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Riceviamo e volentieri pubblichiamo la prefazione al prossimo libro di Antonio Martone dal titolo “Il luogo dell’origine. Una dimora inquieta”, in attesa di pubblicazione.
L’attività filosofica di ogni tempo ha mostrato al filosofo un’esigenza insopprimibile: rinvenire un luogo sorgivo nel quale fosse possibile attingere ad una fonte comune. L’esigenza è stata sempre forte nei secoli dell’Occidente, ma oggi forse – data la presenza di comparti scientifici e settori dell’umano assai diversificati – tale necessità appare ancora più pressante.
Quando intende essere radicale, infatti, la filosofia non può esentarsi dal raggiungimento di un punto sulla base del quale poter sottoporre a critica il lessico fondamentale dei linguaggi convenzionali, evidenziando quanto di problematico vi sia in esso. Ho adottato in queste pagine, pertanto, un atteggiamento “fondamentale”, ossia una critica filosofica che si nutre dei numerosi elementi di esistenzialità vissuta e fosse tale, dunque, da coinvolgere qualunque individuo in quanto uomo e cittadino.
Una riflessione di questo tipo, avendo fra i suoi intendimenti il proposito di “fluidificare” i luoghi comuni, ha inevitabilmente l’ambizione di raggiungere una sorta d’“origine” a partire da cui tutto possa essere valutato filosoficamente. Si tratta, beninteso, di un’origine inafferrabile, poiché le dimensioni ultime della nostra vita, essendo collocate alle nostre spalle, non possono essere del tutto oggettivate. Tuttavia, proprio in tale inafferrabilità, è comunque collocata – e vedremo in che senso – la nostra dimora più propria. Una dimora che, come recita il titolo del volume, appare “inquieta” perché non può che essere inquieto ciò che viene visto soltanto nella sua parte visibile – la cui visibilità, anzi, è data proprio dal contrasto con l’invisibile da cui essa emerge.
L’intero testo, pertanto, non è altro che una riflessione sulla condizione storica e ontologica dell’uomo, svolta attraverso una critica del linguaggio comune. Ho cercato di evitare il più possibile sterili e vacui tecnicismi, come pure citazioni e note a piè di pagina, buoni senz’altro per colpire il lettore con una presunta sapienza esoterica, ma destinati spesso a sciogliersi come neve al sole davanti alla concretezza della vita.
Mi sono interrogato a lungo su come definire ciò che alla fine di ogni riflessione mi si parava davanti come una porta semichiusa dalla quale filtrava una luce fioca. Mi sono chiesto se la tradizione filosofica potesse aiutarmi a dare un nome a quell’enigma che sembrava chiudere il campo a qualsiasi definizione razionale. Ho deciso, infine, che l’espressione “vuoto” – dal sapore più classico (se non orientalistico) che moderno: si pensi all’epicureismo e all’atomismo antico – fosse la più capace di esprimere quel punto limite, quella realtà gigantesca quanto inattingibile, che cercavo.
Più che di una categoria, è chiaro che, quando si parla del vuoto, si evoca qualcosa di concettualmente inconcepibile. E questo è paradossale: proprio ciò che ho considerato come un dato comune a tutti gli uomini, sfugge a qualsiasi definizione. Eppure, se il vuoto non fosse tale, e cioè indefinibile, la filosofia medesima non sarebbe ciò che è: un incessante corpo a corpo con dimensioni “meravigliose” quanto enigmatiche che, oltre a non permettere alcuna chiarificazione definitiva, alimentano e rilanciano sempre di nuovo l’investigazione.
Peraltro, il vuoto di cui parlo, proprio perché costituisce il limite immanente alla concettualità razionale, rappresenta altresì l’unica costante, l’unica forma di universalità possibile per l’essere umano. Non soltanto: il vuoto, oltre alla sua universalità, e proprio perché non si tratta di una sostanza definibile, si presenta in maniera sempre diversa a seconda delle epoche storiche. La sua sostanza “vuota”, mi si perdoni l’ossimoro, stante la radicale immanenza alla coscienza umana – non si dà coscienza, infatti, che non si costituisca proprio in rapporto al vuoto – gli permette di essere attivo, pur mediandosi (non esiste infatti un vuoto “immediato” che non si trovi già da sempre intessuto di elementi simbolico-linguistici), con le diverse epoche storiche, le visioni del mondo e i dati fondamentali della soggettivazione umana con le sue infinite possibilità.
Del resto, anche dal punto di vista storico-teorico, il metodo che ho adottato ha una sua ragione precisa: nel corso di un viaggio più che bi-millenario, infatti, la filosofia si è sempre imbattuta con un’ombra che ne ha accompagnato il percorso. Beninteso, si tratta di un’oscurità produttiva ma proprio per questo, estremamente influente. Per rimanere in ambito moderno, che cos’è il “noumeno” di Kant, “la volontà di vita” elaborata da Schopenhauer e tradotta da Nietzsche in “volontà di potenza”, e perfino l’”essere” di Heidegger, se non il lato sorgivo ma sempre enigmatico alla base della ricerca filosofica?
Il vuoto, dicevo, è un termine estremamente universale nella sua capacità di porsi come una costante in ogni epoca e sotto ogni cielo. Esso, anzi, è il principio più universale possibile e può essere considerato, quindi, sia pur nella sua paradossalità, come un vero e proprio connotato fondamentale – un dato strutturale – dell’esistenza umana. Sulla base di tale convincimento, ho ritenuto di concentrarmi su tre settori fondamentali dell’indagine filosofica: i temi riguardanti la soggettività, quelli attinenti alla metafisica, oltre naturalmente alle questioni politiche. Non c’è alcun ordine di priorità né logica, né ontologica fra questi tre settori (che sono anche i tre capitoli di questo libro), ed essi possono essere letti anche autonomamente.
In fondo, i tre capitoli sono disposti “a raggiera” intorno ad un nucleo centrale (il vuoto, appunto), e ogni aforisma del testo ha una sua autonoma legittimità: non vuole sviluppare il passo che lo precede, né presuppone una continuazione in quello successivo. Si tratta di tre grandi segmenti che tuttavia vanno considerati uniti e esigono di essere strettamente legati: non si può intendere l’uno senza l’altro. Solo per un ossequio ad una partizione moderna, ho scelto di iniziare con i temi della soggettività e di concludere con la politica, passando per metafisica. In realtà, i tre capitoli avrebbero potuto essere topologicamente invertiti e non sarebbe cambiato niente dal punto di vista del discorso complessivo.
All’interno dell’orizzonte di riferimento teorico che ho cercato di aprire, e prima di lasciare il lettore agli aforismi del testo, vorrei soltanto precisare ulteriormente la linea di ricerca che ha attraversato come una corrente carsica tutte le riflessioni raccolte nel volume. A mio parere, l’obiettivo della filosofia, in un tempo quale il nostro, consiste in una duplice operazione: da un lato evocare il funzionamento delle dinamiche antropologiche, prima che politiche, su cui si reggono le società contemporanee. E’ necessario, io credo, soffermarsi anzitutto sulle modalità di soggettivazione psichica in un tempo di diffusa spoliticizzazione e di accentuata presenza di modalità di governance populistiche, tali da porre in evidente crisi il senso stesso della democrazia. L’urgenza di un lavoro di questo tipo diviene ben evidente ove si consideri che la nostra contemporaneità si segnala per la rapidità con cui milioni di voti vengono spostati per qualche euro in più o in meno al mese. Le masse occidentali, in questo tempo, infatti, si mostrano poco sensibili alle esigenze del bene comune e parti sempre più grandi dell’elettorato preferiscono l’astensione all’espressione del voto. Del resto, il nostro tempo è anche quello nel quale emergono continuamente movimenti politici raccolti intorno ad una figura che non costituisce affatto una figura morale, e meno ancora un modello in grado di indicare agli elettori una via politica da seguire. Ebbene, quando si esperisce un tempo storico di questo tipo, io credo che è con le conseguenze estreme della società di massa che si sta avendo a che fare. Essa costituisce, altresì, una maniera tutta particolare – e fondamentalmente unica nella storia dell’umanità – di affrontare il vuoto costitutivo dell’esistenza umana.
Dall’altra parte, occorre – una volta enucleati i presupposti di tali dinamiche – indicare delle strade teoriche percorribili al fine di tras-formare la visione del mondo contemporanea – con i suoi contenuti simbolici profondi – nella direzione della formazione di individui più liberi, capaci di autoconsapevolezza critica e di cooperazione sociale e transnazionale. Occorre pertanto cercare di riaggregare gli individualismi impauriti che costituiscono il nostro triste orizzonte storico, al fine di rilanciare le lotte per l’emancipazione.
Per tentare di uscire dal questa crisi storica, che non è affatto economica, ma anzitutto crisi di democrazia partecipativa, in nome di una nascente e ormai di fatto attualizzata, oligarchia di massa, occorre – io credo – non tanto e non solo dar voce al disagio, quanto capovolgere il vuoto di senso che ci assilla da ogni parte in senso del vuoto. È necessario, cioè, disoccultare l’esperienza del vuoto e conferirle il suo più proprio e autentico significato. Per farlo, è opportuno anzitutto mostrare la mistificazione radicale celata essenzialmente nella merce-mondo e nel mondo-merce, nella convinzione che soltanto quando si sarà esperito fino in fondo il vuoto di senso – oggi “forcluso” dai miti legati all’individualismo radicale – nel quale ci troviamo potrà avvenire quel rovesciamento metafisico e politico insieme, in grado di far vedere il fondo del vuoto. È necessario, cioè, sottoporre a critica radicale la pretesa assolutezza rivendicata dal denaro e dalla mercificazione universale, spacciati ideologicamente come lo specifico senso della soggettività umana e politica.
Il nostro contemporaneo punta ad un livello di comunicazione totale. Una comunicazione, cioè, che sia priva di discontinuità, nella quale ogni “sezione”, ogni “cellula” si senta costantemente connessa ad una mega-apparato del tutto anonimo e privo di significato. Lo spazio della comunicazione, all’interno di questo scenario, appare meramente orizzontale e il tempo stesso privo di interruzioni che non siano “eventi” simulati, senza profondità e di reale trascendenza.
È necessario mutare radicalmente questo scenario. Occorre cioè riprendere in mano il controllo delle proprie vite e, per farlo, non ci si potrà esimere dal ritornare ad abitare aquello spazio interiore che non è comunicabile affatto e che, anzi, s’identifica proprio con ciò che interrompe la comunicabilità. La comunicazione totale non è un destino: il destino, invece, è l’uomo con i propri silenzi, le proprie pause e con, in una parola, il proprio vuoto interiore – un vuoto che è immanente e trascendente nello stesso tempo.
Si ricominci a dare valore ad una temporalità discreta, si rompa il continuo della catena temporale creata ad arte dal capitale – decidiamoci finalmente a fuoriuscire da questa oscena spersonalizzazione collettiva e ritroviamo la nostra insostituibile unicità. Stiamo bene attenti però al senso di questa nostra unicità, poiché l’equivoco è dietro l’angolo. Noi siamo unici, non certo nel senso di uomini senza passato, immersi nell’orgia collettiva della società di massa, e preda dei capricci che costantemente il capitale promette di soddisfare. La nostra unicità, invece, risiede nel fatto che ci avvertiamo donne ed uomini capaci di costruire una biografia che sia solo nostra, edificata però sulla base della cultura a cui apparteniamo. E’ con questa biografia che (anno per anno, secolo per secolo) edifichiamo la storia collettiva.
E’ soltanto grazie alla nostra unicità, alla libertà che sentiamo dentro e al nostro coraggio, che possiamo possedere la storia fino in fondo. Non ci sarebbe alcuna storia se non vi fosse l’unicità di ciascuno a dare un senso e un corso a ciò che altrimenti sarebbe statico. La storia, in definitiva, ha bisogno di noi per essere fatta.
Credo che vi sia oggi al mondo un radicale bisogno di superare una fase – come quella attuale – che si regge soltanto su un individualismo impaurito. Le donne e gli uomini contemporanei mostrano una fragilità da animali d’armento. La forza critica è pressoché cancellata e le capacità di resistere alle innumerevoli menzogne che circolano senza posa nel grande teatro della comunicazione pubblica è ridotta al minimo. Occorre quindi sconfiggere la paura attraverso il pensiero, prima ancora che riaggregare gli uomini: è necessario, soprattutto, una coscienza sobria, essenziale, volta a disoccultare il fondo/orizzonte della nostra mente, spesso ricoperto dai miti creati ad hoc dal capitale.
In seguito a tali consapevolizzazioni, il vuoto di senso si potrebbe capovolgere – forse – in senso del vuoto. Il vuoto cioè potrebbe assumere l’unico valore possibile: universale, originario, tipicamente umano.
Quando ciò avverrà, se ciò avverrà, l’umanità occidentale sarà protagonista di una svolta antropologica senza precedenti. Una svolta non tanto e non solo di tipo etico-politico, quanto piuttosto di stampo “estetico”. Tale cioè da coinvolgere da presso l’intera visione del mondo contemporaneo – con i suoi riti, i suoi miti e le sue ossessioni. Insomma qualcosa che implica la trasformazione (o la trasvalutazione, come diceva Nietzsche) di tutti i valori.
E’ chiaro che corrispondere ad un’ambizione di questo tipo è impresa titanica. Questo testo cerca di dare semplicemente un contributo. La forma aforistica entra anch’essa in questo intendimento, dal momento che mi è parsa l’unica in grado di rendere la complessità nella quale ci troviamo in maniera più leggera, agile e fedele. La forma aforistica mi ha consentito, infatti, di entrare, attraverso le innumerevoli schegge prodotte dalla/nella esistenza, fin nelle feritoie più riposte dell’esserci attuale – presupposto questo, essenziale per ogni critica e per qualsivoglia ontologia del presente.
a. m. Febbraio 2017