stato, i processi di formazione erano isomorfi a quelli di formazione di una lingua; le debolezze di uno stato nazionale si riflettevano dunque sulla lingua nazionale. Per chiarire meglio citiamo direttamente il pensatore sardo: “I giovani sono tutti operai, bisognerà incominciare dal linguaggio stesso per trasformare in elementi di senso comune, le ideologie e i concetti elaborati dagli intellettuali”; la forma viene qui intesa come mezzo pratico per lavorare sul contenuto e Gramsci sosterrà con convinzione che un giornale operaio doveva dar modo agli operai di esprimersi nel loro linguaggio, riflesso della loro vita.
Questo preambolo su Gramsci ci serve ora come confronto e come punto guida per analizzare un altro filosofo che si occupò di comunicazione e che fece parte della scuola di Francoforte: Habermas.
Habermas, valorizzando la riflessione sul dialogo come condizione per la costruzione di uno spazio sociale compie un tentativo di ridefinire la razionalità. Figlio della lezione kantiana pone un parlante ideale dotato di ogni possibile socializzazione. Habermas vede nell’individuazione delle regole dell’argomentazione , il compito di una scienza ricostituiva, facendo derivare dalle forme dell’argomentazione una “fondazione razionale e universale dei principi dell’agire”. Questa etica del discorso resta però kantiana. L’orientamento morale per Habermas non ha fondamento nella coscienza ma nell’intersoggettività della comunicazione e la pretesa di verità intersoggettivamente valida resta (contro la sua volontà) trascendentale; egli rinuncia a ogni deduzione aprioristica per attribuire condizioni universali all’etica del discorso, vorrebbe presentarsi come una teoria del dovere basandosi su:
- principio di universalizzazione
- principio del discorso
puntando ad elaborare una sorta di morale planetaria. Tuttavia il suo tentativo resta un’ elaborazione teorica debole, poiché nonostante i suoi intenti, l’etica del discorso non viene unita e saldata a una teoria empirica della società; postulando un parlante ideale e scevro da condizioni socio-economiche, rimane difficile l’elaborazione di una presunta morale planetaria. Viene meno quel principio di universalizzazione poiché le disparità socio-economiche lo rendono inattuabile.
Analizziamo ora le tesi di un altro noto esponente della scuola di Francoforte: Horkheimer.
Egli sostenne che non fosse più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica; questo è un punto focale che se fatto proprio in modo acritico può portare a gravi errori di analisi (come è successo e succede in molte realtà di sinistra). Cerchiamo di capire perché: la struttura economica non è scissa da quella politica, tuttavia la determina! Basterà comprendere come si muove lo sviluppo del capitale e come si è mosso da un secolo a questa parte:
Il capitale monetario è divenuto sempre più opprimente a causa della preponderanza di un piccolo gruppo di grandi aziende (l’alta finanza), questo porta a una concentrazione della produzione e (parafrasando Lenin) la concentrazione a un certo punto della sua evoluzione porta automaticamente alla soglia del monopolio. Ogni nuova impresa che voglia stare al pari con le gigantesche imprese esistenti dovrà aumentare la quantità dei profitti offerti; questa è la fase dell’imperialismo in cui i “cartelli” si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, si spartiscono i mercati e fissano i prezzi. Si monopolizza la mano d’opera e si mettono le mani sui mezzi di comunicazione.
Tutto questo per dire cosa? Che la politica sarà una giustificazione, una legittimazione del modello economico esistente. Perché insistere su questo? Perché soprattutto in tempi di crisi assistiamo a un rafforzamento della tendenza alla concentrazione e al monopolio (assistendo a una caduta dei prezzi e contrazione della domanda). Se non si comprende questo (specialmente oggi) si possono commettere errori circa le condizioni economiche e politiche mondiali; se si guarda allo scenario mondiale senza tenere ben presente la lotta per il monopolio dei mercati, se non si capisce che oggi c’è una potenza che è “la testa del “serpente” capitalista”(Usa- Israele), non si capirà nemmeno che è contro quest’ultimo che ci si dovrà schierare e sarà facile invece schierarsi contro quelle altre potenze che ci appariranno “politicamente scorrette”.
E’ ovvio che il capitale farà leva sempre di più nell’erigersi a paladino della libertà e dei diritti umani puntando a una sua auto legittimazione.
Tornando a Horkheimer, egli, non scorgendo più l’agente sociale della rivoluzione e ritenendo impossibile la previsione circa il crollo del capitalismo, torna alla sinistra hegeliana, tramite un lavoro di critica punta a far diventare reale ciò che è razionale. Tuttavia la teoria critica non fu espressione di una coscienza di classe; che molte posizioni irrigidite del marxismo positivista siano da rifiutare è un fatto, ma facendo un’ operazione di questo tipo si è a parer mio davanti a un’ operazione di natura reazionaria, per lo meno dal punto di vista filosofico e teorico. Citando Horkheimer: “L’idea di una società futura come comunità di uomini liberi qual è possibile con i mezzi tecnici di cui si dispone, ha un contenuto al quale si deve rimanere fedeli comunque esso si modifichi”. La società buona di Horkheimer è quella in cui l’uomo è libero di agire come soggetto, si rischia però di ricadere in quell’ottica individualista sopra accennata.
In sintesi, ciò che voglio dire è che i pensatori della scuola di Francoforte non sono (nonostante l’analisi) da demonizzare; quello che si cerca di dimostrare è come certe filosofie e correnti di pensiero possano portare alla distruzione o quanto meno all’indebolimento di un punto di vista rivoluzionario, specie se interpretate e praticate in malo modo da certi ambienti di pseudo “sinistra”..
Parliamo ora dell’ultimo autore che si intendeva trattare: Foucault.
Foucault fu un altro pensatore preponderante nel movimento sessantottino. Quello che sembra maggiormente interessante è la sua teoria sul potere. Egli ci dirà: “Ogni società accetta determinati discorsi che fa funzionare come veri”. Sapere e potere vengono presentati come indistinguibili poiché l’esercizio del potere genererà nuove forme di sapere. Il potere non viene inteso come quello che potrebbe emanare un sovrano ma come “potere impersonale” che opererebbe tramite meccanismi anonimi, un insieme di rapporti di forza diffusi localmente.
Questo discorso porta Foucault a operare una contrapposizione al marxismo: si potrà essere dominati in fabbrica ma dominatori in famiglia e rispetto a tali poteri decentrati potranno essere condotte solo lotte parziali. Tutto ciò per il modo di vedere di chi scrive, ha prodotto un grande disastro: smettere di lottare contro i gruppi sociali dominanti e incentivare lotte familistiche per una presunta emancipazione personale. Dove porta questo? A vari separatismi, alla lotta contro gli uomini in quanto tali presunti oppressori all’interno delle famiglie (lotta di genere), alle lotte dei gay per essere accettati nelle famiglie e qualsiasi frammentazione di quella che dovrebbe essere una lotta di classe collettiva (chiaramente un omosessuale ha tutto il diritto e il dovere di vivere serenamente nel contesto familiare, non si nega questo ma il voler trasformare questo come prima istanza politica per rivendicazioni fini a se stesse e sciolte da ogni contesto di classe.)
Per concludere, tornando a Foucault, egli sostenne che i dispositivi di potere (attraverso selezioni e interdizioni) pongono in essere una società disciplinare che trova espressione nelle istituzioni repressive. Tuttavia per il filosofo il potere mantiene una funzione positiva al fine di creare nuovi ambiti di verità e nuovi saperi; ciò che egli compie è dunque riportare in auge una dimensione umanistica da lui stesso criticata.
Oggi vediamo quindi come gli aspetti che abbiamo citato dei vari filosofi, siano stati fatti propri (sicuramente in modo indebito) da buona parte di quel mondo che si auto definisce “alternativo” e/o anti sistema.
Ovviamente non è stata compiuta in questo articolo un’analisi complessiva dei pensatori citati (che richiederebbe ben altro spazio…), ma solo una riflessione su alcuni aspetti che ci premeva approfondire. Non si intende certamente mettere una croce su persone che hanno dedicato la loro vita alla ricerca e all’innovazione filosofica, ma evidenziare come certe teorie che sembravano rivoluzionarie e si proponevano come liberatrici della società e dell’umanità intera abbiano contribuito, magari indirettamente, a creare quella miseria teorica a cui oggi assistiamo.
Insistere su queste tematiche, per quanto ci riguarda, non vuole essere una sorta di pedanteria intellettuale ma un contributo al fine di un dibattito sui temi suddetti che non può più essere rimandato.