Mi lega in maniera particolare a Fabrizio Marchi una affermazione forte che mi fece quando lo conobbi, ad un dibattito politico: “A Robbe’ sta sinistra qui nun c’ha più niente di popolare”. Era quasi 15 anni fa, poi ho cominciato con lui a collaborare alla redazione de l’interferenza, che ha aperto un ricco osservatorio su questa mutazione genetica, mentre intanto lui animava anche il sito Uomini Beta, uno spietato j’acuse ai danni del femminismo da una tribuna coraggiosa e rischiosa; proprio come recita il titolo del libro, ha affrontato Contromano il “sommo” tabù.
Intanto quella diagnosi si è rivelata vera e ora con il libro si intende meglio la sua carica profetica. “Una raccolta di analisi e riflessioni sul nostro tempo”, recita la controcopertina; abbiamo in compendio l’articolato promemoria di come un’intera tradizione politica ha perso la sua radice popolare e si è fatta “ideologia politicamente corretta”. Così dei 44 capitoli del testo: 2 sono dedicati all’impallidirsi della distinzione destra sinistra; 3 alla questione religiosa e cattolica; 3 della critica di Israele, l’altro tema intoccabile; 1 alla critica dell’operaismo; 5 ai temi dell’immigrazione; 4 alla galassia del relativismo etico e dei diritti edonistici (gay, transgender, utero in affitto, adozioni a go, go); 3 alla critica al post-fascismo di Costanzo Preve; 10 ad un’ineccepibile confutazione, teorica e pratica, del pensiero femminista contemporaneo. Questa pars denstruens viene sorretta da una serie di capitoli e digressioni che aggiornano i presupposti della critica marxista dell’ideologia, come ne La nuova falsa coscienza. Invece Capitale, tecnica e ideologia è un interessante paragone e valutazione del ruolo preponderate che la tecnica sta assumendo nella direzione del Capitale sempre più impersonale; conseguentemente in Capitalismo e liberalismo potrebbero divorziare? si chiede se l’integralismo del “correct” non sia la nuova frontiera dell’ideologia capitalistica post democratica. L’estensione della ricerca lascia spazio alla discussione e all’approfondimento, ma la scrittura chiara costruisce il suo discorso in forma aperta al confronto. Perciò con il suo libro ha già corrisposto un variegato fronte intellettuale e politico, tra i quali conosco e stimo due recensori del testo come Alessandro Visalli e Antonio Martone, così come ha trovato il consenso di Diego Fusaro, il filosofo del web, verso il quale Marchi non ha mai nascosto ruvide divergenze. Il libro dunque funziona, crea opinione e dibattito – è intervenuta, mi pare con garbo critico, anche la femminista Angela Mori – certo per sapienza letteraria e politica, ma sopratutto perché in ogni passaggio si avverte l’esistenza di Fabrizio. Le sue non sono dotte dimostrazioni, infatti evita di nascondersi dietro gli apparati di note e citazioni, ma assunzioni di responsabilità, anzi il consultivo di un percorso fatto di battaglie combattute in prima linea, con lo stile sfrontato e spavaldo di un “pugile”, la boxe, sua non celata passione sportiva. Insomma non ci sono solo “inerti” parole stampate, ma il redde rationaem di un confronto già lanciato, de visu, con femministe e varie fronde della morente sinistra correct. Il tono maggiore di questo “gettarsi” verso l’altro, lo si ritrova in due brevi capitoli d’intermezzo. Una domenica bestiale (p 103-110), è il racconto di una gita domenicale al mare, che già per la location del “IV cancello di Castelporziano” evoca il pasoliniano Casotto (film poi realizzato da Sergio Citti) e del poeta, con la stessa “corporeità”, riprende proprio l’attenzione all’umanità – e alla disumanità- degli emarginati. Tanto che Fabrizio per sanare l’offesa gratuita ad un venditore magrebino da parte di un gruppetto di volgari ragazzine borgatare e di un bamboccio fidanzatino smargiasso ha “…la tentazione, per la verità, di dargli un paio di ceffoni ben assestati…”. Poi però assume “…un atteggiamento paterno, da educatore…” anche considerando la sproporzione corporea. Tuttavia, “…se avesse avuto trent’anni e avesse avuto un altro atteggiamento il tutto sarebbe degenerato perché anch’io sarei stato sicuramente più duro. Può darsi pure che le avrei prese, sia chiaro, ma quel che conta in alcuni casi non è prenderle o il darle ma il messaggio che si trasmette. E poi ne ho prese così tante nella mia burrascosa esistenza di giovane cresciuto in un popolare quartiere romano, di militante politico e di boxeur dilettante che una volta di più non costituirebbe di certo un fattore traumatico…”.
In questo vivace confronto, c’è molto della “lezione” di Fabrizio non solo di personale, di aneddotico, ma di esistenziale, quindi di filosofico e infine di politico. Si assiste al travaglio interiore su “che fare?” e l’emergere della soluzione “politica”. C’è la ricerca del contatto, la valutazione di una pedagogia paternalistica (le armi della critica) oppure di un confronto più duro (la critica delle armi) e alle considerazioni sociologiche sui giovani della periferia e la crisi della famiglia, si sommano le sue impressioni, la sua radice storica. Così il ricordo della politica, come confronto cercato anche nelle palestre, tra i semplici, tra il popolo è metodo nel presente per riallacciare relazioni genuine. Inoltre lo stile letterario è lo stesso che caratterizza tutti gli altri capitoli. Non dice “pare” ma “è”, e l’io narrante è sempre in prima persona singolare o plurale, non si nasconde e perciò può svelare. Ecco la sua socratica posizione filosofica: come si fa a criticare la falsa coscienza, l’ideologia, senza essere veri, come direbbe Heidegger: senza essere autentici? L’autenticità non è una categoria letteraria ma il fondamento stesso della filosofia in quanto fonte responsabile della politica e significa gettare la propria storia personale, il proprio tempo, di fronte agli altri. Aprire l’esistenza. Ciò è l’interrogazione di Socrate e la ricerca infinita di Bruno? Il testo di Fabrizio è maieutico: snida il lettore nelle sue convinzioni, su ciò che sa del vero (femminismo, sionismo, correct in genere) e lancia un dialogo dicendo anzitutto “io penso questo”. Determina la propria esistenza.
E proprio il tema dell’autenticità è al centro del secondo capitolo intimo, intitolato fellinianamente Amarcord (p204-211). Una memoria spassosa ma puntuale della sua vicenda liceale al Visconti, il più prestigioso “Classico” di Roma, che lui però nonostante la distanza generazionale non idealizza affatto. Anzi, il suo racconto ci riporta lì, in quell’ambiente sociale, tra quei “borghesi rivoluzionari”, fighetti figli della Roma bene “insopportabili ipocriti”. Anche qui, nel colorito episodio del giovane rampollo “figlio di un noto milionario, e naturalmente, militante di Potere Operaio” andato a cena da Fabrizio, l’affresco sociologico culmina, dialetticamente, in un rapido motto pedagogico. “…Afferrava il cibo con le mani unte e quando mangiava faceva lo stesso rumore dei maiali” perciò venne ripreso con ironia dal padre di Fabrizio che osservò come “…per essere idealmente vicini alla classe operaia non c’è alcun bisogno di abbrutirsi o di fingersi poveri”. Poi, però l’attenzione si sposta e trova il suo centro in una stroncatura senza appello di Agata Moretti, madre del famoso regista Nanni “…insegnante di lettere ma siccome non sapeva nulla o quasi di italiano, storia e geografia, le sue lezioni erano dei terrificanti – per lo meno per me- tour de force di grammatica latina e greca, materie nelle quali era invece ferrata…”.
Ha citato Pasolini critico dell’illusione, anche la sua, dei giovani borghesi di fare la rivoluzione, ma segue soprattutto l’essenza dell’insegnamento del poeta, “io so i nomi dei responsabili” con il fermo coraggio di dire l’indicibile nome della professoressa, protetta dall’autorità di cotanto figlio. Compatisce l’anacronismo di un preside d’altri tempi, sottolineando invece la maggiore perversione di un’autorità irrazionale, legata all’umore, ma ammiccante tanto da estorcere benevolenza da allievi senza qualità. Nel rivolgersi alla professoressa, alle debolezze derivanti dall’aver obliato la sua responsabilità pedagogica e nel classismo dell’insegnamento formalista, ci sono echi della “Lettera” di Don Milani ma c’è anche la ricerca genealogica di quando e come nacque la “sinistra” quella con la “s” minuscola, “... anticomunista viscerale. Lei stessa dichiarava di essere una ‘liberale’ di sinistra; oggi sarebbe molto probabilmente una elettrice del PD.”
Ho voluto focalizzare l’attenzione su questi due racconti, poche pagine rispetto all’opus omnia del libro, non per sfuggire agli argomenti analitici e ridurmi al privato di Fabrizio ma perché le due “novelle” di relazioni umane, oltre a meritare il plauso letterario, rendono il degrado sociale e politico e allo stesso tempo la moralità dell’osservatore, il prendere posizione. Sono largamente concorde con la critica dell’ideologia di Marchi mentre ho posizioni politico-elettorali più divergenti essendo io più vicino al M5S e anche una differente valutazione del problema sinistra/destra che, sempre a mio avviso, attualmente non esistono più a livello parlamentare e istituzionale.
Da marxista qual è, sullo sfondo, anche delle sue critiche più feroci, c’è l’intento costruttivo di riferirsi ad un soggetto di classe “pulito” e quindi rivoluzionario. Non so se tale direzione di ricerca darà frutti in tempi politici; Fabrizio intanto apre possibilità\chiudendo ipocrisie di fede (ideologiche) e trascinando “contromano” il lettore con energia interrogante. Ogni argomento del libro fa battere la testa contro le banalità ma in ogni passo c’è il suo sostegno, il pensiero “suo proprio”. Questa presenza, questa sua prossimità al lettore, evidenzia la distanza, l’assenza della sinistra la cui idealità non più mediata da politici incarnati nell’umanità, da intellettuali organici, è diventata chiacchiera sofistica per mestieranti, rovesciandosi in una pessima ideologia subalterna, quando non servente, del nichilismo liberista.
Fonte foto: lafeltrinelli.it (da Google)