Per comprendere la realtà in cui ci troviamo a vivere, è spesso necessario tornare indietro nel tempo per analizzare alcune fasi storiche per certi versi a noi ormai lontane ma per altri vicine. Questo lavoro deve essere affrontato alla luce di molteplici aspetti, innanzitutto socio economici e poi anche filosofici e culturali (nella misura in cui, molto frequentemente, i secondi diventano mezzo di giustificazione e legittimazione dei primi).
Con questo articolo ci poniamo due obiettivi. Da una parte cercare di chiarire le origini storico-politiche del movimento sionista prendendo in considerazione il periodo storico della fine dell’ ‘800. Dall’altra ci sentiamo di azzardare dei possibili punti di convergenza fra l’ideologia sionista e la filosofia di Nietzsche che, forse non casualmente, nascono e si sviluppano nello stesso momento storico pur senza avere nessuna relazione diretta fra loro.
Nel 1878 si tenne il congresso di Berlino con il fine, fra gli altri, di chiarire anche la destinazione dei territori turchi in Europa, in seguito alla sconfitta subita dall’impero turco ad opera della Russia nella guerra del 1877-78. Al congresso parteciparono le maggiori potenze mondiali dell’epoca e si concluse con un sostanziale accordo anglo-russo per la sistemazione (spartizione) degli ex territori precedentemente controllati dall’impero ottomano. Ciò che interessa ai fini della nostra ricerca è appunto ciò che scaturì da tale congresso, ossia la natura del trattato stipulato nel quale formalmente venne postulato il cosiddetto “principio di effettività”. Sulla base di tale principio chi per primo avesse occupato un determinato territorio se ne sarebbe garantito il possesso e avrebbe potuto vantare su di esso ogni diritto. Da ciò ne deriva la necessità di giungere per primi per occuparlo e rivendicarne il possesso.
Possiamo procedere con ordine, seguendo una linearità temporale e arrivare alla conferenza di Berlino del 1884. Siamo in piena epoca coloniale ed è proprio in quel contesto che si rende manifesto uno dei cardini dell’ideologia sionista, il concetto di “terra nullius” (pilastro dell’ideologia di Theodor Herzl).
Per definizione, la terra nullius è la terra che non appartiene a nessuno, un territorio mai sottoposto alla sovranità di nessuno stato, oppure sul quale il precedente stato abbia rinunciato alla sovranità. La sovranità su tale stato sarà a quel punto ottenuta attraverso l’occupazione.
Vediamo come tutto ciò trova la sua legittimazione teorica nel pensiero di Herzl, cioè colui che può essere a buon ragione definito come il “padre” dell’ideologia sionista. Si può notare come nelle sue parole il concetto di terra nullius prenda tratti più apertamente bellicisti. Cito testualmente: “Tenteremo di sospingere la popolazione palestinese oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle zone di transito mentre gli negheremo qualsiasi lavoro nella nostra terra. Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e attenzione.”
Secondo Herzl, è bene ricordarlo, tutto ciò sarebbe dovuto avvenire tramite una negoziazione con le grandi potenze. Non è un caso che egli scrisse la sua opera maggiore, “Der judenstaat” (lo stato ebraico ), nel 1896, e che un anno dopo, nel ’97, si ebbe a Basilea il primo congresso sionista, prima tappa del processo di creazione dello stato ebraico e premessa degli accordi fra l’Inghilterra e il leader sionista Chaim Weizmann (Dichiarazione Balfour del 1917) , che prevedevano fra le altre cose un massiccio trasferimento di ebrei in Palestina e una partnership commerciale fra i due stati.
Se capiamo le parole di Herzl nel “Der judenstaat” capiremo anche la definizione sionista della Palestina come “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. In tale definizione è già implicita l’idea di “liquidazione” delle popolazioni che ivi risiedevano e vivevano; quel “senza popolo” è sinonimo di “senza popoli reali” (qui c’è un primo possibile richiamo al concetto nietzschiano di “razza decadente” di cui parleremo più avanti.).
Herzl ci dice: “Né il trapianto né l’artificiale depressione del livello spirituale possono servire a nulla”. È dunque implicita la necessità di una nuova sovranità che vada oltre il semplice insinuarsi del popolo ebraico. Vediamo dunque la modalità indicata per perpetrare tale occupazione citando ancora le parole di Herzl:
“Se venissimo a trovarci nelle condizioni di dover purgare un paese dalle bestie feroci, non lo faremmo al modo europeo del quinto secolo, ma imposteremmo una grande e allegra caccia, sospingendo le belve in un sol luogo e gettando in mezzo ad esse una bomba di melinite.”.
E ancora:
“Copriremo l’ufficio di avamposti della civiltà contro le barbarie.”.
È necessario ora non isolare questi discorsi ma provare a ricollegarli a una delle filosofie più influenti dell’epoca: la filosofia nietzschiana.
La relazione fra il pensiero di Nietzsche e il sionismo è, concettualmente parlando, tutt’altro che scissa. I sionisti hanno fatto proprio l’autosuperamento nietzschiano – il “come si diventa ciò che si è” – cioè quel metodo per far nascere dalle rovine del giudaismo la consapevolezza del “nuovo ebreo”. Se si ricordano le parole del filosofo “Per costruire un tempio è necessario distruggerne un altro”, l’ipotesi che stiamo avanzando potrebbe avere una sua coerenza.
A questo punto in molti potrebbero chiedersi come si spiega la connessione Nietzsche/ sionismo, quando alcune correnti filosofiche hanno interpretato e identificato lo stesso Nietzsche come precursore del nazismo.
Proviamo ad analizzare la questione a partire dal noto atteggiamento aristocratico nietzschiano e dalla sua auspicata assenza di mobilità sociale. Egli infatti sostenne come invalicabile la barriera fra schiavi e padroni arrivando ad una sorta di celebrazione della schiavitù. L’abolizione della schiavitù si sarebbe potuta concretizzare per il filosofo nell’annientamento di una stirpe profondamente diversa (decadente), mediante l’affossamento dei suoi valori. Il concetto di affossamento del valore come strumento di annientamento ha però radici molto profonde nell’impianto nietzschiano.
Per Nietzsche il nichilismo muove la storia, il suo famoso discorso sull’uomo pazzo non è in realtà in chiave miscredente; la miscredenza non è il fondamento del nichilismo bensì la conseguenza.
Il nichilismo nietzschiano è un “capovolgimento” (nel non-essere in cui vita ed ente vengono rifiutati come tali) che fa perno su due aspetti fondamentali: valore e accrescimento. L’essenza del valore è un angolo visuale e questo vedere diviene valore solo attraverso un porre rappresentativo; l’accrescimento è dunque un mezzo. Il valore è quindi punto di vista delle condizioni di conservazione/accrescimento e il suo fondamento ultimo è la volontà di potenza. La volontà che vuole se stessa, anzi l’ultrapotenziamento di stessa; la potenza altro non è che il modo in cui la volontà vuole se stessa. L’unità essenziale della volontà di potenza è se stessa. Capiamo dunque come l’ “affossamento dei valori” nietzschiano sia molto più “essenziale”, potremmo dire ontologico, di quanto si possa a prima vista intuire.
Tuttavia nel caso della schiavitù, lo sterminio (annientamento) non è auspicato dal filosofo, ma contemplato nelle modalità dette finora, riservato appunto a quelle da lui considerate “razze decadenti”. Al contrario, egli sostenne il mantenimento della schiavitù quasi come condizione necessaria. Come si è spesso notato è però curioso che Nietzsche difenda la schiavitù proprio nel periodo storico in cui l’espansione coloniale procede contestualmente all’abolizione della schiavitù. Anche questo ha però una sua spiegazione razionale che si estrinseca nella volontà di abolire della schiavitù in favore di “principi umanitari” (in realtà per sostituirla con il lavoro salariato), suscitando nei più una sorta di indignazione morale per le pratiche schiaviste in favore dei diritti civili (siamo forse all’inizio di quello che in epoca recente è stato definito come“l’imperialismo dei diritti umani”…).
In “Al di là del bene e del male” Nietzsche dirà:“Nessuno mente tanto quanto l’indignato”.
In lui vanno però di pari passo la teorizzazione dell’assoluta inviolabilità della sfera delle libertà individuali e la difesa del “bene positivo”, ossia la schiavitù. In un certo qual modo, anche se in forme diverse (né potrebbe essere altrimenti), è tuttora questa la tendenza attuale della storia dell’occidente (senza dimenticare il fatto che Nietzsche rappresentava allora l’avanguardia intellettuale dei settori più reazionari della borghesia tedesca dell’epoca).
Ciò che Nietzsche sostiene è la negazione dell’universalità, là dove universalità e uguaglianza sono la stessa cosa. Il suo anti egualitarismo si manifesta nel rifiuto dell’uguaglianza fra nazioni (e fra gli uomini) e della tradizione ebraico-cristiana.Ed è un anti rivoluzionario in quanto sostenitore della tesi secondo cui il “ciclo rivoluzionario devasta l’occidente”.
Molti hanno però sostenuto, di contro , un relativismo nietzschiano e un corrispondente concetto debole di verità. Questo è, a mio modesto avviso, non esatto, poiché la verità in Nietzsche più che valore è il non-essere nascosto della volontà di potenza; l’essere dell’ente che si determina come un volere se stesso.
La verità dell’ente si troverebbe dunque nella certezza della soggettività; l’oltreuomo è oltre l’uomo attuale per necessità, per l’essere.
Tutto ciò non è in questo caso secondario poiché il dominio dell’ente come tale passa sotto forma di dominio sulla terra; l’uomo, il “superuomo” (ubermensch) non si pone al posto di Dio, il posto del superuomo è la soggettività.
L’ubermensch è per forza di cose l’uomo “nobile” e mentre fonda la sua ricchezza e splendore sul possesso della terra, occupa (per tradizione) gli alti gradi dell’apparato militare e politico.
Il beneficiario “dell’otium” è protagonista della guerra (bellum); l’aristocrazia riafferma così la sua egemonia e “distinzione” impegnandosi in guerre che hanno come bersaglio sia le masse socialiste che i “popoli barbari delle colonie”.
Torniamo quindi, in ultimo, alla definizione prima accennata della Palestina come “terra senza popolo per un popolo senza terra”. Non sembra a questo punto del tutto improprio e inopportuno un possibile punto di contatto, sia pure indiretto, tra la filosofia nietzschiana e il sionismo, dal momento che lo “sterminio delle razze decadenti” teorizzato dal filosofo si esplicò nella volontà di “toglierle di mezzo per aprire la strada a un nuovo ordine vitale”, sempre a partire dal concetto di superuomo/superspecie e della conseguente definizione di “sottouomo”.
Naturalmente, come premesso, queste sono delle ipotesi di ordine filosofico che mi sento di avanzare sulle quali potrebbe aprirsi una riflessione più ampia.
In conclusione però, ciò che ritengo in questa sede più importante sottolineare non è tanto il legame concettuale e filosofico fra il pensiero di Nietzsche e quello di Herzl (o viceversa l’autonomia del pensiero aristocratico e reazionario nietzschiano), quanto come sia il sionismo che la filosofia nietzschiana trovino terreno fertile nel medesimo periodo storico, quello che vede la transizione dal colonialismo all’ imperialismo. E come all’interno di tale scenario sia la filosofia nietzschiana che il sionismo abbiano rappresentato a mio parere degli strumenti ideologici e politici delle classi dominanti colonialiste e imperialiste dell’epoca e non solo.