Unde malum
Il male è tentacolare e polimorfo, ma ha un’unica matrice: il capitalismo liberista. Si declina in mille forme, è onnipresente, se si cerca una topografia del male si rischia di non comprenderlo, è penetrato ovunque, non vi è istituzione che non ne sia infetta. Il male è banale, perché i suoi corifei sono anonimi banchieri che diffondono e consolidano la cattiva novella della quantificazione e della finanziarizzazione della vita. Il capitalismo ha il suo alfabeto dei cattivi sentimenti. Il sentimento primo che instilla e diffonde è il disprezzo. Il precario disprezza se stesso. I precari non riescono ad essere corpo e classe sociale organizzata ed emancipativa, in quanto a tamburo battente si idolatrano i vincenti in ogni canale mediatico e privato, li si esalta fino alla venerazione. In tale clima di dissoluzione comunitaria ed etica il precario non può che viversi come “il perdente”. Il capitale crea i suoi paria, i perdenti sono i nuovi intoccabili oggetto di pubblico ludibrio. Il perdente non ha sostegno sociale, è colpevolizzato: è causa della sua sventura. Non ha diritto a relazioni e ad occupazioni stabili, deve vivere vagando, può solo sopravvivere.
Il capitale ha occupato ogni spazio in modo che non gli sia data la possibilità di formarsi e acquisire gli strumenti culturali con cui capire che il perdente è un mito del capitale esattamente come il vincente: il sistema competitivo produce perdenti, in quanto la competizione è truccata dalle condizioni di partenza. I vincenti sono figli delle classi dirigenti, hanno i beni materiali e le amicizie per potersi ben sistemare. Al nastro di partenza tutto è già deciso fatalmente.
Il dramma è sociale, materiale e metafisico, poiché i vincenti con il loro individualismo proprietario negano la natura umana, la quale è solidale e comunitaria. L’infelicità generale dimostra che la natura umana non è competitiva ed individualista, ma è profondamente comunitaria. La società liquida è attraversata dalla paura, in quanto il soggetto atomizzato sente la mannaia del sistema che può abbattersi improvvisa su di lui. Disprezzo di sé e paura possono ribaltarsi in aggressività sociale, la rabbia accumulata può degenerare all’improvviso senza causare cambiamenti effettivi. Il cattivo alfabeto dei sentimenti è l’epifenomeno e la sostanza del capitale. Per poter inibire ogni processo di emancipazione il capitale controlla le istituzioni nelle quali potrebbe essere oggetto di critica propositiva. Leonidas Donkis definisce la gestione delle Università e delle Accademie “capitalismo accademico”. Le Università sono gestite secondo criteri manageriali, non creano cultura, non sono la linfA dell’Umanesimo, ma riproducono il capitale nella forma della finanza aziendale e specialmente modellano i clienti, non vi sono più studenti, al paradigma del capitale. Gli studenti sono preparati per essere “galli da combattimento”, e mentre sono deformati in nome del capitale sono saccheggiati. Lo studente-cliente alla fine non può che provare disprezzo verso l’istituzione che dovrebbe formarlo umanamente, ma che lo riduce a semplice bonifico da gestire:
“La trasformazione delle università in imprese e il modello di sviluppo liberista che la burocrazia statale de facto impone loro dall’alto sono qualcosa di grottesco, che va al di là dell’immaginazione dei grandi pensatori, economisti e studiosi politici liberali. È un capitalismo accademico senza libertà, una tirannia tecnocratica e burocratica in nome del progresso.. Al tempo stesso, si tratta di un simulacro tecnocratico del libero mercato in cui la concorrenza viene fabbricata in base a criteri scelti in modo talmente tendenzioso da garantire a propri il successo a certe istituzioni privilegiate[1]”.
La libertas philosophandi ha fondato l’Europa libera e democratica, la libertà di critica è libertà di creare. Il capitalismo accademico è lotta senza quartiere contro la libertà e l’Umanesimo, non deve restare nulla della tradizione e della storia delle lotte dei popoli per liberarsi dal giogo dell’asservimento. Banchieri e avventurieri del nichilismo finanziario pianificano la distruzione della formazione intaccando le finalità paideutiche con l’elargizione dei finanziamenti pubblici e privati solo se le facoltà rispondono ai paradigmi del potere. Ancora una volta è il disprezzo distruttivo a guidare l’azione padronale: gli accademici sono servi ed esecutori del dominio. Non più intellettuali ma insigni burocrati della finanza:
“Per la burocrazia , e per una classe politica che le è simbioticamente legata, la libertà accademica è solo un ostacolo a una forma di controllo sociale, reso possibile dalla tecnologia, che impone a docenti e ricercatori di rendicontare le proprie attività le proprie attività secondo standard dal cui rispetto dipendono la distribuzione e l’erogazione di fondi pubblici[2]”.
Antipaideutica
Le Università non devono preparare, ma devono limitarsi a trasmettere competenze da vendere sul mercato del lavoro. L’utile è il catalizzatore delle facoltà. Nessuna formazione, essa è libertà dall’utile, conoscenza di sé all’interno dell’orizzonte in cui si è situati. La formazione è memoria, in quanto il soggetto vive la storia collettiva, entra in comunicazione con il proprio territorio, entra in contatto con gli uomini e le donne che hanno contribuito a fondare il presente. Il tempo della formazione non è puntiforme, poiché la formazione insegna a mettere in proficua tensione i concetti, ed attraverso di essi ci si apre all’ascolto del passato. La consapevolezza di essere all’interno di una grande storia responsabilizza, fonda la prassi etica, eleva verso l’universale. È un viaggio all’interno di se stessi che conduce al futuro. L’ostilità verso la formazione è diretta contro la memoria viva e plastica creatrice del possibile contro la mordacchia della necessità. La memoria si stratifica nella relazione. L’individualismo atomistico non ha memoria, perché rifiuta la relazione e l’osmosi del dono. Z. Bauman definisce l’attuale formazione “addestramento”, è un attacco frontale al pensiero, si desertifica ma si continuano a proclamare il “valore” della formazione. La menzogna è la verità del sistema capitale :
“Oggi ci viene chiesto di preparare i giovani a vivere in un mondo che annulla e azzera (nella pratica anche se non in teoria) l’idea stessa di poter essere <<preparati>> ossia adeguatamente addestrati e qualificati, pronti a non farsi prendere di sorpresa da ciò che accade e dalle tendenze che cambiano[1]”.
La destabilizzazione del sistema formativo è completato dagli studiosi itineranti: professori ed accademici senza patria e ruolo sono deterritorializzati, si insegna loro il cambiamento spaziale perenne, l’effetto è l’irresponsabilità etica, non si è parte di nulla, l’impegno declina e con essa la creatività. La fondazione di scuole e tradizioni di pensiero non può che concretizzarsi nell’impegno quotidiano e nelle relazioni stabili tra studiosi che contribuiscono ad un clima di fiducia, il quale è la condizione per la creatività comunitaria. L’intellettuale itinerante non entra in relazione con i luoghi e le persone, può solo sopravvivere con la flessibilità emotiva, ovvero deve organizzare la sua sopravvivenza emotiva sviluppando un sentimento di distanza e d’indifferenza:
“Gli studiosi itineranti sono figure della modernità liquida che credono, o cercano disperatamente di convincere se stessi e gli altri, che nella vita professionale i rapporti e i progetti a breve termine aiutino a non sedersi sugli allori, offrano tante nuove opportunità e siano più gratificanti di qualsiasi impegno a lungo termine[1]”.
Il fine ultimo della riorganizzazione emotiva e finanziaria è addestrare il “capitale umano” ad impostare le relazioni umani su rapporti di sostanziale indifferenza. Ci si relaziona solo per brevi periodi e solo se i rapporti producono effetti positivi. Il modello è il rapporto cliente-merce, si usa la merce fin quando soddisfa il cliente altrimenti si cambia. Dinanzi al male del capitale nelle sue forme emotive ed economiche è necessario spostare l’attenzione dai politici alla struttura economica. Spesso si contestano i politici senza mettere in discussione la radice prima del male e ciò consente al male di proliferare. Si attente l’uomo forte o il movimento che deve contenere il male. Se non si ha la chiarezza che esso alligna nella struttura e che non è possibile eliminare il male cambiando i politici si andrà incontro ad un lungo periodo di mortificazione collettiva che non potrà che favorire la proliferazione del male.
“Le <<relazioni pure>> non hanno altro fondamento che la gratificazione che se ne ricava: a sua volta che tale gratificazione si riduce e scompare, oppure si svaluta a causa della disponibilità di un’altra gratificazione maggiore, non c’è motivo per cui la relazione debba continuare[2]”.
Conoscere il male e la sua “provenienza” è il primo atto di liberazione, forse è il momento più difficile, perché è la soglia di passaggio, è il processo maieutico dopo il quale non è possibile tornare indietro. L’impegno è favorire il passaggio in modo da favorire l’organizzazione di un movimento di opposizione che abbia la chiarezza dell’origine del male in cui siamo gettati.
[1] Zygmunt Bauman Leonidas Donskis, Cecità morale, Laterza Bari, 2021 pag. 173
[2] Ibidem pag. 173
[3] Ibidem pag. 179
(4)Ibidem pag. 197
[5] Ibidem pag. 186
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