Per avviare un’indagine sull’umanità di Pavese e quindi per riannodare i fili della sua personalità e dei suoi temi narrativi è opportuno prendere spunto da due significative espressioni di Piero Calamandrei, quando fa riferimento ai “fantasmi della vergogna” e alla “eterna pena dell’uomo”. I fantasmi del giurista riguardano quel senso di colpa clandestino, sempre riaffiorante nell’intimo di numerosi intellettuali del dopoguerra, troppo accomodanti, talvolta partecipi del regime fascista. A dire il vero Pavese non rientra nella categoria, anche se le sue decisioni, o meglio, la sua incapacità di decidere, di prendere una strada coerente con le proprie idee, lo renderanno ancor di più vittima di quei tormenti spinosi. Di quel rincrescimento da sporca coscienza. Non scelte di comodo, mai dettate da spicciole convenienze, ma riconducibili appunto alla “eterna pena dell’uomo”, innata debolezza nel dolore della vita, espressione con la quale lo stesso Calamandrei commenta la lettura de “La luna e i falò”.
Pena dell’imperfezione umana, dell’impossibilità di assolvere agli obblighi dettati dalle convinzioni. In questo continuo disattendere sé stesso, ricorre in Pavese lo spasmodico desiderio di essere un altro. Artificio retorico per sottolineare la propria inadeguatezza nel rendersi impeccabile. La sua fuga in campagna ne “La casa in collina”, defezione frettolosa dalla Resistenza, è rifugio fanciullesco di deresponsabilizzazione ma tormentato dalla consapevolezza dell’occasione perduta nel dimostrare fierezza. Motivo di orgoglio e di fugace consolazione è l’essere confuso da un passante per un partigiano. Così ne “Il compagno” di sé dice: “avrei voluto essere un altro e sparire”. Sarà però il Nuto de “La luna e i falò”, l’amico ritrovato nei luoghi dell’infanzia, così rigoroso nel proprio impegno politico, a incarnare la colpa e l’impotenza di Pavese. Ma non è l’inerzia politica a bloccare l’iniziativa di Pavese, quell’incapacità di agire che Calamandrei, nel dopoguerra, mette sotto giudizio di fronte al Tribunale degli Assenti per consentirsi un’espiazione pubblica. È tradimento umano, intimo, quindi inconsolabile.
La mancanza di nerbo diventa un assillo di accettazione per i posteri. La mancata partecipazione alla Resistenza, dove cadevano i suoi amici, la sua pavidità sono state sublimate compiutamente dalla collaborazionista Santina de “La luna e i falò”, punita con la vita per i suoi tradimenti, in una proiezione di sé misericordiosa e colpevolizzante fino al martirio. O dai rimproveri nei confronti di Elvira ne “La casa in collina”, troppo attaccata alle piccole cose quotidiane per capire il mondo, dove in realtà Pavese biasima sé stesso per essersi lasciato sedurre dalla mentalità defaticante della piccineria piccolo borghese, con la quale vorrebbe sotterrare il peso della propria vigliaccheria.
Ma è nell’immaginario sul mondo femminile che vengono allo scoperto in maniera cristallina le fratture private della personalità di Pavese. Tutte determinate dalla propria incompiutezza. Nelle dinamiche relazionali con le donne emerge inesorabile il proprio non poter essere. La seduzione non arriva mai a un completamento; dalle donne si lascia sopraffare fino alla inevitabile rottura che consiste in una fuga o in una scomparsa. Vive le relazioni con l’ansia del mancato completamento dell’attrazione, con la soggezione nei confronti di donne più emancipate di lui, o più scaltre, che finiscono per lasciarsi andare con altri. Queste figure femminili sembrano vivere nella consapevolezza dell’impotenza sessuale di Pavese. Forse il reale motore di ogni suo dramma esistenziale.
Pavese cerca disperatamente di dare una dignità all’impotenza, alle manchevolezze, alla fuga dall’adesione. Ed è l’attrazione per la borghesia a fungere da terreno su cui far dissolvere le proprie carenze, da ripiegamento nei confronti delle responsabilità. Nella trilogia comprendente “Il diavolo sulle colline”, “Tra donne sole” e “La bella estate”, ma anche nel personaggio di Linda de “Il compagno”, Pavese descrive un contraddittorio rapporto con la borghesia, alla quale non riconosce alcuna qualità morale, ma nella quale prova a radicalizzare la volontà frustrata di uscire dal recinto di un’innocente giovinezza. Periodo di vita in cui non era richiesto decidere. Particolarmente incisivo il contrasto ne “Il diavolo sulle colline” tra il proprio abbandono, entusiasticamente puerile, nei luoghi della natura e la presenza corrompente della coppia borghese, indomita nell’allettare il protagonista a un’iniziazione torbida che lo costringerebbe al tormento dell’azione e della conquista.
Proprio la descrizione di una borghesia cialtrona, lasciva, disimpegnata, priva di valori, scaverà un solco con la predominante e austera cultura azionista torinese, perfettamente rappresentata dalle critiche di Calvino a “Tra donne sole”. Quel sentire civile che ha condizionato la cultura italiana fino a compenetrarsi con l’ortodossia marxista, quando lo “scrutatore” di Calvino arriva a pensare che proprio il Partito comunista incarni l’ideale mai esistito di un vero partito liberale. Con tutto il suo portato di distacco moralista dalle miserie umane. Di chi quindi riponeva nella borghesia grandi speranze di civilizzazione e le riconosceva una sorta di autorevolezza etica e storica.
Letto con gli occhi di oggi Pavese sembra essere un vero e proprio anti-eroe della modernità. I suoi complessi, i castighi personali vengono affrontati con cruda sincerità. Per questo la sua scrittura non sale mai in cattedra. È impossibilitato nel far fronte alla richiesta sociale di impeccabilità. Anche la sua iscrizione al Partito comunista nel dopoguerra somiglia a un tentativo maldestro di penitenza. Si trova a vivere in un mondo che scivola sempre di più verso ingranaggi perfetti, automatismi impersonali e nell’esasperazione della performance. Dove non esiste spazio per il dubbio, l’indecisione, l’umana comprensione delle fragilità. Tutto assimilabile alla sconfitta. Pavese ha anticipato quel crack contemporaneo dell’esistenza chiamato burnout. Fino alle conseguenze estreme. Emerge dalle sue opere una continua confessione di umanità, con tutte le meschinerie proprie dell’animo umano. Molto differente da quell’umanitarismo spocchioso, convenzionale e ipocrita dei nostri giorni.