Doppio inquinamento
Esiste un inquinamento ambientale, e per fortuna se ne parla: purtroppo, se ne parla soltanto poiché il capitalismo post-industriale ha pur bisogno di “gestire” le proprie contraddizioni più palesi (al fine di addomesticarle) ma qualche volta – almeno – se ne discute. Tuttavia, la questione dell’inquinamento è molto più ampia. Occorre sottolineare, infatti, che gli elementi tossici che possono investire l’uomo non si limitano agli agenti inquinanti esterni. A fronte della spazzatura e di rifiuti di ogni tipo che ormai impregnano l’ecosistema, esiste infatti una psico-sfera umana “impasticcata”, al punto da richiedere cure urgenti. Il vuoto che molti cercano di colmare con droghe, psicofarmaci, con un atteggiamento aggressivo e prevaricante nei confronti degli altri o, più in generale, con la propria falsa coscienza andrebbe affrontato politicamente come il problema centrale del nostro tempo. E, invece, non si fa. È palese a tutti, anzi, che si vada nella direzione contraria.
È chiaro, peraltro, che fra le due forme di inquinamento esista un nesso strettissimo. È del tutto ovvio, per fare un esempio immediatamente comprensibile, che gli abitanti delle periferie del mondo, assediati da ecomostri di ogni tipo, privi di spazi pubblici e di aree ove sia possibile prender parte ad un’intesa sia pur minima con il dato naturale, e dove ammalarsi di cancro è più facile che mandare i figli a scuola la mattina, difficilmente potranno contare su una salute “psichica” degna di questo nome. Va detto, tuttavia, che anche l’altra estremità degli abitanti del mondo occidentale, composta da donne ed uomini che risiedono tutto sommato “al centro”, coloro cioè che riescono a portare i figli a scuola con normale regolarità e loro stessi ci sono andati, non sono immuni da processi di inquinamento. La formazione prevede, infatti, che sempre più l’insegnamento attraversi metodi e nozioni “istituzionalizzate” da burocrati ed esperti che vengono posti in atto spesso attraverso insegnanti zelanti e proni al sistema. Da questo punto di vista, già qualche decennio fa, si poteva osservare che la nostra epoca: «Sarà ricordata come l’Era della Scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi “pusher” che forgiavano le loro abitudini […] l’epoca in cui le opinioni delle persone erano una replica dell’ultimo talk-show televisivo serale e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri».
Certamente rispetto al tempo in cui è vissuto Illich – non lontanissimo ma, dato l’incremento del fattore velocità a cui siamo sempre più soggetti, sembra oggi davvero un altro tempo – l’aumento esponenziale del numero e del peso specifico dei media è in grado di provocare “distrazioni di massa” dai temi che più contano: per esempio l’inquinamento del pianeta, la strutturazione del potere politico reale e non quello esposto dalla propaganda pubblica, la formazione di una psico-sfera nella quale il bombardamento mediatico non lascia alcuno spazio per il pensiero critico, rendendo incapaci di discernere il vero dal falso.
Dipendenze
Nel fondo oscuro della nostra intimità risiedono emozioni importanti che appaiono incomunicabili. Il paradosso è che si tratta proprio di quelle che meriterebbero più di tutte di essere condivise e chiarite nelle loro cause scatenanti. Mi riferisco alle dipendenze – alcool, sesso, psicofarmaci, droghe, gioco, manie, iperlavoro. Noi stessi – nei casi migliori – le percepiamo per quello che sono, ossia delle vere e proprie debolezze. Sono indicibili proprio per questo: non possiamo ammettere a cuor leggero, soprattutto davanti agli altri, che siamo deboli al punto da non poter padroneggiare le nostre azioni. L’incapacità d’ammettere la carenza di potere, o addirittura la sua totale mancanza, rimane un connotato peculiare dell’uomo. Lo è ancor di più in un tempo storico quale il nostro, caratterizzato fondamentalmente dai miti della potenza egoica, della conquista rampante del mondo, dell’individualismo autarchico, blindato in se stesso e che compara – in maniera assai fallace – il proprio valore umano alle possibilità concrete che il denaro gli permette di acquisire. L’antropologia tardo-americana del self-made-man, oggi perfezionata in neoliberismo radicale, non a tutti svela il suo tratto ingannevole e, anzi, viene trasformata in ideologia che naturalizza la competizione selvaggia, rendendola normalità esistenziale.
L’antropologia dell’homo (post) democraticus, pertanto, appare caratterizzata da ammiccanti affabulatori che intendono mostrare, attraverso una sorta di autopromozione propagandistica, un’immagine seducente di sé, piuttosto che la perdita dei propri diritti e della dignità di se stessi in quanto esseri critici. Come possiamo distinguere la verità dalla finzione – ci si dovrebbe chiedere – quando il concetto stesso di realtà è stato cancellato (o comunque seriamente ridimensionato) e quando, anzi, quest’ultimo viene costantemente (ri)prodotto, avendo come matrice la finzione stessa. E, del resto, come possiamo discernere la realtà dalla rappresentazione in una fase storica nella quale siamo regolarmente alla ricerca dell’intrattenimento e dell’impatto emozionale? Cercare una via d’uscita dalle acque melmose della nostra quotidianità, tentare di emergere dall’artificialità spettacolarizzata e nevrotizzata entro cui è finita la nostra giornata, significherebbe forse uno sforzo troppo grande, da sostenere spesso da soli, senza gli altri, se non contro gli altri.
Falsa coscienza
La società globale rappresenta la fase storica nella quale domina il conformismo e il leaderismo. Gli individui sono prevalentemente “entità” accomunate dal sentimento della paura e, per vincere quest’ultima, tendono a rinchiudersi nel cerchio magico della massa. Essere individuo, del resto, significa apparire visibili e dunque vulnerabili. Nella massa, invece, è possibile nascondersi, assumendo un atteggiamento metamorfico. In un orizzonte socio-politico simile, non può che prosperare il leaderismo (che non si può neppure più definire con l’antica e blasonata espressione di cesarismo) di massa.
Ciò accade fondamentalmente perché l’uomo (post)democratico non ha la forza di affrontare le conseguenze ultime delle proprie azioni. L’uomo è un animale servile e mimetico perché fondamentalmente irresponsabile e incapace di lungimiranza: in altre parole, egli appare spesso indegno della sua libertà. Stando così le cose, finire nelle braccia di un qualsiasi tecno-fascismo diviene una possibilità concreta. Del resto, gli stessi uomini che sostengono pubblicamente una causa sono poi totalmente incapaci di comprendere che tanto spesso, nei confronti di quella causa, sono stati aizzati da qualcuno. Più in piccolo (ma mica tanto), ogni volta che si compra un prodotto (solitamente inutile se non dannoso), quanti sono consapevoli di esser stati coartati o perfino spaventati, affinché quella “cosa” venisse comprata? Inutile dire che nel nostro tempo fa parte del comprare una merce anche il votare un qualsiasi personaggio politico, solitamente un imbonitore che vuole vendere a tutti i costi il proprio prodotto – la merce cioè che darà potere a lui e dipendenza ai suoi incauti elettori. Le stesse donne e i medesimi uomini che si lamentano quotidianamente di questo stato di cose sono proprio quelli che preferiscono la chiacchiera, la polemica sterile, la divisione da stadio in partiti contrapposti, il chiudersi dentro le proprie ossessioni nevrotiche, anziché lo studio e che rifuggono, con altrettanta forza, sia il pensiero critico sia la lettura di un semplice testo di filosofia.
E così, alla prova del nostro operare (che è poi l’unico possibile), rifuggiamo azioni concrete, poiché queste ultime ci sembrano al di sopra delle nostre possibilità e delle nostre forze. E così, lasciamo che le cose procedano a loro modo, ossia nella maniera in cui vuole il sistema, non sempre comprendendo che le rivoluzioni autentiche non si fanno “nella sala della pallacorda”, e che, anzi, i mutamenti sostanziali vanno perseguiti tenendo conto delle nostre capacità di intervenire ed operare negli eventi (economici, politici, culturali, emozionali), non escluso affatto, pertanto, il nostro piccolo microcosmo. Il luogo stesso dell’esperienza è stato abbandonato, favorendo l’abolizione di una differenza che omogeneizza l’individuo all’interno di una massa indifferenziata incapace di produrre distanza: «La globalizzazione degli scambi non è dunque economica, come ci si compiace di ripetere dopo lo sviluppo del mercato unico, è innanzitutto ecologica e non interessa unicamente l’inquinamento delle SOSTANZE, con, per esempio, l’effetto serra atmosferico, ma anche l’inquinamento delle DISTANZE e dei rinvii che compongono il mondo dell’esperienza concreta».
Tutto ciò si stenta a comprenderlo e dal punto di vista della comunicazione pubblica nulla aiuta a elaborarlo, dal momento che il messaggio che dai media si impone chiede di blandire il narcisismo di tutti, non certo l’eroismo etico da parte di qualcuno. Le conseguenze di questo stato delle cose hanno tutte una direzione unica: il rischio reale di diventare una società teleguidata, schiava delle mode, delle ossessioni e di nevrosi imposte, in un mondo in cui non vi è più spazio per qualcosa che ricordi il tessuto sociale e i beni comuni.
Che cosa rimane? Agli animi spauriti del nostro tempo rimane allora soltanto un generico point d’honneur morale, se non moralistico: placebo per la coscienza, finalizzato a dormire tranquilli la notte se non addirittura a rivendicare superiorità morale rispetto agli altri. Buoni propositi e rappresentazione di sé a tutto tondo positiva: “il mondo è cinico e baro ma io no, io sono diverso”. Insomma, falsa coscienza, dimenticanza utile alla sopravvivenza, arte grossolana per eludere gli aspetti deteriori del proprio opportunismo e della propria codardìa. Storditi dalle paure, siamo difesi da un esercito costantemente crescente di menzogne, capaci di creare un campo esistenziale laddove l’incoerenza e il disagio la fanno da padroni, mentre il sistema stesso le nutre, accentuandole e guidandole verso mete anodine che, dunque, ne neutralizzano gli aspetti potenzialmente eversivi. La bugia verso noi stessi costituisce il sintomo di un inquinamento destinato a radicarsi sempre di più.
In questo orizzonte, sarebbe necessario interrogarsi sul senso del disagio, sulle sue ragioni di fondo e sulle possibilità di, non dico superarlo, ciò che forse non è umano, ma almeno, come dovrebbe essere giusto, di fronteggiarlo. Non mi pare che ciò accada. Mi sembra, infatti, evidente che anche il disagio – di tanti ormai, fuori dall’Occidente ma anche al suo interno -, piuttosto che essere affrontato in vista di una risoluzione che passi attraverso un mutamento effettivo delle condizioni tanto politico-economiche, quanto, soprattutto, antropologico-culturali, diviene più profondo e raggiunge limiti soltanto ieri impensabili. Più occorrerebbe dare senso al vuoto, alle condizioni depressive, agli stati di malessere nevrotici, al fine di controllarli e incanalarli, più essi – invece – si estendono e si radicano. Si tratta evidentemente di un circolo vizioso… Quando non saremo più neppure in grado di vederlo, ebbene, allora non sarà possibile tornare indietro e il vuoto – chissà – ci avrà inghiottiti nelle sue spire – come sabbie mobili che fatalmente risucchiano il viandante incauto.
La fatica della comunità
E, tuttavia, non c’è dolore, anche il più intimo, anche il più intenso, che non possa essere metabolizzato, ricoperto, trasfigurato. Non c’è dolore, né disagio che non possano essere sopportati e sublimati a condizione che li si “curi” con un’aura di bellezza, di opportunità creative, insomma, di vie d’uscita. Tali “soluzioni”, tuttavia, per manifestarsi, per aprire le proprie porte, hanno bisogno di essere costruite, implementate, rese accessibili. Non esiste una via d’uscita dal dolore e dal disagio che non passi attraverso il potenziale di vita raccolto nel proprio contatto con la comunità dei propri simili. La comunità è balsamo vitale per gli esseri umani e lo è ancora di più per l’uomo sofferente, e ci si augurerebbe che avesse davvero ragione Spinoza quando il filosofo olandese affermava che “l’uomo è un Dio per l’uomo”.
Per attingere al senso della comunità, tuttavia, sarebbe indispensabile uscire da sé. Un individualismo iperblindato come quello contemporaneo, in larga misura costruito dal tecno-capitalismo, si mostra incapace di aprire le immense possibilità che il contatto “confidente” con il proprio “fuori” consente. In fondo, a pensarci bene, la “salvezza” non è quasi mai collocata nel recinto chiuso d’una soggettività, poiché si trova piuttosto nel punto di congiunzione fra il proprio interno e un esterno che costituisce l’universale umano. Accade però che, nel tempo della globalizzazione, fase storica che si proclama aperta e libera, in realtà, le nazioni si allontanino, gli uomini si avvicinino soltanto per ridursi a massa ma appaiono sostanzialmente distanti gli uni dagli altri, i protezionismi economici aumentano e così pure i dazi e le paure globali. La frammentazione fra uomini, fra competenze, fra generi sessuali, all’interno delle medesime famiglie non sono più eccezioni ma s’impongono come la regole stessa del mondo globale. La politica nella sua interezza langue sotto l’impero della tecno-finanza. Gli uomini non soltanto sono lasciati soli ma appaiono addirittura aizzati l’uno contro l’altro da una disperante competizione che provoca guerre fra poveri e lotte quotidiane fra penultimi che non vogliono diventare ultimi, sotto gli occhi grassi e obesi di nuove élite ignoranti e tracotanti, ciniche e ottuse, buone ormai soltanto ad inventare strumenti di menzogna sempre nuovi.
La maggioranza dei cittadini è convinta di cambiare le proprie condizioni di vita in virtù del voto. Dopo un sacrale giretto nell’urna, l’homo democraticus ritorna però alla sua vita, senza che nulla sia stato modificato nelle sue azioni. La democrazia, un regime politico delicatissimo, un sistema che può rinunciare a tutto meno che ad un potere costituente autonomo e, almeno in linea generale, razionale, si fonda invece su un individuo incapace di modificare i propri comportamenti più semplici e quotidiani e che si mostra costantemente etero-diretto. Evidentemente, dobbiamo dedurne che il sistema non vuole cambiare e che, anzi, è il sistema stesso che si difende da elementi eversivi (se non reali almeno potenziali) attraverso la passivizzazione delle masse. E si difende assai bene. Il sistema capitalistico è sopravvissuto a crisi epocali gigantesche e a contorcimenti e spasmi che hanno forgiato una forza titanica. Alleato con la democrazia, il sistema di produzione capitalistico ostenta una condizione di libertà, fa mostra di concedere a ciascuno il proprio spazio, nella direzione di un autogoverno ben radicato nell’etimo stesso della parola demo-crazia. Si tratta evidentemente di una finzione. Abbiamo a che fare con una struttura molto sofisticata – che si avvia a forme assai elaborate di eugenetica -, dominata da forme di razionalità strumentale esclusivamente volte all’aumento di una potenza che passa attraverso il profitto da parte di un’oligarchia (sempre più) ristretta di ricchi. Il capitalismo, sistema niente affatto rozzo e grossolano, dopo le plurisecolari esperienze della sua storia, ha imparato a fondo una lezione formidabile, indispensabile ai sistemi politici complessi: la flessibilità, la duttilità e l’estremo pragmatico, capace di appropriarsi delle forze antagonistiche e di farne motore per il proprio dinamismo. In tal modo, esso si mostra in grado di “sussumere” in sé anche le opposizioni che inevitabilmente scaturiscono dalle contraddizioni che esso produce.
Il limite della sedicente libertà democratica, tuttavia, non è percepito fino a quando qualcuno rompe i canoni imposti dalla società, testando su di sé le contromisure utili adottate dal sistema per riportarlo sulla “retta” via. Del resto, è noto: ciò che costituisce davvero l’essenza del potere (è una frase attribuita a Voltaire) coincide esattamente con ciò che non si può contestare. L’ordine sociale si mantiene attraverso una continua esposizione ad apposite indicazioni che indottrinano, distraggono, manipolano, corrompono, tanto da rendere tollerabile l’insostenibile, democratico l’arbitrario, vera la menzogna.
E così, inevitabilmente, stupefacenti, ansiolitici, antidepressivi e psicoanalisti si arrogano il diritto di ricoprire la (potenziale) gioia della comunità e della condivisione di emozioni con una coltre opaca e appiccicosa di inganno triste, ed uomini non repressi ma depressi celebrano le tristi liturgie della nuova dialettica costituita dall’inclusione (nella mangiatoia) e dall’esclusione da essa.
Fonte articolo: http://filosofiainmovimento.it/democrazia-inquinata/?fbclid=IwAR3uX7jbw6awkyP7TbLfVxECEp01G6feo9PChfG2cX9yVknTnQuqNk3Oaiw
Fonte foto: www.rsi.ch (da Google)