E’ un altro volto del femminile quello che Antonella Gionta ha
messo in scena nel suo spettacolo “Dalle Segrete alle Torri” nei giorni scorsi
al Teatro Cometa Off di Roma, e non è quello rassicurante, vittimizzato e nello
stesso tempo mediaticamente celebrato al quale siamo stati abituati (rieducati?)
da decenni di sistematico bombardamento politicamente corretto.
Con questa opera Gionta mette radicalmente in discussione i
capisaldi del femminismo, in particolare quello della “differenza”. Le donne,
esattamente come gli uomini – sembra volerci dire l’autrice – sono capaci di
tessere inganni, di tramare nell’ombra, di ordire vendette, di agire in modo cinico
e violento, di assassinare e di essere mandanti di assassinii pur di
raggiungere il loro obiettivo. E sono in grado di fare tutto ciò con la stessa lucidità
e la stessa spietatezza degli uomini. Non c’è spazio per la retorica nella sua
opera, i tre personaggi scelti per rappresentare simbolicamente questo aspetto
del femminile, Medea, Erodiade e Anna Bolena, vengono portati in scena con realistica crudezza
e al contempo nella loro profonda tragicità.
E’ volontà di potenza quella che queste tre donne manifestano
e che traspare con grande pathos in ogni istante dello spettacolo. Carne e
sangue, Eros e Thanatos, penombra, dolore, lutto, rivalsa, vendetta spietata,
lacerazione interiore, estremo sacrificio e naturalmente il “nulla”, il nulla
che sta dietro e che emerge drammaticamente dopo ogni tragedia, specie quella,
tremenda, che vede come protagonista l’infanticida Medea.
La bellezza, la sensualità, l’erotismo, la seduzione come
strumento di manipolazione e di dominio fanno la loro comparsa nel secondo
atto, dedicato ad Erodiade, insieme alla determinazione, alla lucidità e alla
chiarezza degli intenti, al desiderio di controllo assoluto, alla brama di
potere che non conosce ostacoli, tanto meno di ordine etico, che non viene
camuffata e neanche edulcorata.
Il sospetto, la menzogna, il narcisismo, l’utilizzo lucido e
strumentale della sessualità caratterizzano la figura di Anna Bolena, nei
confronti della quale l’autrice sembra nutrire però, non a torto, una certa
indulgenza. E’ forse il personaggio più controverso e contraddittorio fra le
tre, essendo vittima di se stessa, della sua volontà di affermazione (di
potenza), ma anche di un ingranaggio di potere (politico) molto più grande di
lei, che credeva presuntuosamente di poter governare e che invece finisce per
stritolarla. Bolena è forse il personaggio più tragico, e sembra ricordarci
come probabilmente il successo e il fallimento siano soltanto facce di una
stessa ingannevole medaglia. Il suo rimettere la sua anima nelle mani di Dio,
atto con il quale chiede perdono nel momento supremo, non è soltanto un gesto
di disperazione, ma un momento catartico, una sorta di lavacro a cui Bolena si
sottopone rivendicando la sua innocenza relativamente alle accuse di tradimento
che le vengono mosse.
E’ in fondo una sorta di autocoscienza quella che Gionta
propone alle donne in una fase storica in cui lo “spirito del tempo” (leggi
l’ideologia attualmente dominante) vuole sollevarle da ogni responsabilità per
colpevolizzare a senso unico il genere maschile. In questo senso il suo lavoro opera
una cesura netta con i luoghi comuni e le scontate liturgie della narrazione
politicamente corretta da tempo egemone nelle società occidentali. Un atto di
libertà e di autonomia intellettuale che di questi tempi, dominati da un
neoconformismo pervasivo e soffocante, è ossigeno puro per chi non ha ancora
portato il cervello all’ammasso o, peggio, al monte dei pegni.