L’epoca del Capitalocene è il regno della produttività e delle scissioni. Il Capitalocene con la conseguente crisi ecologica è la manifestazione più evidente di un processo che ha il suo centro nella trasformazione della natura e degli esseri umani in risorse per la valorizzazione. La natura, ma si potrebbe aggiungere anche la comunità umana, dal capitalismo regnante è giudicata “esogena” e pertanto sostanza altra, scissa dalla totalità, la cui unica finalità è di essere trasformata in valore di scambio. La scissione diviene “visione del mondo” (Weltanschauung) al punto che il soggetto si autopercepisce come abitato da due sostanze in relazione gerarchica tra di loro: res cogitans e res extensa. Il Capitalocene è il pungolo nella carne che disfa le unità per strutturare relazioni di dominio. L’esternalizzazione della natura, e dunque la separazione tra il “soggetto occidentale” e la “natura” è radicata nella relazione tra mente e corpo, la prima ridotta a solo cervello, da controllare e capire attraverso schemi anatomici applicati, il secondo a semplice corpo meccanico da modellare ed ostentare al fine di fondare relazioni di dominio e visibilità. Lo sfruttamento, in tal modo, è sistemico, niente e nessuno sfugge dalla valorizzazione. La rete della matematizzazione diviene il modello unico a cui ogni ente deve sottostare. Il dominatore in tale contesto è anche dominato, poiché si autopercepisce e si decodifica unicamente secondo parametri di ordine efficientistico e produttivo. Ogni linguaggio e visione altra è cancellata in nome della produttività. Il Capitalocene assimila energia, include per omologare. In tale processo il modello unico assimila le altre culture e visioni, mediante il fascino acritico del calcolo, della produzione, dell’eccedenza: il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio. Quest’ultimo è la legge che governa ogni relazione umana ed ambientale. Il soggetto non usa solo “l’esterno” per fini produttivi, ma anche “se stesso”, la propria mente ed il proprio corpo sono solo docili strumenti di un io sempre più distante e scisso. Il Capitalocene perseguendo tale logica mette in pratica la schizofrenia[1] planetaria: la divisione attraversa ogni comportamento, gesto e pensiero, alla fine di tale processo si realizza pienamente il nichilismo della produttività:[2]
“La rivoluzione materialista della prima età moderna che spodestò l’olismo medievale e la teologia fu coinvolta in un passaggio epocale dalla natura storica del feudalesimo alla natura storica del capitalismo. Le rivoluzioni scientifiche dell’inizio del capitalismo sostituirono un modo di ragionare più favorevole agli ordinamenti feudali con un nuovo modo di ragionare caratterizzato dall’astrazione matematica e dalla prospettiva cartografica, favorevole alla legge del valore intesa come unità dialettica di lavoro sociale astratto e natura sociale astratta (Pickles 2004; Merchant 1988; Crosby 1997). L’audacia del progetto difficilmente può essere sopravvalutata, circoscrisse la natura “in modo da renderla determinabile e accessibile a richiesta come un sistema chiuso [concettualizzato] in modo che la totalità della [natura possa] essere accessibile alla ragione calcolante” (Heidegger citato in Elden 2006, p. 121). La novità del valore − come modo di organizzare la natura − si manifestò molto presto e in maniera spettacolare − in almeno due campi. Il primo potrebbe essere individuato in una serie di trasformazioni straordinarie e a cascata dei paesaggi e dei corpi, in tutto il mondo Atlantico e non solo; il secondo, nell’emergere di un insieme di condizioni che permisero agli stati europei e al capitale di considerare il tempo come lineare, lo spazio come piatto e omogeneo, la “natura” come esterna ai rapporti umani (Crosby 1997; Merchant 1988; Cosgrove 1985; Mumford 1961). La presunzione del capitale, fin dalle sue origini, è stata quello di ripresentare il mondo attraverso il “trucco di Dio [Godtrick] (Haraway 1988, p. 581), per trattare l’ordinamento specificamente capitalistico del mondo come naturale, pretendendo di specchiare il mondo in ciò che stava cercando di ricostruire”.
Il regno dell’astratto
Il Capitalocene prende forma all’interno dei dualismi: natura-società, struttura-sovrastruttura, locale-globale. L’astratto è la verità del capitalismo, la separazione attraversa strutturalmente ogni forma di espressione vitale concretizzandosi nell’astratto. Ogni ente è astratto dalle sue relazioni, dalle interconnessioni; l’esemplificazione dell’apparire dell’ente consente di rafforzare il paradigma dell’onnipotenza della produttività. La struttura binaria nutre il capitale che in tal mondo è parte dei processi di soggettivizzazione[3]:
“La critica al dualismo Natura/Società coinvolge non una, ma diverse strutture binarie: il repertorio di “dualismi interrelati e mutualmente rinforzantisi”, immanente al pensiero modernista (Plumwood 1993). Il terreno di questa critica è molto vasto e non mi ci addentrerò qui. Ciò che invece voglio sottolineare è la particolare e stretta connessione fra tre configurazioni di dualismi che non possono essere ignorate: natura/società, struttura/sovrastruttura, locale/globale. Mentre decostruire il dualismo Natura/Società è semplice, la ricostruzione di un metodo storico post-cartesiano implica la trascendenza di altri due dualismi: struttura/sovrastruttura e locale/globale”.
Iper-oggetti
Uno dei fondamenti del Capitalocene sono gli iper-oggetti: le conseguenze ambientali del processo di valorizzazione configurano oggetti – situazioni ambientali e sociali – non rappresentabili nelle loro dinamiche. Ogni soggetto si ritiene e si giudica non responsabile del disastro umano ed ecologico, perché è in atto una crisi dell’immaginazione. Gli effetti sono causati da una miriade innumerevole di gesti personali e complessivi tali da non rendere possibile al soggetto di rappresentarsi l’esito finale di tale infinita cumulazione di atti. La pericolosità della crisi di immaginazione si rende palese nella impossibilità del soggetto nel controllare gli effetti, rappresentarli ed assumere comportamenti responsabili. La crisi dell’immaginazione rende il principio di responsabilità lontano ed irrealizzabile. La contemporaneità non potendo usufruire che del linguaggio scientifico ha neutralizzato ogni possibilità di rappresentarsi gli iper-oggetti: il Capitalocene è affetto da una crisi esiziale dell’immaginazione. Il linguaggio scientifico congela la rappresentazione olistica e dinamica per restituirci la sola rete dei calcoli immediati:
[4]Da questa prospettiva, Timothy Morton legge il riscaldamento globale come paradigma di una nuova forma dell’ essere, l’iper-oggettualità: essa è definita dall’ impossibilità di essere compresa a partire da una posizione di esteriorità epistemologica. Il soggetto conoscente non “guarda” gli iper-oggetti, è piuttosto“ospitato” in essi, a essi forzosamente legato, da essi “circondato”: è da questa perturbante internità che ci sforziamo di comprenderli. Morton definisce gli iperoggetti viscosi ed è molto preciso nello specificare che “tale viscosità è il prodotto diretto del proliferare di informazioni. Quanto più sappiamo a proposito degli iper-oggetti, tanto più ci rendiamo conto che non potremo mai veramente conoscerli. Eppure, per quanto ci si adoperi per allontanarli, non possiamo separarci da loro” (2013, p. 180). Abbiamo sempre più bisogno della scienza climatica per combattere il riscaldamento globale, e tuttavia l’eccesso informativo rischia di ridurci all’ impotenza. Dipesh Chakrabarty coglie il punto con lucida amarezza: il cambiamento climatico, pensato attraverso il lavoro dei climatologi, ci mostra l’effetto delle nostre azioni come specie. Specie potrebbe essere il nome o il simbolo per una nuova ed emergente storia universale che appare nel momento del pericolo costituito dal cambiamento climatico. Ma non potremo mai comprendere questo universale. Non si tratta infatti di un universale hegeliano che sorge dialetticamente dal movimento storico. Il cambiamento climatico ci pone una domanda sulla collettività umana, mirando ad una figura dell’universale che eccede la nostra capacità di esperire il mondo. Sembra piuttosto un universale che emerge da un condiviso senso di catastrofe. Potremmo chiamarlo provvisoriamente “storia universale negativa” (Chackrabarty 2009, p. 222) Viene da chiedersi se la “storia universale negativa” sia l’unica forma di politicizzazione capace di opporsi alla tecnocrazia ecologica della green economy o del carbon trading (Leonardi 2012a; 2017 [in corso di pubblicazione]). Crediamo di no, per questo proponiamo una prospettiva sintomatologica per affrontare il problema: in essa diagnosi e prognosi tendono a confondersi, così come il momento analitico e quello prescrittivo. Criticare e prendersi cura diventano elementi inscindibili di una strategia di politicizzazione alternativa. Potrà sembrare contro-intuitivo, ma il cambiamento climatico riguarda meno la quantità di gas a effetto serra emessi in atmosfera che non la particolare organizzazione del nesso natura/valore che contraddistingue il capitalismo contemporaneo (Felli 2016)”.
La produzione infinita di informazioni e la quantificazione minimale hanno prodotto l’incapacità di pensare la totalità: la logica schizoide regna sovrana, essa calcola e nullifica. Il mondo diventa impalpabile, mentre la logica del dominio calcolante impera. Ogni ente e persona si ritraggono, si assiste ad una relazione inversamente proporzionale, tanto più si analizza l’ente al fine di carpirne i segreti, tanto più l’oggetto si nullifica. L’empirismo nega se stesso, poiché la moltiplicazione delle informazioni e delle divisioni inibisce la conoscenza e nel contempo alimenta una furiosa impotenza generalizzata. Il prometeo scatenato accumula informazioni senza conoscenza profonda.
Antropocene alla moda
La verità del Capitalocene è occultata dall’Antropocene[5] alla moda. L’Antropocene alla moda constata la trasformazione del pianeta a causa dell’azione umana, ma si sofferma su cause astratte e generiche: l’umanità in quanto “universale astratto” nasconde le differenze materiali, le disuguaglianze sociali nei consumi, i modelli di sviluppo. La storia è la prima vittima dell’Antropocene. Il riferimento ad una generica umanità quale causa del disastro umano ed ambientale assume un valore ideologico. Le responsabilità sono generalizzate per non esaminare la verità e la responsabilità storica. Bisogna sostituire l’Antropocene con il Capitalocene, ovvero il regno del capitale, in quanto visione onnicomprensiva del mondo capace di definire responsabilità e dinamiche storiche degli eventi in atto. La chiarezza linguistica sull’attuale condizione è la premessa necessaria per la prassi, per la consapevolezza collettiva della crisi ecologica e delle sue cause, le parole hanno un’anima significante, per cui il loro uso designa mondi differenti[6]:
Il Capitalocene è, piuttosto, un tentativo di pensare la crisi ecologica. È una discussione di geo-storia, non di storia geologica − sebbene tra le due vi sia certo un legame. Il Capitalocene contesta il modello dei Due Secoli dell’Antropocene alla moda − un modello che è stato il punto di riferimento per il pensiero green sin dagli anni Settanta del secolo scorso. Le origini della crisi ecologica moderna − e quindi del capitalismo − non possono essere circoscritte all’Inghilterra, al lungo XIX secolo, al carbone o alla macchina a vapore. La miopia storica dell’argomento-Antropocene, inoltre, sembra essere immanente alla sua cultura intellettuale. Da questo punto di vista il Capitalocene muove una critica non solo agli scienziati del sistema-Terra ma anche a coloro che stanno dall’”altro” lato delle Due Culture (Pálsson et al. 2013; Brondizio et al. 2016; McNeill e Engelke 2016), che si rifiutano di nominare il sistema. L’Antropocene alla moda non è che l’ultimo di una lunga serie di concetti ambientali la cui funzione è quella di negare la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo e di suggerire che dei problemi creati dal capitale sono in realtà responsabili tutti gli esseri umani. La politica dell’Antropocene – un’anti-politica nel senso di Ferguson (1990) − s’impegna con risolutezza a cancellare il capitalismo e la capitalogenesi dalla crisi planetaria. L’Antropocene pone correttamente la questione del dualismo Natura/Società senza tuttavia poterla risolvere a favore di una nuova sintesi. Quest’ultima, a mio avviso, dipende da un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita”.
Il Capitalocene nella sua essenza è produttività, assoggettamento della natura e degli umani, pertanto ogni sistema che persegua logiche di dominio e sfruttamento è da ritenere interno a tali logiche. L’esperienza sovietica nel passato e l’esperienza cinese oggi non hanno emancipato l’umanità dallo sfruttamento della natura parola nella quale dovrebbero essere comprese le popolazioni tutte. Naturalmente l’esperienza comunista ha avuto logiche di ridistribuzione della produzione assolutamente altre rispetto al capitalismo economico, ma non ha realizzato l’emancipazione dalla divisione della “realtà mondo” in res cogitans e res extensa: la natura è rimasta “esterna” rispetto all’essere umano. La vera rivoluzione che si delinea all’orizzonte è il trascendere le scissioni, operazione filosofica e sociale senza la quale l’umanità ed il pianeta restano un corpo diviso ed astratto al limite della disintegrazione[7]:
“Ma il Capitalocene, come cerco di spiegare nel libro che avete fra le mani, è un’ipotesi dialettica, non generalizzante”. A differenza del positivismo generalizzante, le argomentazioni dialettiche procedono per mezzo di variazioni, non malgrado esse. C’è forse qualcuno che seriamente sostenga che le esperienze “comuniste” dell’Unione Sovietica e della Cina abbiano rappresentato o rappresentino, nel lungo periodo, una fondamentale rottura rispetto alla tendenza capitalistica di ambiente-in-formazione? Il Capitalocene mette a fuoco un processo storico nel senso attribuito da Marx alla caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè come legge generale costituita attraverso le proprie contro-tendenze. Fino a che punto i progetti sovietico o cinese abbiano rappresentato/rappresentino una cesura rispetto alle precedenti ondate di ambiente-in-formazione capitalistiche è questione importante ma non decisiva. Decisivo è se questi momenti parziali abbiano o meno interrotto quelle che Lukács chiamava le tendenze di sviluppo della storia − stabilite e riprodotte nell’ecologia-mondo capitalistica nel corso della longue durée. Una politica della natura basata sul deterioramento piuttosto che sul lavoro rende la visione radicale vulnerabile a una forte critica. Questa critica afferma che la natura vergine non è mai esistita, che viviamo in un’altra delle molte epoche di cambiamento ambientale, che può essere governata attraverso l’innovazione tecnologica (Lynas 2011; Shellenberger and Nordhaus 2011). Partiamo dal presupposto che questo tipo di argomenti non sono altro che spazzatura. Il contro-argomento, per il Capitalocene, intende il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Il “lavoro” assume molte forme, in questa concezione: è un processo geo-ecologico molteplice e multi-specista. Questa definizione ci permette di pensare la tecnologia come un fenomeno radicato nelle nature co-prodotte dal capitalismo, e di vedere come il capitalismo abbia prosperato attraverso all’attivazione del lavoro della natura nel suo complesso e dell’attività umana, configurandoli come lavoro “retribuito” e “non retribuito”.
La critica dev’essere sostenuta dalle proposte, l’appello al lavoro non retribuito, agli sfruttati, non necessariamente elabora una controproposta. Sicuramente ogni progetto politico necessita della chiarezza del periodo storico, in cui si è materialmente implicati ed al quale deve seguire un riposizionamento ideologico e gestaltico. La complessità storica e le problematiche ecologiche consentono una lenta rielaborazione del lutto del crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo reale. Il lutto necessita anche di un bilancio onesto di quell’esperienza, non si deve “buttare il bambino con l’acqua sporca”. Il congedo da quel mondo non significa che l’esperienza del comunismo reale sia da dimenticare, anzi attende nuove letture le quali possono favorire la rielaborazioni di alternative. Al momento è necessario prendere distanze intellettuali ed etiche dalla economia verde, poiché ripropone modelli individualistici e di classe che conservano l’agonia del sistema, del pianeta e le disuguaglianze sociali. Il problema è se abbiamo tempo sufficiente per la lunga transizione e per riattivare nel mondo dell’anglo-glebalizzazione nuovi linguaggi immaginifici che possano accelerare i processi di rappresentazione collettiva dello stato presente e delle sue conseguenze[8]:
“La nostra percezione non è all’altezza di quanto produciamo: come sembrano innocui i contenitori del gas Zyklon B — li ho visti ad Auschwitz — con i quali sono stati distrutti milioni di uomini! E come sembra pacifico un reattore atomico con il suo tetto a cupola!”.
L’umanità del Capitalocene continua ad avere quale obiettivo il valore di scambio senza avere percezioni dei suoi effetti, senza immaginare gli effetti cumulativi delle sue azioni quotidiane. L’incultura dell’immediato accelera gradualmente l’Overshoot Day. Ogni anno la data in cui il consumo delle risorse naturali della Terra supera la rigenerazione delle stesse arretra. La temporalità si consuma parallelamente alla distruzione delle risorse. La progettualità è sempre più ristretta al consumo immediato, e pertanto il Capitalocene si deresponsabilizza verso il futuro delle nuove generazioni. Pensare il Capitalocene significa ricongiungere ciò che la produttività ha scisso per poter meglio usare e dominare, solo la visione del tutto può restituire l’immagine della verità in cui siamo situati.
[1] Schizofrenia dal greco σχιζο- che deriva dal verbo σχίζω ossia “fendere, scindere, separare”
[2] Jason w. Moore Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia mondo nell’era della crisi planetaria Ombre corte Verona 2017 pp. 98 99
[3] Ibidem pag. 63
[4] Ibidem pag. 13
[5] “Antropocene” dal greco “anthropos” con il suffisso “cene”, che proviene dal greco kainos “nuovo” o “recente”
[6] Ibidem pag. 29
[7] Ibidem pp. 31 32
[8] G. Anders, Opinioni di un eretico, cit., p. 74