La crisi che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio e che rappresenta solo una forma determinata di una crisi generale che attraversa tutto il sistema capitalista-finanziario globale, non è solo indice di una ristrutturazione economica, per dirla in termini marxiani, ma ci parla di una mutazione profonda che investe la soggettività e la sua dialettica quotidiana con i processi storici in cui è immersa e che è chiamata a vivere o a sopportare a seconda dei casi e della posizione che questa stessa soggettività ricopre all’interno dei rapporti attraverso cui si produce e si riproduce la ricchezza complessiva della società.
Una ristrutturazione di una soggettività potremmo dire “orfana” di idee e valori, estromessa da qualsivoglia spinta utopista e di concreta appartenenza ad un tutto o ad una comunità che lotta – attraverso identità e riconoscimento reciproco (da e nella società) – per imporre gramscianamente una nuova egemonia e un’alternativa di sistema, che tenta a fatica di costruirsi come soggetto cosciente, figlia di quella soggettività umanistica che ha marcato la differenza – nei secoli – tra l’Occidente e l’Oriente, tra un approccio attivo, in questo precipuo senso critico-filosofico al mondo e alle cose e, viceversa, un approccio naturalistico nei confronti del tutto, in quanto eterno mutamento in cui il soggetto era “istintivamente” immerso.
Ovviamente la tendenza alla generalizzazione in questo mio contributo è necessaria, dato che non è possibile qui entrare in tali conflitti. Ma prendendo spunto dai grandi come Baumann, Agamben e Foucault, senza qui dimenticare l’apporto decisivo di Marx nell’analizzare la dialettica soggetto-oggetto (Bloch) nella costellazione capitalistica della produzione, possiamo ammettere che l’umanità orfana di costruzione di un Sé e di una qualsiasi forma d’appartenenza, di una concreta capacità di azione pratica nel mondo rappresenta a pieno il riflesso della disgregazione economico-produttiva nata dalla tendenza alla precarizzazione e alla parcellizzazione dei processi lavorativi e di estrazione di plusvalore oggi in atto – in forme diverse – in tutto il mondo.
Per dirla con parole più semplici; ad una società precaria corrisponde una soggettività anch’essa precaria, orfana e disgregata, inabile a pensarsi come oggetto e soggetto storico, prodotto di determinati processi e conscio di essere “attività” pensante, azione concreta nel mondo per la sua trasformazione. In poche parole; oggi stiamo assistendo, ma forse questo processo è attivo da secoli ma solo ora ce ne rendiamo ben conto, alla disgregazione di una soggettività (e con essa di una società in cui tale soggettività era nata e cresciuta e in cui si era riconosciuta e specchiata per dirla con Lacan) nata dall’umanesimo e che oggi il precariato di massa e la speculazione finanziaria rendono per così dire “superata”, superflua, inutile (per i suoi fini performativi e funzionali alla sua perpetuazione e alla sua ideologia neo-positivistica) e per ciò da distruggere come residuo di un passato “critico” , come intralcio al suo libero dispiegarsi globale.
La lotta forse oggi non è più quella tra idealismo e materialismo, come insegnavano i padri del socialismo scientifico; o meglio è ancora questa ma tradotta nello scontro epocale tra “funzionalismo ed umanesimo”, tra un soggetto divenuto oggettività cosale ( e non oggetto storico cosciente) ai fini del funzionamento del sistema e della sua eterna e “naturale” perpetuazione come infinita accumulazione e soggetto umano cosciente di sé, pensiero in azione (non in atto come direbbe Gentile) critica-trasformatrice nel e del movimento reale, dello stato di cose esistenti.
Questa lotta è ancora viva ed in atto e rappresenta forse la dialettica più alta della ridefinizione critica dell’esistente e il terreno fertile in cui è forse ancora possibile cogliere la possibilità di ripensare una soggettività individuale e collettiva alternativa all’egemonia dominante. Il non piegarsi alla funzionalizzazione, ai tempi di Marx si sarebbe detto all’alienazione, è il primo passo per riattivare una soggettività del pensiero trasformante, della prassi “rovesciante”, dell’azione cosciente dei limiti dell’esistente e delle sue contraddizioni per individuare nel movimento reale gli interstizi in cui agire, in cui riattivare un’azione di “possibilità” utopica individuale e collettiva; riattivare cioè l’umanismo, un umanesimo dell’agire, cioè la possibilità-necessità di un Soggetto storico cosciente di sé come azione, come prassi trasformatrice di sé e della propria realtà-comunità.
Il problema come sempre è politico; gli spazi che il sistema lascia a tal compito sono minimi e nell’era post-ideologica in cui siamo immersi (un’espressione questa che lascia molti interrogativi e che va presa sempre con molta attenzione) e potremmo dire post-comunitaria (parafrasando il sociologo polacco Baumann), è davvero arduo ripensare ad un collante ideale e politico, ad un principio motore, come direbbe Marx, universale ed universalizzante – ma non per questo totalitario – su cui aggregare le forze atte ad ipotizzare una reale alternativa antropologica ed economica al neo-liberismo finanziario globale.
Marx individuò questo principio motore fondamentale, questa leva antropologica ed economica, nel lavoro, nella dialettica “hegeliana” servo-signore, come collante universale di un’umanità schiavizzata che andava emancipata attraverso la lotta per il superamento di tale dialettica, per la sua progressiva ricomposizione in una società libera e giusta.
E’ impossibile discutere qui sull’attualità o meno di tali affermazioni marxiane né delle conseguenze storiche e politiche del marxismo novecentesco; tuttavia ferme restando le analisi di Marx e l’insuperabile orizzonte critico del suo pensiero, più vivo che mai, possiamo dire che tali argomentazioni presupponevano una società “rigida” in cui il lavoro era “centralizzato” e in cui la costruzione dell’IO e del sé, individuale e comunitario, avvenivano entro canali e contesti “rigidi” e centralizzati, in cui le istituzioni e le “agenzie” di formazione erano saldi e forti (spesso nella loro essenza conservatrice e reazionaria) e in cui la riproduzione sociale della ricchezza attraverso il lavoro individuale e collettivo (non la speculazione finanziaria e le politiche del debito ) dettava l’evoluzione dell’uomo e della sua comunità storica.
Oggi la situazione è ben diversa. Siamo di fronte ad un potere, per così dire, post comunitario in cui spesso il potere di “relazione” domina e presuppone gli altri poteri (sociali, politici, economici, culturali) e in cui la frammentazione delle tradizionali agenzie di formazione ed istruzione del soggetto comunitario producono un IO che, non essendo nato e vissuto nella e attraverso concrete ed oggettive relazioni comunitarie (stato, famiglia, scuola, chiesa, partito, fabbrica, esercito) se non quelle virtuali, impronta di sé egoisticamente il proprio successo a danno (volontario o meno) degli altri e della comunità in cui è immerso. Ciò produce un soggetto assoggettato al proprio IO carrieristico incapace di pensarsi e viversi come entità comunitaria, prodotto determinato di una determinata storia, coscienza agente in un contesto in cui identificarsi e riconoscersi, e per cui eventualmente battersi se necessario. Un IO quindi atomistico e passivo (anche se dinamico) che si approccia naturalisticamente, fatalmente, istintivamente al Tutto in cui è “obbligato” a stare e a riprodurre meccanicamente-funzionalmente la sua esistenza alienata e reificata; produce un soggetto che si pone nei confronti della società in modo “conflittuale”, non sentendosi più rappresentato e vivo in un contesto che lo ingabbia e lo fa sentire inutile e vuoto; la comunità come zavorra da eliminare o, nel migliore dei casi, da utilizzare per i propri fini utilitaristici.
In questo senso, la prospettiva aperta dal bio-potere foucaultiano può apparire paradossale. E’ impossibile qui entrare nel dettaglio né possiamo scoprire se l’indicazione di Foucault sia più attuale e performativa – dati i tempi – rispetto a quella formulata da Marx. Ma è indubbio che la “doppia visione” del bio-potere che da una parte gestisce e amministra i corpi e le popolazioni e dall’altra permette all’uomo di liberarvisi perché anch’esso fa potere, gestisce potere, agisce potere attraverso le sue pratiche di relazione quotidiane e dell’uso del suo corpo-mente, pur nella sua indubbia fascinazione lascia aperto ancora oggi e pone con sempre maggiore attualità il problema centrale del superamento egemonico (sovrastrutturale ed antropologico) e con esso politico ed economico, della relazione insuperabile capitale-lavoro, acquisto e vendita di forza lavoro sul mercato, precarizzazione e disumanizzazione del soggetto contemporaneo, privato o auto privatosi di identità, riconoscimento e comunità in cui nascere, crescere e realizzarsi come soggetto cosciente perché agisce e agente perché cosciente di sé come soggetto (e non solo come corpo), come ente storico concreto. La coscienza politica agente non nasce né può nascere esclusivamente attraverso la scoperta (non si sa bene come) di nuove pratiche “corporee” di liberazione e di contro-potere (parliamo ovviamente anche di corpi sociali e politici oltre che di quelli individuali) ma dalla costruzione di un progetto utopico collettivo di soggettività coscienti e tendenti ad un fine “superiore” (il superamento della divisione in classe della società per la libera associazione dei produttori) a cui voler aspirare, dare “concretezza” attraverso l’agire politico di una intellettualità collettiva alle possibilità critiche e destabilizzanti che l’essenza contraddittoria ed instabile del modo di produzione capitalistica porta con sé. Progetto non facile in base a quanto detto finora ma necessario.
Ad una società che ha smarrito il “senso” e l’importanza delle proprie intime funzioni di formazione, comunicazione e riproduzione “progressiva” (dato il regressivo movimento globale del capitale finanziario che partorisce mostri come ISIS e co.), non può che succedere – magari attraverso nuove guerre e crisi sempre più violente – una società autoritaria, gerarchica, neo-elitaria, neo-aristocratica, che sfrutta il post-moderno ideale di “fine della storia” e con essa la fine dell’uomo e dell’umanità e dell’ontologia (dell’essere sociale) così come l’abbiamo conosciuta fino a ora per imporsi come capolinea, come traguardo insuperabile, come limite invalicabile, stagno in cui le onde non arrivano a scuoterne gli argini; questo è il punto. Non è la fine dell’uomo, ma la fine indotta, l’esaurirsi coatto del concetto di umanità e di pratica ontologica fin come l’abbiamo conosciuta; fine dell’umanesimo come agire concreto degli uomini tra loro e dell’autodeterminazione dell’uomo come coscienza storico-pratica; prassi trasformante. Fine cioè della politica come azione dialettica con la realtà di questa coscienza. Fine dell’economia come “riproduzione del valore”, come riproduzione di questa stessa umanità cosciente.
L’uomo storico dunque ormai naturalizzato, atomizzato, eternizzato nel suo presente infinito senza passato né futuro, non è più capace di guardarsi allo specchio e riconoscersi come soggetto pratico che vive e agisce per cambiare con sé anche la realtà che vive e con essa l’umanità in cui vive.
Forse, l’insegnamento di Marx, del salariato come soggetto-oggetto generale, allo stesso tempo vittima ma anche motore ed agente principale del processo della sua stessa valorizzazione, cristallizzazione umana del rapporto dialettico tra capitale e lavoro, succube muto delle trasformazioni profonde avvenute nelle modalità di estrazione di plus valore (e della sua attuale parcellizzazione precarizzante e “volatile”) può incarnare, in tempi e forme da vagliare, quel nucleo essenziale, identitario e comunitario su cui rifondare il necessario umanesimo dell’agire.
1 Attenzione; ciò non significa esautorare idealisticamente il rapporto capitale-lavoro come fondamentale rapporto di potere e non vedere che solo in Europa il 70% di chi lavora e produce valore lavora nell’industria percependo un salario in cambio della vendita della sua forza-lavoro. Significa dire che oggi il rapporto di potere fondamentale (tra i vari comparti dell’industria e dei servizi cosi come nella lotta tra gli stati) si è spostato a vantaggio del capitale “fittizio” direbbe Marx, nella lotta internazionale tra i capitali e i debiti sovrani, nelle guerre monetarie e in quelle speculative. Ma ciò non toglie, data l’apparente “volatilità” di tale campo di potere, che non ci possa organizzare, da parte operaia e non, per opporsi a tale deriva finanziaria-speculativa; significa registrare l’oggettivo mutamento delle forme e delle forze in campo per organizzare e ipotizzare una possibile alternativa alla sua disumanizzazione e precarizzazione globale.
2 Non riesce perciò a capire che questo Tutto naturale è in realtà una totalità dialettica, prodotta da una fase storica determinata (non data una volta per sempre) in cui ogni uomo ha un ruolo e una potenzialità critica infinita.