Capire la catastrofe che ha condotto la sinistra comunista ad essere numericamente irrilevante è la via per comprendere la sua rinascita. Il liberismo impera da sinistra a destra, l’intero impianto parlamentare è sostanzialmente monopartitico. I nomi cambiano, i volti si susseguono, le parole, pertanto, celano messaggi sempre eguali, “democrazia”, dunque, ma senza opposizione. Essa agonizza sotto i colpi del formalismo giuridico. La Stato democratico protocollare è il segno della verità del liberismo: democrazia e liberismo sono un ossimoro. Gli studi di Domenico Losurdo lo dimostrano, per porre il liberismo nella sua cornice storica reale ed effettuale, è opportuno disporsi in una prospettiva storica non eurocentrica. Vi sono dogmi che bisogna rimettere in discussione, in modo da infrangere la sudditanza al politicamente corretto e riaprire “il tempo nuovo” della storia. La verità del liberismo è espressa massimamente nel colonialismo con il suo corollario di saccheggi e genocidi. Essi sono stati la normalità truculenta non riconosciuta della storia delle democrazie occidentali. La rimozione della politica coloniale liberista e la sua insufficiente tematizzazione hanno rafforzato il liberismo e hanno indebolito il comunismo, al punto che si possono individuare due tipi di marxismi: il marxismo occidentale e il marxismo orientale che, con il trascorrere dei decenni e delle lotte coloniali, hanno assunto identità profondamente diverse. La divisione indebolisce la progettualità politica e l’impianto critico, Domenico Losurdo individua nella contrapposizione senza sintesi dei due marxismi una delle cause strutturali della crisi del comunismo:
“Non dovrebbe esserci contraddizione tra marxismo orientale e marxismo occidentale: abbiamo a che fare con due diverse inquadrature prospettiche del medesimo sistema sociale, indagato in entrambi i casi a partire dall’analisi sviluppata da Lenin. Ovvero, a mettere in discussione il capitalismo-imperialismo sono due lotte per il riconoscimento: della prima sono protagoniste intere nazioni che si scuotono di dosso l’oppressione, l’umiliazione e la de-umanizzazione insite nel dominio coloniale; della seconda sono protagoniste la classe operaia e le masse popolari che rifiutano di essere «materiale grezzo» a disposizione delle élites[1]”.
La sottovalutazione delle lotte coloniali sin dalla Prima guerra mondiale è indice di una cesura nella quale non si riconosce il valore rivoluzionario delle lotte comuniste per la decolonizzazione, poiché un celato pregiudizio occidentale nelle fila dei comunisti conduce a guardare con sospetto i processi di indipendenza dei paesi colonizzati. Le condizioni materiali erano tali che l’indipendenza sarebbe stata solo formale e specialmente l’elemento economico sarebbe stato preponderante sul plesso teorico dell’estinzione dello Stato perseguito dal comunismo occidentale. Nella storia del comunismo sono ravvisabili due comunismi con obiettivi diversissimi e inconciliabili: il comunismo utopico occidentale che ambiva a superare l’economicismo fonte dello sfruttamento e dell’alienazione e il comunismo orientale che puntava all’indipendenza e allo sviluppo industriale per poter risolvere le condizioni di miseria delle ex colonie causate dallo sfruttamento imperiale del capitalismo:
“Assieme al potere economico è il potere in quanto tale a dover essere messo in discussione; in ultima analisi occorre operare la «trasformazione del potere in amore» (Bloch 1918, p. 298). Il fatto è che – osserva a sua volta Benjamin (1920-21/1972-99, vol. 2.1, p. 195) – «l’economia attuale nel suo complesso rassomiglia non tanto a una macchina che si ferma se il fuochista l’abbandona, quanto a una belva che si scatena appena il domatore le volge le spalle». In altre parole, non si tratta di rendere più efficiente o meno devastante la «macchina» dell’economia, grazie a un rivolgimento rivoluzionario; si tratta invece di ingabbiare o forse annientare quella belva che, nonostante ogni trasformazione politico-sociale, continua a essere l’economia in quanto tale[2]”.
Colonialismo e verità sul capitale
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Oriente la questione coloniale diventa preponderante. Il comunismo aveva come obiettivo la liberazione dalla colonizzazione e dalle guerre imperiali del capitalismo. In Occidente non si sviluppano le riflessioni di Marx sulla questione irlandese, ci si orienta verso il problema del passaggio dal socialismo al comunismo. L’Irlanda è trattata da colonia, i lavoratori sono affamati e de-umanizzati, ancora una volta è la politica colonizzatrice a svelare la verità incontrovertibile del capitalismo. I popoli che si sollevarono contro il dominio coloniale lasciarono decantare l’elemento utopico per porre in primo piano la lotta per l’indipendenza che passava per lo sviluppo economico:
“In conclusione, il capitolo di storia iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre vedeva l’emergere di paesi di orientamento socialista alle prese con l’aggressione o le minacce di aggressione, con un’«epoca di guerre napoleoniche» imposte dalle potenze imperialistiche. Era una situazione oggettiva che faceva passare in secondo piano il problema dell’edificazione di una società socialista o comunista. Aveva luogo quella che potremmo definire una svolta nella svolta nella storia del Novecento. Il significato epocale della Rivoluzione d’Ottobre dovrebbe essere chiaro per tutti. Sennonché, mentre il dibattito pubblico e lo scontro politico sembravano vertere per intero sul dilemma capitalismo/socialismo, interveniva, a lungo inavvertita dai più, una novità del tutto inaspettata: diveniva progressivamente chiaro che la questione coloniale avrebbe svolto un ruolo essenziale persino nel paese scaturito dalla socialista Rivoluzione d’Ottobre[3]”.
Nel Novecento occidentale Marx ha subito un sostanziale ridimensionamento critico e eversivo. La sinistra comunista ufficiale durante gli anni della guerra fredda ha compiuto un ulteriore passo verso la cesura dal comunismo orientale identificato con l’economicismo staliniano. Il comunismo occidentale dinanzi allo scandalo del comunismo orientale curvato sullo sviluppo accelerato delle forze economiche ha contrapposto una versione del comunismo marxiano integrato nell’Occidente liberale. I diritti individuali sono difesi dal comunismo occidentale restando volutamente ad una visione della storia che si ferma ai confini europei occidentali. Il liberalismo è accolto, senza la debita analisi sulle pratiche coloniali, e l’orientamento complessivo è una generale sottovalutazione dei genocidi coloniali allo scopo di ridisporsi all’interno della democrazia liberale-liberista. Colletti è un valido esempio di tale riposizionamento che anticipa la fine del comunismo e ne favorisce gli esiti post -caduta del Muro di Berlino:
“Ridotto Marx a critico solo delle «forme rispettabili» assunte dal dominio capitalistico e rimossa la questione coloniale, Colletti non aveva difficoltà a tracciare un bilancio manicheo del capitolo di storia iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre, della rivoluzione scoppiata, secondo l’analisi già vista di Lenin, per porre fine alla «guerra fra i padroni di schiavi per il consolidamento e il rafforzamento della schiavitù» coloniale. Agli occhi del filosofo finalmente convertito alle ragioni dell’Occidente liberale e capitalistico, era quest’ultimo a incarnare permanentemente la causa della libertà e della tolleranza. È vero, egli non taceva «il massacro di oltre un milione di comunisti in Indonesia» e neppure il «bagno di sangue» che aveva fatto seguito al «golpe dei militari in Cile» e all’«assassinio di Allende» nel settembre 1973 (Colletti 1980, pp. 7 e 65-6). In entrambi i casi, però, non si faceva riferimento alcuno al ruolo degli Stati Uniti, decisi a liquidare il terzomondismo (di cui l’Indonesia di Sukarno, presa di mira nel 1965, era un campione) e a ribadire (in America Latina) la dottrina Monroe. No, il «massacro» e il «bagno di sangue» erano evocati solo per ribadire il fallimento del comunismo e del marxismo, che facevano una figura ben meschina una volta messi a confronto con l’Occidente campione della causa della libertà![4]”.
Il capitalismo è per sua costituzione razzista. Il nazismo ha portato in Europa le “medesime procedure” che gli europei applicavano nei paesi colonizzati. L’ Est europeo per i nazisti era da trattare in modo similare alla normalità con cui le potenze coloniali trattavano le loro colonie. Antropofagia e sfruttamento sono la verità svelata e terribile che gli europei “vedono” nel cuore dell’Europa. Gli spettri esiliati nei “continenti altri” abitavano ora in Europa. Gli stessi francesi furono giudicati razzialmente alla stregua dei popoli colonizzati:
“È interessante notare che, già prima della conquista del potere, Hitler procedeva a una razzizzazione del popolo francese, relegandolo tra i popoli coloniali e le razze inferiori: la Francia non faceva parte propriamente della comunità mondiale bianca; era sulla via della «negrizzazione» (Vernegerung), non rifuggiva in alcun modo dai matrimoni e rapporti sessuali interrazziali e quindi faceva senza pudore «negrizzare il suo sangue». Così avanzato era tale processo rovinoso che si poteva «parlare dell’emergere di uno Stato africano sul suolo europeo»; anzi, era già all’opera uno «Stato mulatto euro-africano» (Hitler 1925-27, p. 730; Hitler 1928, p. 152). Ricacciato nel mondo coloniale, per recuperare la sua indipendenza e dignità nazionale, il popolo francese era costretto a far ricorso a una rivoluzione nazionale e anticoloniale[5]”.
Innumerevoli sono le dimostrazioni storiche del carattere razzista del liberismo riportati da Domenico Losurdo. La Rivoluzione americana non riconosce indiani e neri come umani, e pertanto sono esclusi dall’uguaglianza formale; la guerra civile dei Taiping in Cina, a seguito delle guerre dell’oppio, ha causato 20-30 milioni di morti, ma è ignorata dalla storiografia europea; la discriminazione razziale negli Stati Uniti è stata la normalità giuridica dopo la guerra fredda. L’eliminazione della discriminazione negli Stati del sud ha avuto lo scopo di togliere ai comunisti un “motivo forte” di propaganda antiamericana.
La storia del liberismo-liberalismo ha la sua costante in una visione ideologica dell’uguaglianza, poiché coloro che non sono riconosciuti come “umani” sono da sfruttare.
Umanesimo e comunismo
Althussser non riconosce l’importanza dell’universalismo-umanismo. Definire l’umanità in senso universale, non è semplice astrazione, ma è il modo più diretto per rendere evidente quanto il liberismo sia una forma di anti umanesimo a cui solo il comunismo può contrapporre una antropologia dell’uguaglianza reale. Il comunismo deve uscire dall’eurocentrismo e disporsi nella sua postura internazionale con la quale ritrovare la fonte autentica della sua prassi:
“Piuttosto che l’universalismo, Althusser prende di mira l’umanismo. Ma siamo pur sempre in presenza del medesimo atteggiamento: senza avvedersene, esso finisce con l’abbellire il bersaglio di una critica che pure pretende di essere intransigente e sdegnosa di ogni compromesso. In realtà, bollare l’universalismo ovvero l’umanismo in quanto di per sé «borghesi» o inclini al compromesso con la borghesia significa bloccare a metà strada la critica della società capitalistica: a essa si rimprovera il carattere meramente formale dei diritti civili e politici, il cui titolare dovrebbe essere l’uomo in quanto tale e nella sua universalità, ma non si fa cenno delle paurose clausole d’esclusione che privano i popoli coloniali o di origine coloniale anche dei diritti civili e politici (oltre che di quelli economici e sociali). Si sorvola cioè sulla condizione coloniale che pure, agli occhi di Marx, è quella che per eccellenza rivela la barbarie della società capitalistica. In tal caso, la carica de-umanizzante dell’ordinamento esistente si rivela in tutta la sua brutalità e finisce con il manifestarsi in modo esplicito, com’è confermato in modo particolarmente clamoroso dalla teorizzazione dell’under man, che negli Usa precede la teorizzazione dell’Untermensc[6]”.
Due marxismi, dunque, due prospettive di Marx che non si sono incontrate e che hanno favorito la disintegrazione del comunismo. Il futuro si gioca, nell’ottica di Domenico Losurdo, nella conciliazione delle due prospettive.
Il comunismo che verrà
Il comunismo occidentale deve ridisporsi verso l’Oriente e nel contempo il comunismo Orientale deve riorientarsi verso l’elemento utopico e libertario. Il comunismo del futuro deve pensare, agire e progettare secondo due dimensioni temporali che si integrano: la temporalità dell’economia in funzione della soddisfazione dei bisogni reali dei popoli deve integrarsi con la progettualità a lungo termine della componente utopica senza la quale non vi è paradigma con cui giudicare il processo politico di emancipazione che consta del livello materiale e spirituale:
“Ecco allora delinearsi due marxismi all’insegna di due ben diverse temporalità: il futuro in atto e gli inizi del futuro prossimo per quanto riguarda il marxismo orientale; la fase più avanzata del futuro prossimo e il futuro remoto e utopico per quanto riguarda il marxismo occidentale. È un problema intravisto da Marx ed Engels. Essi non a caso danno due diverse definizioni del «comunismo». La prima rinvia al futuro remoto (talvolta letto persino in chiave utopica) di una società che si è lasciata alle spalle la divisione e l’antagonismo di classe e la «preistoria» in quanto tale. Ben diverse sono la visione e la temporalità che emergono da un celebre brano dell’Ideologia tedesca: «Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» (MEW, 3; 35). O che emergono dalla conclusione del Manifesto del partito comunista: «I comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti». Nei due passaggi qui citati è come se venisse gettato un ponte tra futuro in atto e futuro remoto. Ed ecco la seconda condizione per la rinascita del marxismo in Occidente: facendo tesoro della lezione di Marx ed Engels, esso deve imparare a gettare un ponte tra le due diverse temporalità. Allorché tale compito viene ignorato o disdegnato, non tardano a manifestarsi la superficialità e la saccenteria che amano contrapporre la poesia del futuro remoto ovvero della prospettiva di lunga durata alla prosa dei compiti immediati[7]”.
Ripensare la storia del comunismo è la via maestra verso la sua ricostituzione, le due temporalità, forse questo è l’errore di Domenico Losurdo, non possono e non devono essere poste in successione, vi è la possibilità di una demotivazione ideale, in quanto la possibilità che l’elemento economicistico possa prevalere e possa oscurare il fine ultimo è possibile. Nel tempo presente l’elemento utopico può essere reale mediante l’organizzazione di istituzioni e isole di progettualità condivisa che sperimentano e rendono visibile il “comunismo che verrà”. Senza la compresenza delle temporalità l’elemento economico rischia di perdere “il senso profondo che lo deve animare”. Il comunismo utopico dovrebbe essere interno al comunismo dei bisogni, esso deve testimoniare la verità ideale e politica del comunismo come un processo interno all’economicismo in graduale ascesa.
La caduta dell’Unione Sovietica ha avuto tra le sue cause la demotivazione ideale dei russi verso il comunismo ridotto a semplice comunismo burocratizzato. Indubbiamente l’esame critico di Losurdo ci permette di guardare con chiarezza alla verità del capitalismo, se pensiamo ai nostri giorni, siamo innanzi a un nuovo colonialismo che avanza con la forza sterminatrice delle armi sui popoli sottomessi. I nuovi sotto uomini sono solo numeri nei media, mentre le vite degli occidentali hanno un nome e una storia, solo se appartengono alle oligarchie. I sotto-uomini nell’Occidente sono i poveri e i disagiati mentali verso i quali sono in atto forme di razzismo inedite che necessitano di essere decriptate col materialismo storico. Su tali spinose condizioni bisogna riprendere il cammino.
[1] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale Come nacque, come morì, come può rinascere, Edizione digitale Laterza, Bari 2017, pag. 46
[2] Ibidem pag. 25
[3] Ibidem pp. 56 57
[4] Ibidem pag. 75
[5] Ibidem pp. 52 53
[6] Ibidem pp. 84 85
[7] Ibidem pp. 209 210